Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte prima, capitolo 3

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"Bisogna risalire a più di venti anni addietro, ai primi del 1693. Padre Giovanni ed io eravamo allora nel convento di Catania. Nel gennaio di quell'anno indimenticabile avvenne quel tremendo terremoto che sparse la desolazione e la rovina in tutta l'isola... Quale spavento, Dio mio, quale orrore!...

La prima scossa avvenne un venerdì, il 9 gennaio, di notte; la seconda l'11, domenica, nel pomeriggio. Catania ne fu inabissata... Io udii un rombo come di mille tuoni, e nel tempo stesso mi sentii balzare contro la parete della cella, e dalla parete contro la porta, che si sconquassò. Non ebbi il tempo di riavermi che la cella rovinò, rovinò il corridoio; io mi trovai nel vano della porta e forse a ciò, per volontà di Dio, debbo la mia salvezza. Per un po' rimasi come cieco, e non udivo che rombi, e rovinare di muri ed urla e gemiti... Quanto tempo passò? Lo ignoro. Mi trassi da quelle rovine e mi guardai intorno; il convento era un'immensa rovina; non avanzavano che alcuni muri scheletriti, orribili... Mi diedi a brancolare sopra le rovine, chiamando; udivo dei gemiti e non vedevo nessuno; scorsi qualche lembo di tonaca fra le macerie, qualche mano stesa come in cerca di aiuto...

Sotto un mucchio di rottami trovai padre Giovanni illeso: "Su, in nome di Dio!" gli dissi: "venite con me, cerchiamo di salvare i frati."

Avevo perduto ogni direzione, perché il terremoto aveva cancellato la pianta dell'edificio. Credendo di entrare in quelli che erano stati i corridoi, ci trovammo nella sagrestia, dove i sassi avevano spezzato gli armadi. Padre Giovanni indossò una stola e prese un crocifisso; indovinando il suo pensiero l'imitai; fino a notte ci aggirammo tra le rovine del convento, cercando di salvare qualcuno. Eravamo sopra una immensa sepoltura.

La notte fu orrenda. Intorno al convento noi non vedevamo che macerie spaventevoli e ogni tanto, a un nuovo fremito della terra, vedevamo piombare giù, con terribile fragore, gli avanzi screpolati e deformi... Nella sagrestia, dentro qualcuno degli armadi ci dovevano essere delle candele e delle lanterne. Andammo a cercarle, per non restare al buio, e le trovammo. Bisognava trovarsi un ricovero, perché non c'era nel convento un angolo sicuro. Accendemmo due lanterne e c'incamminammo. La città non era più riconoscibile; rovine e rovine dappertutto, mostruose e spaventevoli; più spaventevoli ancora della notte. Qua e là vedevamo qualche ombra fuggire, come inseguita: udivamo gemiti e pianti; dei cadaveri insanguinati apparivano fra i sassi, il terriccio, i mobili sfasciati, confusi".

Il frate si fermò, e si passò una mano sulla fronte, indi riprese...

"No; non è possibile ridire quel che vedemmo. Ci mancò l'animo di proseguire innanzi ed eravamo stanchi. In un breve tratto di via, inciampando, cadendo, ci eravamo fermati cento volte, a ogni gemito, per dare il solo aiuto che ci era consentito, l'assoluzione in articulo mortis a poveri infelici che non vedevamo, ma sui quali, evidentemente, si aggirava la mano della morte.

Vedemmo una casa, che aveva resistito meglio delle altre; un angolo rimaneva intatto, difeso da una parte del tetto; era un primo piano, forse, ma per le macerie accumulate, era diventato un pianterreno. S'era messo a piovere; dei lampi squarciavano le tenebre e rivelavano per un attimo lo orrore di quelle rovine. Noi chiudevamo gli occhi per non vedere, tanto e tale era lo spavento che ci riempiva l'animo... Quando giungemmo a quel l'angolo ci si presentò, al chiarore delle lanterne, uno spettacolo miserando: quattro persone giacevano fra le rovine, due vecchi, uomo e donna, sfracellati, sanguinolenti, deformati, una donna giovane e avvenente, con le gambe spezzate, un bambino: i due vecchi erano morti, la donna gemeva per le ferite, il bambino aveva una ferita al capo, sull'alto della fronte..."

