Beati Paoli

di Luigi Natoli

prologo, capitolo 3

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La mattina dopo, verso le diciassette ore d'Italia, un valletto di Palazzo venne a cercare di urgenza don Raimondo, da parte di sua Eccellenza.

Don Raimondo, che stava informandosi, correttamente, come la cognata avesse trascorso la notte, disse in fretta a Maddalena: "Se la signora duchessa domanda di me, ditele che ritornerò a momenti."

E per fare più presto se ne andò a piedi, ordinando alla servitù che gli mandassero la portantina al Palazzo Reale.

Se il Vicerè mandava a chiamarlo era segno che aveva qualche notizia da comunicargli. Avrebbe confermato quello che fra Marcello de Oxorio gli aveva riferito? Percorse la strada in breve tempo e giunse a Palazzo quasi contemporaneamente al valletto che era venuto a chiamarlo. Il Vicerè lo aspettava nello studio, seduto dinanzi a una gran tavola piena zeppa di carte.

"Ah! signor cavaliere," gli disse con voce di cordoglio "purtroppo vi avevano detto la verità!"

"Mio fratello?" esclamò don Raimondo impallidendo.

"Dio l'ha voluto con sè..."

Don Raimondo ebbe un fremito per tutta la persona; pallido, le labbra serrate, non sapeva trovare una parola.

Il Vicerè aggiunse confortandolo: "Bisogna rassegnarsi alla volontà di Dio!..."

Poi, dopo un momento di silenzio, riprese: "Penso intanto alla povera duchessa, nelle condizioni in cui si trova... Mi avevate detto che era sopra parto?"

"Eccellenza sì," rispose don Raimondo con voce soffocata "ella si è sgravata stanotte..."

"O signore Dio! Ed e?..."

"Un maschio," balbettò il cavaliere Albamonte coi denti serrati.

"Povera duchessa!... Usted pro curi di tenerle celata questa notizia..."

Don Raimondo fece un gesto che poteva essere interpretato come un assentimento o una promessa. Poi, dopo un breve silenzio domandò: "Vostra Eccellenza ha ricevuto notizie ufficiali?.."

"Ecco," disse il Vicerè prendendo di fra le carte una lettera; "stamattina sono arrivate due galere da Napoli, sulle quali s'era imbarcato il corriere di Roma... Il signor duca è morto in Africa, ad Algeri..."

"Ad Algeri?..."

"Ucciso..."

"Ucciso? Mio fratello?"

Pallido, con gli occhi sbarrati dallo stupore, la bocca socchiusa, in preda a una viva commozione che non riusciva a dominare, don Raimondo balbettava macchinalmente:

"Ucciso!... Ma è sicuro?"

"Sicurissimo. La notizia fu recata da uno che lo vide morire."

"Ad Algeri?.."

"Così dice la lettera del signor ambasciatore di sua Maestà Cattolica. La lettera non abbonda di particolari, ma è abbastanza precisa. Due galere toscane catturarono un mese fa una galera algerina e ne liberarono i cristiani rematori. Ve ne erano di siciliani; uno di costoro raccontò di essere stato preso dai mori nei primi di ottobre dell'anno scorso, con altri cristiani che viaggiavano da Marsiglia a Napoli in una tartana. Fra i prigionieri vi era il signor duca della Motta. Pare che il duca abbia tentato un colpo di mano per liberare sè e i compagni, ma l'audacia gli costò la vita. Gli altri, trasportati ad Algeri, furono gettati negli ergastoli e poi mandati a remare sulle galere..."

"E quest'uomo che ha narrato il fatto?" "Ignoro che ne sia. Naturalmente il governatore di Livorno mandò la notizia a Firenze, donde, trattandosi di un suddito di sua Maestà Cattolica e di un patrizio illustre, ne fu data comunicazione all'ambasciatore di Spagna a Roma... Fra Marcello de Oxorio purtroppo aveva detto la verità."

"Ma," obiettò don Raimondo "il signor duca mio fratello aveva condotto con sè due servi..."

