Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte prima, capitolo 5

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Padre Bonaventura dovette usare tutta la sua eloquenza, la sua persuasione insistente, il prestigio del suo nome, per persuadere il capitano di città che, nonostante le apparenze, Blasco da Castiglione era un gentiluomo e che, in fondo, era stato urtato e per poco non era stato gettato a terra dai due cavalieri. Testa calda e giovane, non aveva saputo usare prudenza; ma, via! non era il caso di arrestarlo. Il capitano di città conveniva in tutto: ma come non dare una soddisfazione a quei due cavalieri, che non erano oscuri cittadini? Si scherzava? Erano un Branciforti e un Centeglies: due signoroni!... E poi, bastonare il caporale e i birri? Ma era un demonio quel giovane?

"È un valoroso, come suo padre" obiettò il frate. "Nelle sue vene scorre sangue di buona razza... per quanto fuori dalle leggi divine e umane... Bisogna scusarlo. Il giovanotto fu affidato a me; se avessi potuto prevedere non sarebbe avvenuto nulla, e non starei a importunare vossignoria. Quanto a quei signori, andrò io da loro, e li persuaderò. Lasci fare a me.

Il capitano di città oppose altri "ma", non troppo recisi e categorici, e alla fine si arrese, e assicurò il padre Bonaventura che Blasco da Castiglione non sarebbe stato molestato, ma... Lanciò quest'ultimo avrà, come una minaccia sospesa in alto sulla testa del giovane.

Padre Bonaventura andò egli stesso a rilevare Blasco dalla chiesetta dove stava conversando con mastro Michele e lo accompagnò alla locanda del Messinese, dove il giovane fu accolto con segni di allegrezza e di ammirazione, come un eroe reduce da una impresa. Dalle botteghe e dai "catodi", artigiani e operai uscivano a congratularsi, e al frate rifacevano per conto loro il racconto delle bastonate ai birri con qualche contorno.

"Bisognava vederlo! Un paladino addirittura!... Era parente di sua riverenza? Poteva gloriarsene."

Mastro Barabino intanto gli diceva: "Date retta a me; voi avete un bel personale, e farete una bella figura. Con cotesto vestito farete ridere, qui a Palermo, e col vostro carattere sarete costretto a menare le mani ogni momento. Che scherzate? Palermo è una città dove bisogna figurare bene... