Beati Paoli

di Luigi Natoli

prologo, capitolo 2

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Il duca don Emanuele Albamonte fino a quarantacinque anni era rimasto celibe, pur non disdegnando di appendere qualche volta una ghirlanda all'ara di Venere. Forte, vigoroso, esuberante di vita, sdegnando le effeminatezze della società signorile, aveva passato la giovinezza fra le sue terre: feudi immensi che si distendevano fra le valli e su per le colline staccantisi dalle aspre e nevose giogaie delle Madonie. Le selve intricate che infoltivano quei gioghi erano ricche di grossa selvaggina, ne era raro il lupo. Don Emanuele preferiva inseguire e affrontare i pericoli di queste cacce, piuttosto che lasciarsi trascinare in carrozza per la passeggiata della Marina; provava maggiore felicità a vibrare la sua daga dentro la gola di un lupo, che passare la giornata in inchini a guardarsi le belle trine delle maniche nei salotti di qualche dama.

Per queste ragioni, durante la guerra di Messina ", essendo già a capo del suo stato, accolse volentieri il bando delle armi e, come signore feudale, arruolò una squadra di milizie dai suoi stati e corse a combattere i Francesi e i ribelli. Allora aveva ventisette anni e s'innamoro del mestiere. La caccia al lupo era una bella cosa, ma la guerra era ancora più bella; c'era più eroismo, c'era più grandezza e nobiltà di gesto. E allora ottenne un brevetto di colonnello, e poichÈ, dopo la caduta di Messina, non c'era più nulla da fare in Sicilia, passò il mare e se ne andò in Spagna, pur aprendo delle grandi parentesi nella sua vita bellicosa per venire a respirare l'aria delle sue montagne.

A quarantacinque anni, però, don Emanuele si accorse che bisognava pur continuare la stirpe, e che egli sarebbe stato il primo duca della Motta, che non avrebbe trasmesso lo stato a un suo diretto e legittimo discendente. Forse dei rampolli del suo sangue ve n'erano dispersi e ignoti, ai quali il mistero della nascita, non consentiva di fregiarsi del nome di Albamonte, ma l'erede voluto dalla legge non c'era. L'idea del matrimonio gli si affacciò allora e gli fece riflettere che bisognava affrettarsi, giacchè ormai egli era troppo maturo; o farlo subito o rassegnarsi al celibato, come se fosse stato un cavaliere di Malta, e rinunciare all'erede diretto.

La sua famiglia ormai si componeva di lui, di due sorelle monache nel monastero di Santa Caterina, e di don Raimondo; due altri fratelli, maggiori di don Raimondo, erano morti in tenera età: Raimondo era l'ultimo nato. Fra loro due v'era una differenza di diciassette anni; quando Raimondo cominciava a balbettare le prime parole e a dare i primi passi, don Emanuele correva a cavallo attraverso i boschi, come un cavaliere errante in cerca di avventure. Don Raimondo era cresciuto in città nell'ombra del vasto palazzo degli Albamonte, quasi sempre solo, sotto le cure di un pedagogo prete, passando la vita fra gli studi, le pratiche religiose e qualche esercizio cavalleresco secondo il proprio grado. Ogni domenica andava a visitare le sorelle monache, alle quali non aveva mai potuto affezionarsi, perché non era mai convissuto con loro neppure un giorno nella dolce intimità familiare; ne più affettuosi erano i rapporti con don Emanuele, che egli vedeva assai di rado, quando cioè il duca tornava dalla guerra o dalle sue lunghe dimore in campagna.

Don Raimondo aveva una grande soggezione per quel suo fratello grande, robusto, rumoroso, nemico delle cerimonie, quasi rude, che lo trattava come un fanciullo. Infatti don Emanuele considerava il fratello col fare bonario di un padre tollerante e di manica larga, supponendo che don Raimondo fosse un giovane che avesse le sue capestrerie. A tavola se lo faceva venire fra le ginocchia e gli domandava:

"Su, sentiamo che bricconerie hai commesso oggi!..."

"Ma io non ho commesso nulla, signor fratello; ve lo giuro."

"Va' là! alla tua età io ne facevo di tutti i colori. È possibile che tu non faccia altrettanto?"