"È ovvio che saranno stati presi anche loro. O si trovano fra i cristiani liberati dalle galere toscane, o saranno in qualche ergastolo, o venduti... Ad ogni modo, Usted procuri di tenere celata per ora la notizia alla signora duchessa; saprà, poi, con prudenza, a poco a poco farle comprendere la grande sciagura... Io farò domani celebrare una messa di requie nella cappella di Palazzo..."

"Oh, Dio! Dio!" balbettava don Raimondo smarrito in un torbido mare di pensieri. "Quale sventura! quale colpo!"

"Credete, signor cavaliere, che l'animo mio non è meno turbato del vostro. La città perde un ragguardevole cittadino che ne era lustro e! decoro, e sua Maestà un fedele valoroso servitore..."

Don Raimondo taceva. Per un istante ambedue stettero in silenzio.

"E potrebbe vostra Eccellenza far fare delle indagini su quell'uomo che portò la notizia?"

"Se lo desiderate, col corriere che partirà domani scriverò a Roma."

"Ne supplico vostra Eccellenza... Comprenderà facilmente l'ansia e l'interesse di sapere più minute notizie sulla sventurata fine del mio signor fratello..."

"È troppo giusto. Intanto eccovi investito di un incarico non meno pietoso che grave... Questa povera creaturina venuta al mondo in un momento così tragico, avrà in voi un padre."

Don Raimondo si riscosse, si fece più pallido e più cupo, e rispose con un monosillabo che veramente egli non sapeva che cosa volesse significare.

"Già..."

I suoi occhi ebbero un bagliore sinistro e un fremito serrò le sue mascelle.

Uscì dal Palazzo Reale barcollando. Il duca di Veraguas credette che fosse per il dolore e sospirò dietro a lui: "Povero don Raimondo! Il duca era stato per lui un secondo padre".

Giunto a casa, il cavaliere Albamonte si informò se donna Aloisia era desta e le fece domandare se gli permetteva di salutarla e di vedere il suo signor nipotino. Ella provò un senso di vergogna, ma non di repulsione: l'orgoglio della sua maternità soppresse ogni altro sentimento e si sentiva felice di mostrare la sua creatura. La sua felicità era soltanto oscurata da una nube di mestizia: il ritardo del marito.

Don Raimondo entrò con un viso impenetrabile, si mostro cortese, le domandò se stesse bene e si chinò sulla culla a guardare il neonato. Lo guardò lungamente con uno sguardo inesprimibile. Il piccolo essere dormiva; il volto ancora enfiato, paonazzo, coperto di una lievissima peluria, chiuso in una cuffia ornata di pizzi e di nastri, il corpicino stretto nelle fasce, con le braccia barbaramente imprigionate. Respirava serenamente: ogni tanto sul visetto passavano delle contrazioni che lo scomponevano, lo altera. vano come soffio di vento sopra le messi. Pareva che l'insistenza di quello sguardo turbasse la serenità del sonno. Se donna Aloisia avesse potuto vedere il volto di don Raimondo in quel momento di contemplazione avrebbe avuto paura: e l'immagine del nibbio sospeso sul nido del rosignolo, le sarebbe apparsa dinanzi agli occhi. Ma don Raimondo le volgeva le spalle; ed ella era felice nello scorgere il cognato così attento, supponendo che un sentimento di tenerezza lo trattenesse su quella culla.

"Non è bello?"

Don Raimondo si levò, rabbrividendo a quella voce, come ridestato da una visione. Rispose con un sibilo: "Sì..."

Ma i suoi occhi non si scostavano da quel visino emergente tra le ricche trine. Bello? Egli non comprendeva la bellezza che gli occhi della madre riconoscevano in quel mostriciattolo; egli vedeva lì, in quel viluppo di carne incosciente, il possessore di un ingente patrimonio; quella "cosa" aveva sul suo capo una corona ducale e nel suo piccolo pugno, incapace di stringere un nulla, teneva feudi, villaggi, una folla di servi, di contadini, di vassalli. Quella "cosa" era già un segno, una immagine, un simbolo di grandezza e di potenza dinanzi al quale tutti si chinavano con religioso timore, con soggezione.

Solo che egli avesse premuto con un dito sul cranio ancora molle o sulla gola di quell'innocente, e quella vita si sarebbe arrestata per sempre, e quel simbolo di grandezza, quella significazione di signoria sarebbe passata a lui. Che cos'era quella vita ancora informe, incosciente, inutile? Chi avrebbe potuto notare il suo passaggio dall'alvo materno al grande e non meno misterioso grembo della terra? Quegli occhi non avevano ancora veduto il sole; quella bocca non aveva ancora detto: "Io sono". Era un uomo? No, era una cosa.

Passò tutta la giornata solo, chiuso in un grande silenzio, cupo. Un pensiero malvagio gli suggeriva di andare dalla cognata e dirle: "Il duca è stato assassinato!"

Ma qualche cosa lo tratteneva, che non era certamente un riguardo alle condizioni delicate in cui donna Aloisia si trovava. Nel silenzio v'era forse un fondo di perfidia o un certo calcolo. Ma comunicò la dolorosa notizia alla servitù, alla levatrice, al parentado. Era una maniera indiretta di farla pervenire all'orecchio di donna Aloisia.

Il palazzo parve infatti come colpito da un fulmine: un grande silenzio lo avvolse, nel quale le persone si muovevano come ombre oppresse dalla sciagura; e tutte avevano uno sguardo di pietà affettuosa per la puerpera, pur non osando pronunciare una parola di conforto. Verso sera venne qualche lontano parente; prima di entrare nella camera di donna Aloisia, si fermavano in sala a bisbigliare qualche parola con don Raimondo. Ella udì quel bisbiglio con animo sospettoso e si meravigliò non poco nel vedere poi quei parenti in vesti abbrunate. Nessuno però faceva la più lieve allusione. Sebbene i visitatori avessero qualche cosa d'insolito nell'aspetto serio e quasi taciturno e un certo imbarazzo, donna Aloisia non sospettò nulla. La sua meraviglia anzi si mutò in malumore, parendole che quel modo di far visita, quegli abiti bruni fossero di cattivo augurio per la sua creatura.

Ma il giorno dopo, quando vide entrare in camera don Raimondo, pallido, freddo, vestito di un lutto rigoroso e strettissimo, che non poteva lasciare dubbio, mandò un grido acutissimo e straziante: "Don Raimondo!... che cosa è accaduto?..."

Il cavaliere Albamonte chinò il capo senza rispondere, come se la risposta gli riuscisse pesante e dolorosa.

"Don Emanuele?... Dite!... Don Emanuele?"

Egli serbò lo stesso profondo silenzio. In piedi, immobile, con gli occhi bassi, da tutta la sua persona usciva la triste affermazione della sventura. Donna Aloisia stette un minuto come aspettando, con le mani giunte, il cuore sospeso, le tempie martellanti; ma quando l'eloquenza del silenzio le dissipò fin l'ombra più lieve del dubbio, allora mandò un grande urlo e cadde sui guanciali.

Un sorriso balenò appena sulle labbra sottili di don Raimondo e i suoi occhi corsero rapidamente sopra la culla.

Allora, come se non si fosse aspettato che il segnale, tutto il palazzo risonò di pianti. Il dolore che dapprima si era manifestato in lacrime e in sussurrii sommessi e celati, ora si abbandonava liberamente in querele e in pianti. La piccola culla si trovò circondata non di sorrisi di gioia, ma di lamenti compassionevoli.

Don Raimondo s'era ritirato nella sua stanza. Pensava. La fortuna gli metteva nelle mani quella "cosa": non c'era che un passo da fare. Gli avevano detto che un gran dolore poteva uccidere una donna fresca di parto; donna Aloisia aveva perduto i sentimenti, il che era prova evidente che il colpo ricevuto era stato assai forte. Se ella fosse morta, il piccolo e insignificante involucro di carne, che rappresentava una corona feudale, sarebbe rimasto in sua balia. Ed è così facile morire in quell'età!

Quando poco dopo gli dissero che donna Aloisia aveva la febbre, il suo cuore sussultò di gioia, ma seppe celare il perfido sentimento sotto il pallore del volto: "Mandate per il medico" ordinò.

"Mandate a chiamare il padre Alaimo.

Non voleva si credesse che non aveva cura della cognata.