Padre Bonaventura prese una candela e l'avvicinò al volto di Blasco per illuminarlo meglio. Il giovane pallido e muto si tastò la fronte, sulla quale, in prossimità del cuoio capelluto, si scorgeva ancora un piccolo solco.

Il frate continuò: "Soccorremmo alla meglio quella donna, aspettando il giorno. V'erano delle coperte e qualche guanciale fra i rottami e ce ne servimmo per renderle meno penose quelle ore lunghe e tragiche. Così passammo la notte. Nessuno, fuori del bambino, dormì. Si udivano sempre dei brontolii cupi nelle viscere della terra, e dei tremiti improvvisi, che facevano trabalzare le macerie e gemiti e urli che non avevano più nulla di umano.

Quando apparve il giorno avemmo un'idea dell'orrenda catastrofe. Catania non esisteva più; era un mucchio enorme, indeterminato, spaventevole di rovine mostruose, terrificanti, sotto le quali giacevano sedicimila persone.

Vedemmo su questa grandissima rovina vagare pochi superstiti, laceri, esterrefatti, con sembianze folli, quali strappandosi i capelli, quali scavando rabbiosamente la terra, anche con le unghie; altri carichi di fardelli di roba forse non propria; qualche prete si aggirava per recare conforto; qualche generoso s'adoperava per salvare poveri feriti o per sottrarre dalle macerie gente ancora viva.

Padre Giovanni ed io prendemmo un'imposta divelta dal suo stipite, vi stendemmo sopra le coperte e il cuscino e vi adagiammo quella donna, e cautamente cercammo di uscire da quel luogo funesto. Il bambino si aggrappò alla tonaca di padre Giovanni.

Non potevamo rimanere in quell'immenso cimitero, dove non c'era neppure di che sfamare quei poveri sventurati e dove per il continuo crollare di muri la vita correva pericolo. Bisognava allontanarsi e trovare un asilo. Nè io, nè padre Giovanni conoscevamo quella donna; ignoravamo dunque di che paese fosse e se avesse parenti. A una sosta glielo domandai. Ella si chiamava Cristina, ed era da Castiglione. Le domandammo se voleva essere portata a Castiglione, dove forse c'erano i parenti, ma con una espressione di terrore e di vergogna rispose vivamente di no.

Che fare dunque? Dove andare?

Eravamo usciti in campagna e an che la campagna offriva uno spettacolo d'orrore. Le case coloniche dei dintorni erano distrutte; tra le rovine delle stalle giacevano le bestie morte; larghe fenditure nella terra avevano inghiottito alberi e siepi per lungo tratto; i torrenti erano deviati; dappertutto le impronte terribili del flagello di Dio. Non avevamo una meta. La strada o sentiero che avevamo preso, conduceva a Misterbianco; speravamo di trovare lì qualche aiuto, tanto più che altri fuggiaschi procedevano per lo stesso cammino.

Quello che più ci angustiava era lo stato di quella donna, le cui gambe si gonfiavano e diventavano livide.

Noi non sapevamo che farle, e medici non c'era dove trovarne, se pur qualcuno si era salvato. Oltre a ciò eravamo stanchi e il bambino piangeva, rifiutandosi di andare più innanzi; il poverino aveva i piedini laceri e tremava di freddo.

Un carro tirato da buoi, carico di materassi e involti di roba rubata, ci precedeva. Pregammo il carrettiere di prendere il bambino e la donna sul carro e noi saremmo andati a piedi.

Il miserabile osò domandarci del denaro: padre Giovanni che era allora forte e robusto, lo prese per il collo e, serrandoglielo come in una morsa, gli disse: "Tu sei un malandrino, ma non per me; ed io sono buono a gettarti sotto le ruote del carro, certo di fare un'opera meritoria.

La stretta sembrò più persuasiva delle parole e così potemmo adagiare la povera ferita sopra quei sacchi, e metterle accanto il bambino.

A Misterbianco mi accorsi che la Cristina diventava cadaverica, e noi correvamo il rischio di portare con noi una morta, e di non avere alcun indizio dei parenti, per consegnare il bambino. Manifestai le mie osservazioni e i miei sospetti a padre Giovanni, che fu d'accordo con me sulla necessità di trovare un ricovero alla ferita.

Anche le poche e povere case di Misterbianco erano rovinate, ma la chiesa di S. Maria della Grazia era tuttavia in piedi, salvo il campanile, e noi vedemmo alla finestra il vicario e gli altri preti guardare curiosamente l'esodo dei catanesi superstiti.

Alla porta, alcuni uomini armati respingevano coloro che volevano cercare un ricovero nella canonica. Ciò rendeva impossibile a noi di chiedere ospitalità in quel momento; bisognava cogliere il momento opportuno per poterlo fare, senza essere veduti.

Togliemmo Cristina e il bambino dal carro e l'adagiammo sopra l'erba molle ancora di pioggia.

Le sue gambe erano diventate nere, il suo volto livido; ella ci guardava coi grandi occhi dilatati, mormorando disperatamente: "Ah! mio povero figlio!.."

Cercammo di consolarla, promettendole che non l'avremmo abbandonata. Padre Giovanni andò alla porta della canonica a parlare con quegli uomini: l'abito potè più delle parole. Approfittammo di un istante per trasportare Cristina in una stanza a pianterreno non potendo portarla su perché il tormento era acerbo. Ci furono tutti attorno. Una donna portò un pagliericcio e accomodammo alla meglio un letto; cercammo di rianimare la povera donna con un po' di vino generoso, e domandammo se tra i frati ce ne fosse qualcuno che si intendesse di chirurgia. C'era: ma l'opera sua era vana. La cancrena aveva avvelenato già il sangue della poveretta e l'amputazione delle gambe, unico rimedio, era inutile; senza dire che non si trovavano nel convento tutti i mezzi dell'arte.

Dai nostri volti Cristina comprese che non v'era più speranza per lei. Si strinse il bambino al petto, baciandolo e piangendo.

"Che sarà di quest'innocente?" esclamava.

"Dio provvederà a lui" rispondemmo; "non disperate. Noi non abbandoneremo questa creatura."

Volle baciarci le mani. Era una pietà!".

Di nuovo il frate si fermò, commosso dalla rievocazione di quella scena. Blasco stava col capo basso, e due lacrime gli solcavano in silenzio le guance.

"Padre Giovanni - riprese padre Bonaventura - pensava di esortare Cristina a pensare all'anima; ma la poveretta lo prevenne.

"Voglio confessarmi" disse.

Uscirono tutti; rimanemmo noi tre.

"Chi volete di noi?" le domandai.

Ella stette un po' soprappensiero e rispose: "Restino tutti e due; una parte della mia confessione è bene l'abbiano entrambi... per ciò che può interessare la sorte di questa creatura... è la mia storia..."

E ce la narrò interrotta da lacrime, qualche volta arrestandosi per vergogna, o per baciare il figlio. Io te la ridirò, figliuolo, perché è bene che tu la conosca, ormai; ed è bene che la tua pietà filiale dia qualche suffragio all'anima di quella povera martire. Ella ne sarà lieta di là".

"Cristina era di Castiglione; suo padre si chiamava Francesco Giorlanda, ed aveva in gabella alcuni noccioleti, che si stendevano fino alla Motta, ed erano proprietà di... un potente barone. Cristina era unica figlia, ed era assai bella.

Il barone, quando non se ne andava per le guerre di sua maestà perché era colonnello di un reggimento - passava buona parte del l'anno nel suo castello, dilettandosi della caccia. I boschi che circondavano Castiglione, e che si distendevano da Linguaglossa su per il pendio dell'Etna, offrivano cacce abbondanti e audaci, e il duca amava e cercava le imprese arrischiate. Ancora giovane, di maschia bellezza, forte, gaio, spensierato, avido di piaceri, potente, generoso, egli, disgraziatamente, non si limitava alla caccia della selvaggina soltanto. C'era troppa vitalità in lui perché i suoi nervi stessero a freno; e poco timor di Dio per correggere le pessime abitudini contratte nella vita dei campi.

Molte ragazze o abbagliate dalla vanità, o sedotte dalla ricchezza, o affascinate dalla bellezza vigorosa del signore, tutte soggiogate dal suo impero, si lasciarono trascinare nel peccato. Amori di un giorno. Soddisfatto il suo capriccio, il nobile signore le lasciava, pur provvedendo generosamente al loro avvenire, e quasi spesso maritandole ai suoi villani. Egli ha già risposto al cospetto di Dio della sua condotta e del male fatto alle anime e ai corpi...

Tornando da una lunga caccia verso il bosco di Randazzo, un giorno egli si fermò a Castiglione, per dare qualche ora di riposo al suo seguito. Naturalmente l'arrivo di tanto signore non passò inosservato. Francesco Giorlanda si affrettò a rendere omaggio al suo padrone del quale era in certo modo anche vassallo.

Al barone era stata offerta, come di dovere, ospitalità nel castello ed ivi andavano a riverirlo tutti. Per Castiglione, che raramente vedeva il proprio signore, ciò costituiva un avvenimento. Quando, qualche ora dopo, la cavalcata si rimise in cammino attraverso il paese, tutte le donne si affacciarono sulla soglia delle case e alle finestre.

Francesco Giorlanda volle accompagnare il barone; passando dinanzi alla sua casa, balzò in sella a una mula che un garzoncello gli teneva apparecchiata.

Il barone alzò gli occhi a una finestra ornata di alcuni vasi di garofani, e vi scorse una fanciulla.

"È la tua casa?" domandò a Francesco Giorlanda.

"Eccellenza, sì."

"E quella fanciulla bruna che stava alla finestra, è tua figlia?"

"Eccellenza, sì."

A mezza strada, Francesco Giorlanda riverì il barone e tornò indietro; ma giunto a casa rimproverò acerbamente la figliuola che s'era mostrata alla finestra.

Il giorno dopo il barone ripassò da Castiglione col suo seguito, facendo suonare i corni da caccia, per annunciare il suo passaggio. Cristina corse alla finestra, per vedere, e i suoi occhi si incontrarono in quelli del giovane barone.

Per più giorni egli, andando a caccia, passò e ripassò da Castiglione: dapprima rivide Cristina, poi non la rivide più; rivide invece Francesco Giorlanda, che, seguitolo in campagna, e fermatolo, gli disse: "Eccellenza, volevo dirle che nè Cristina Giorlanda è selvaggina per vostra Eccellenza, nè io, Francesco Giorlanda, sono uomo da lasciarla toccare. A vostra Eccellenza non mancano don ne, ma lasci stare mia figlia, perché le giuro per la Santa Vergine, che il giorno in cui vostra Eccellenza s'arrischierà di toccarla, io l'ammazzo..."

Il barone era un uomo coraggioso, forse anche temerario; guardò Francesco Giorlanda e, ridendo, gli rispose: "Tu scherzi. Sai bene che se volessi cavarmi un capriccio con la tua figliuola, non avrei paura delle tue minacce. Tua figlia è bella e mi piace, ma sono assai lontano da accomunarla con le altre!... Addio, Francesco Giorlanda, e smetti le tue minacce. Tu mi conosci."

Spronò il cavallo, che diede uno sfaglio e volò via. Francesco Giorlanda rimase cupo, torbido, irresoluto, con l'archibugio in pugno. Sentiva forse che una sventura pendeva sopra la sua casa. Non trovò altro rimedio che, di notte, portare via la figlia e chiuderla a Catania in un monastero.

Il barone non era uomo da abbandonare un'impresa, tanto più che egli s'era innamorato di Cristina. Non gli fu difficile sapere dove la fanciulla fosse nascosta, e vederla, e insinuarsi nel suo cuore.

Cristina aveva allora diciassette anni; il barone aveva per sè bellezza, eleganza, ricchezza, il prestigio di un grande nome, la fama del suo valore: quale meraviglia se la fanciulla lo amò perdutamente? Quel che doveva accadere accadde: la clausura, le inferriate, i muri dei monasteri non offrono ostacoli che un uomo, come il barone, non possa superare. Egli rapì Cristina e se la portò nel castello della Motta per sfidare Francesco Giorlanda.

Questi fu quasi per impazzire dal dolore e dalla rabbia. Si appostò e sparò contro il barone, ma fallì il colpo; i campieri del barone lo inseguirono, lo presero e stavano per ucciderlo, ma il signore lo impedì: "Egli ha ragione;" disse "al suo posto avrei fatto lo stesso. Lasciatelo andare."

Francesco Giorlanda se ne andò minacciando, ma di lì a qualche giorno il barone, chiamato a Corte, partì per la Spagna. Cristina restò sola, incinta, esposta alla vendetta del padre, sebbene il barone l'avesse affidata a uomini provati; ella non volle rimanere in quel castello, e preferì ritirarsi in casa dei nonni a Catania, che le apersero le braccia piangendo.

Francesco Giorlanda, roso dalla bile morì senza aver voluto più vedere la figliuola e maledicendola; qualche mese dopo la morte del padre, ella dava alla luce un bambino".

Padre Bonaventura si fermò ancora un minuto, come per riposarsi.

Indi riprese: "Questa è la storia che ci raccontò la povera donna. Essa ci raccomandò di aver cura del figlio, di educarlo, e ottenergli che il padre lo riconoscesse e provvedesse al suo avvenire. Noi glielo promettemmo, ed ella ne parve consolata. Allora volle confessarsi con padre Giovanni; io mi allontanai un poco, nè mi voltai, se non quando sentii la formula dell'assoluzione. Nella notte Cristina morì, senza un lamento, senza rammaricarsi. Sopportò i suoi dolori con fermezza cristiana, e Dio gliene avrà dato merito. Noi recitammo qualche preghiera in suffragio dell'anima sua, e le demmo sepoltura nel sagrato della chiesa.

"Ah! ce ne volle, figlio, per allontanarti dal cadavere della tua povera madre! Ma era necessità. Partimmo da Misterbianco con l'intenzione di recarci a Castiglione, e persuadere la famiglia ad accoglierti; ma per tutti i paesi che attraversammo, non si vedevano che rovine, pianti, lutti. Andammo fino a Messina. Qualche anno dopo io fui mandato al convento di Milazzo, padre Giovanni ritornò a Catania: tu ti eri affezionato a padre Giovanni e rimanesti con lui. Il resto ti è noto".

Padre Bonaventura tacque.

Un gran silenzio empiva la sagrestia e pesava sopra i due uomini; Blasco lacrimava col capo chino sul petto, poi domandò: "Il nome, padre, il nome di mio... del barone?"

"Egli è morto," disse gravemente il frate; "a che ti giova saperlo? Non potresti portare il nome senza il beneplacito del nuovo capo della casa... Aspetta ancora un po' e vedremo."