Don Emanuele passò una diecina di anni in Sicilia, alternando la dimora fra i feudi e la capitale e in questi dieci anni prese una viva affezione per il suo piccolo fratello, al quale proibì di farsi prete. Un Albamonte, che sono stati tutti uomini di guerra o presso a poco, infagottarsi nell'abito talare? Oibò! Che bisogno ne aveva del resto? Gli mancava qualche cosa nel palazzo dove era nato? E forse il suo fratello maggiore non lo amava? Se mai, il suo posto era nel Tribunale del Regio Patrimonio, o nella Gran Corte criminale, quando non si sentisse alcuna vocazione per le armi.

Don Raimondo obbedì con quella sottomissione che il diritto di primogenitura poteva esigere da lui, ma non potè mai assuefarsi alla familiarità del fratello.

Una mattina don Emanuele gli disse: "Caro mio, io invecchio; è tempo che io prenda moglie."

Don Raimondo levò il capo viva mente, impallidendo. Per la prima volta, forse, guardò negli occhi il fratello, ma senza tradire il pensiero interiore.

"Ho già in vista la tua futura cognata; è molto più giovane di me, ma per un vecchio tronco come me ci vuole proprio un bel virgulto giovane per farmi rinverdire."

"Quello che fate voi è sempre ben fatto," rispose don Raimondo senza entusiasmo, ma senza mostrare freddezza; e dopo un minuto di silenzio riprese: "E sarà troppo ardire domandarvi il nome della mia signora cognata?"

"Ma anzi è naturalissimo, figliolo mio; è donna Aloisia Ventimiglia, di Buon sangue. Discende dai re normanni."

"Non ho la fortuna di conoscerla..."

"Lo credo bene, figliolo: tu invece di passare la giornata all'arringo di S. Oliva, con gli altri giovani cavalieri, alle passeggiate, ai ricevimenti, fra le avventure, le carte e i colpi di spada, tu... Dove diavolo passi la giornata?"

"Ma... vado a passeggiare anch'io, signor fratello..."

"Come un frate, figliolo, come un frate; anzi peggio, perché i frati, salvando l'abito, si pigliano qualche spassetto, che invece tu pare che sfugga... Tu sei un altro Giuseppe... Io, guarda: alla tua età, le mogli di Putifarre le andavo a cercare e non lasciavo loro in mano il mantello, no."

"Voi siete un altr'uomo, e vi ammiro...

Ma non mi imiti, per bacco... Forse la colpa è mia; t'ho lasciato troppo solo: avrei dovuto condurti con me, a caccia, alla guerra..."

"Non sarei stato mai il vostro compagno."

"Perché?"

"Perché c'e troppa distanza d'anni, e avrei avuto sempre soggezione."

"Al diavolo cotesta soggezione!"

Qualche giorno dopo don Emanuele domandò formalmente la mano di donna Aloisia Ventimiglia, della nobilissima casa dei marchesi di Geraci, che aveva vent'anni meno di lui, e che usciva dal monastero di Santa Caterina, dove era stata educanda sotto la guida delle sorelle di don Emanuele. Le nozze si celebrarono da lì a sei mesi e furono sontuose, come erano di solito quelle delle primarie famiglie: nel piano del Palazzo Reale i giovani cavalieri giostrarono con magnifiche livree e bellissime invenzioni, e lo stesso Vicerè intervenne alle feste, che durarono tre giorni.

Il popolo v'ebbe la sua parte: nella piazzetta della Mercede, don Emanuele fece improvvisare una fontana che dava, invece di acqua, vino, e alcune baracche piene d'ogni ben di Dio, che la folla saccheggiò, tripudiando in onore degli sposi. Per quanto fra gli sposi fosse una grande disparità d'anni che offriva alle malelingue materia da sforbiciare, o per malcelata invidia o per fare dello spirito, non si poteva dire una coppia mal combinata, perché don Emanuele non mostrava i suoi quarantacinque anni, non soltanto per la freschezza e la sveltezza del suo fisico, ma anche e più per quella gioconda vivacità del suo spirito, che non pareva dovesse invecchiare. Forse questo guadagnò donna Aloisia. Il giorno in cui don Emanuele le aveva dato l'anello del fidanzamento, ella era rimasta come sgomenta al cospetto di quel pezzo d'uomo che non faceva inchini ridicoli e svenevoli, e rideva rumorosamente; ma durante i sei mesi aveva preso ad amarlo, pur sentendosi come soggiogata e non osando fissare a lungo i suoi negli occhi di lui. Don Emanuele le appariva a mano a mano sotto una luce che la incantava, si sentiva tutta presa per il suo bel signore che poteva esserle padre. La prima notte in cui donna Aloisia si trovò sola con don Emanuele, nel vasto palazzo degli Albamonte, ebbe paura. Trepidando gli si rifugiò nel petto come una gazzella; egli la sollevò fra le braccia, se la pose sulle ginocchia come una bambina e le domandò dolcemente, con una tenerezza che la fece piangere:

"Andiamo! avete paura di me? Vi faccio dunque paura?"

Ella non seppe rispondere che con un cenno del capo che voleva dire no, ma il suo corpo tremava sotto la dolce pressione di quelle mani, alle quali del resto non sapeva nè voleva sottrarsi. Egli la mise a letto come una bambina e si pose a sedere in un seggiolone ai piedi del letto: e così passarono più ore, in silenzio, senza dormire; poi donna Aloisia levò timidamente il capo fuori dalla coperta e, guardato con pietà, rimorso, tenerezza quell'uomo che l'aveva fatta tremare, gli disse con un soffio di voce:

"Volete passare la notte su quel seggiolone?"

Dopo due mesi don Emanuele chiamato da un dispaccio regale aveva dovuto lasciare la moglie per andare in Spagna. Gli addii furono lunghi, teneri, lacrimosi. Per quanto il duca si fosse sforzato di essere allegro e scherzoso, non aveva potuto dominare la sua commozione. Raccomandata la moglie al fratello e ad un vecchio servo fedele, era partito ripromettendosi di ritornare al più presto. Invece passarono sei mesi, che per donna Aloisia furono sei mesi di triste solitudine.

Ella non s'incontrava con don Raimondo che a tavola, e per quell'ora rimanevano in silenzio l'una di fronte all'altro, scambiando appena quelle parole che la convenienza rendeva indispensabili. Don Raimondo aveva un aspetto freddo e glaciale, quasi astioso ed ella provava per lui una specie di ripugnanza e di avversione che confinava con la paura. Quell'uomo aveva qualcosa di sinistro: almeno così le pareva. Certo non aveva per lei nessun sorriso di bontà; se talvolta le sue labbra sottili e pallide erano sfiorate da un sorriso, questo aveva qualcosa di perfido che la faceva rabbrividire. La notte donna Aloisia si faceva dormire in camera Maddalena, la sua cameriera fidata, e sprangava l'uscio e le finestre, quasi temendo una aggressione e durante il giorno procurava di non rimanere sola neppure un'ora.

Tuttavia non poteva dire che don Raimondo facesse pesare la sua presenza: ella non se lo vedeva mai intorno, ma sentiva sopra di se la luce bieca di quegli occhi neri e cupi, sentiva quello sguardo increscioso vigilare sopra di lei torbido, insistente, insopportabile. La spiava? Così lei credeva. Perché la spiava? Non passava ella il tempo, contando i giorni nell'aspettazione del suo bel signore Non si era prescritta, per tutto il tempo che don Emanuele sarebbe stato assente, una rigorosa clausura? Non aveva resistito alle tentazioni degli inviti per assistere a cavalcate, giostre, spettacoli? Oh, nessuna moglie poteva più devotamente e con maggiore abnegazione, fare di sè olocausto all'assenza dell'uomo amato! E nondimeno si sentiva spiata da quegli occhi lampeggianti sinistramente nell'ombra.

Il ritorno di don Emanuele, nel marzo, era sembrato al suo cuore il ritorno alla luce dopo una lunga notte tenebrosa. Ella gli si precipitò nelle braccia piangendo e mormorando: "Non mi lasciate più! non mi lasciate."

Don Emanuele si informò dell'andamento della casa e parve contento e soddisfatto del contegno riserbato del fratello; la qual cosa gli rese meno dolorosa la nuova partenza, quattro mesi dopo la rinnovata luna di miele.

Questa volta donna Aloisia gli si abbarbicò al collo e non voleva lasciarlo, disfacendosi in lacrime e in preghiere.

Don Emanuele per non lasciarsi vincere dalla commozione, fingeva di arrabbiarsi: "Via! che cosa sono coteste debolezze? Animo! mi fate andare in collera!"

Ma non si risolveva a separarsi, preso da una grande tenerezza per quella creatura, e da una gran collera contro sua Maestà, che pareva lo facesse a bella posta a turbargli le dolcezze di una vita, che egli si pentiva di avere conosciuto troppo tardi. Pallido, freddo, col suo sguardo tagliente come una lama e la bocca stretta, don Raimondo non pareva commosso di quegli addii. Il duca partì, dopo avere raccomandato caldamente ed affettuosamente la moglie al fratello.

Il dì della Vergine, il 5 agosto, donna Aloisia sentì pulsare nel suo grembo una nuova vita. Era sola; trasalì e scoppiò in pianto, ma provò una grande consolazione. D'allora in poi le parve di avere una custodia, e la maternità riempì le sue ore di solitudine e di sgomento, parlando con la buona Maddalena di quella creatura, nella quale le sembrava di avere presente il marito lontano. Un giorno, entrando nella sala da pranzo con le vesti un po' larghe, s'accorse che gli occhi di don Raimondo si erano posati sul suo grembo con una insistenza indagatrice. Arrossì e n'ebbe paura. Paura non per sè, ma per la creatura che le si agitava nel seno, come se anch'essa avesse sentito quello sguardo. Istinto? Chiaroveggenza? Pazzia? Non lo sapeva ma da quel momento le sembrò che don Raimondo insidiasse il nascituro.

Egli si accorse della diffidenza e della paura destata? Forse sì. Cercò di sorridere e di scherzare.

"Ebbene, signora cognata, ci siamo dunque?"

Donna Aloisia arrossì, chinò il capo e non rispose.

"Ecco dunque che avremo un nuovo duca della Motta."

Le sue parole erano d'augurio, ma a donna Aloisia parve che nel tono celassero una grande amarezza, quasi una collera sorda, un livore. Ma perché?

D'allora in poi ella fu più chiusa, più riserbata, più guardinga; temendo che la malevolenza del cognato potesse nuocere alla sua creatura, che egli potesse tramare sortilegi e altre fattucchierie per uccidergliela, si circondò di tutte le precauzioni che le venivano consigliate dalla credulità di quei tempi. Andò alla chiesa di S. Francesco di Paola, dove, mercè una buona elemosina, si fece dare due fave e due ostie benedette, il cordone di lana nera e la candeletta con la leggenda: tutte cose efficacissime. Mangiò le fave e le ostie in chiesa stando in ginocchio devotamente e a casa cinse sulle carni il cordone benedetto. Le parve così di essersi premunita, e si tenne più sicura, ma evitò sempre d'incontrarsi con don Raimondo.

Così scorrevano i mesi; una grande consolazione e una giornata di gioia e di dolci lacrime le procurò in questo tempo una lettera di don Emanuele, al quale lei aveva partecipato la grande novella. Don Emanuele le scrisse una lettera piena di tenerezze; affermando che il nascituro non poteva essere che maschio, si abbandonava ai sogni della sua fantasia e circondava l'erede di tutte le gioie. Anche egli parve pieno di quella maternità, nella quale si continuava la sua stirpe. Ecco: gli avi suoi dovevano essere lieti che le virtù trasmesse fino a lui da un lungo ordine di primogeniture, non si estinguessero, o meglio non si arrestassero in lui: egli ubbidiva alla grande legge della razza, e le tramandava al suo nascituro. Trecento anni di nobiltà vegliavano sulla nuova culla.

Quella lettera, nella quale don Emanuele annunciava il suo prossimo ritorno, impiegò circa due mesi per arrivare a Palermo, cosìcchè donna Aloisia, che l'ebbe negli ultimi di novembre, aspettava di giorno in giorno lo arrivo del marito.

Si sapeva dagli avvisi venuti da Roma e da Napoli che la guerra era finita, che la pace era stata conchiusa e don Emanuele, quindi, non aveva più ragione di trattenersi al campo e, secondo la sua lettera, sarebbe dovuto essere partito. Come mai non arrivava? Donna Aloisia ne era impensierita e farneticava mille pericoli, che la buona Maddalena tentava di distruggere.

"Vostra Eccellenza non abbia paura," le diceva; "di questi tempi la stagione non da affidamento e sua Eccellenza il signor duca non si metterà in mare, se non lo saprà tranquillo..."

Ovvero le diceva: "Che sappiamo noi se il re gli abbia dato qualche incarico?

Sua Eccellenza e un uomo, e un signore di quelli che il re conta sulle dita..."

Ma donna Aloisia, se da una parte per il bisogno che ha lo spirito di afferrarsi alle spiegazioni che offrono un conforto e una speranza, conveniva con quello che diceva Maddalena, dall'altra non poteva sopprimere le ansie, le apprensioni, le paure che la angustiavano e che il silenzio del duca e la mancanza di notizie, anche indirette, aumentavano.

Una mattina, vincendo ogni repulsione, disse a don Raimondo: "Ma neppure voi avete ricevuto notizie di don Emanuele?"

"Se ne avessi avuto, ve le avrei comunicate..."

"Non potreste andare dal Vicerè a sapere qualche cosa?"

"Andrò, per farvi piacere, ma suppongo che il Vicerè avrebbe mandato qualcuno dei segretari, se avesse avuto qualche cosa da far sapere..."

"Voi comprenderete che questa mancanza di notizie mi tiene in uno stato..."

"E avete torto: nessuna nuova, buona nuova... Ma per togliervi d'apprensione, andrò stasera a Palazzo."

"E io ve ne sarò grata."

Pronunziò queste ultime parole con accento di così sincera commozione, che pareva fossero corsi sempre cordiali rapporti fra loro due; e il sentimento di riconoscenza che provava, come se egli avrebbe dovuto recarle veramente una notizia consolante, non le fecero sorprendere il perfido sorriso che errò sulle labbra sottili di don Raimondo, e il lampo di malvagità che illuminò il suo sguardo.

Don Raimondo ritornò senza alcuna notizia. Neppure il Vicerè sapeva nulla; supponeva però, che essendo stato il duca fra i negoziatori della pace, probabilmente aveva dovuto recarsi a Madrid.

"No, no! me lo avrebbe avvisato!..."

La gravidanza si compì nel dolore muto di quella mancanza di nuove; ogni giorno che passava, lo scoramento cresceva: donna Aloisia sentiva la disperazione impadronirsi del suo cuore. Erano lunghe giornate di lacrime, celate spesso nell'ombra della solitudine. Maddalena, spinta dalla sua devota affezione, osava muovergliene dolci rampogne.

"Vostra Eccellenza si ammala e ammalerà la creatura, che Dio liberi!..."

Queste parole le ricacciavano indietro le lacrime ed ella si riconcentrava tutta nel pensiero della sua creaturina, tremando all'idea che potesse ammalarsi, e procurando di rimanere tranquilla.

Il giorno, però, in cui sentì i primi sintomi del gran momento, la prese uno sgomento angoscioso. Ella non avrebbe veduto accanto a sè altro volto amico che quello di Maddalena. L'uomo che avrebbe potuto e saputo infonderle coraggio, che con la dolce carezza, col giocondo sorriso, con la parola sicura l'avrebbe guidata in quel grande, augusto e misterioso frangente, non era li al suo fianco; e lei non sapeva neppure dove fosse; non era lì e non avrebbe accolto fra le sue braccia, non avrebbe dato il benvenuto al nato da lui, nel suo primo apparire al mondo!

"Don Emanuele! Don Emanuele! perché mi avete abbandonata?" gridò disperatamente.

Ma la natura ebbe ragione del suo dolore; quello che doveva avvenire avvenne per le leggi indefettibili e immanenti della vita.

Il piccolo essere venne alla luce ed ebbe soltanto il bacio della madre...

Egli non avrebbe mai avuto il bacio paterno.