"Che m'importa di cotesto nome?" disse con amarezza Blasco; "un nome vale quanto l'altro; o Blasco d'Aragona o Blasco da Castiglione sono sempre quello che sono... Ma che io sia nato da un capriccio infame, che io sia stato gettato nella vita dal capriccio di un uomo che calpestò la giovinezza, l'onore, l'avvenire, tutti i sogni, tutte le speranze d'una fanciulla, questo, padre, questo è ciò che sento di non poter sopportare!... Perché dunque è morto quel barone?"

"Così ha voluto Dio!..."

"Troppo benigno Iddio... Sapeva dunque che quell'uomo non si sarebbe sottratto alla mia vendetta?"

"Che osi tu dire, sciagurato?" esclamò il frate con orrore; "le tue parole equivalgono a un parricidio."

"Parricidio? La giustizia commette forse delitti? Avrei potuto e dovuto riconoscere per padre un uomo che abbandonava così una povera donna e una creatura innocente, alla quale egli non diede neppure il suo nome?... Ah, povera madre mia! E non serbarne alcuna memoria chiara!... Talvolta, sì, talvolta mi pare di vedere un volto di donna, ma confuso, impreciso, come una pittura sbiadita che abbia perduto i contorni e non rimane che una macchia con due buche nere al posto degli occhi. Ho cercato invano donde venisse quell'ombra di volto, . mi son domandato se era immagine di sogno... Ed invece era mia madre... era forse il suo spirito che veniva a cercarmi... a chiedere forse vendetta!"

"Tua madre morì come una santa; e quell'uomo, che non era tristo, ma corrotto, fu punito abbastanza da Dio, perché tu abbia il diritto di imprecare alla sua memoria... Egli morì lontano dalla sua casa, ucciso dai Turchi, e senza potere abbracciare il figlio che gli era nato dalle nozze..."

"C'è dunque un figlio? C'è una vedova?"

"La vedova e il figlio sono morti anch'essi da quindici anni, in un modo misterioso."

"Occhio per occhio, dente per dente!... Ecco dunque che della stirpe di mio padre non esisto che io, un bastardo, senza nome!... Va' là, Blasco! tu sei un grano di spelta balestrato dal vento per il mondo!..."

"Il barone aveva un fratello, che oggi è il legittimo signore di tutti i feudi e dei titoli."

"Ah, sì? Tanto meglio. Avrò con chi sfogare!"

"Che intendi fare?"

"Per bacco! Dal momento che io per diritto di natura dovrei essere il barone e che le leggi invece concedono questo titolo del quale non m'importa nulla, a un altro, voglio vedere se il signor barone è disposto a pagare per il suo fratello..."

"Egli è un uomo potente."

"Ci sono uomini davvero potenti nel mondo?"

"Ascoltami; tu non hai più bisogno di chi ti guidi..."

"Bisogno? Ma da quando ave vo dieci anni, da quando mi mancò padre Giovanni, non ho avuto altra guida che me stesso."

"Sta bene; ma poichè sei venuto a trovarmi, poichè la Provvidenza ti ha condotto a me, tu ti lascerai guidare da me, adesso. Io riprendo il posto di padre Giovanni, per compiere la promessa fatta al letto di morte di tua madre. Vorresti tue il volto del frate si accese - vorresti tu che io mancassi a quella promessa? Vorresti disubbidire al desiderio di tua madre?... Il solo, l'unico suo ardente desiderio!"

Blasco chinò il capo commosso. Nel suo cuore le passioni si alternavano col medesimo impeto. Il frate gli prese la mano, e lo accomiatò.

"Va' con Dio, ora, figlio mio; domattina vieni a trovarmi; parleremo di tante cose; ora è tardi, e io sono stanco. Pregherò per te. Va', Dio ti benedica."

Lo benedisse con la mano anche lui, e lo accompagnò fuori dalla sagrestia, nel chiostro buio e silenzioso.

Chiamò forte.

Un fraticello sbucò dall'ombra.

"Accompagnate il signore alla porta, ve ne prego."

E data la mano a baciare a Blasco, ripetè: "A domani, dunque, verso tredici ore."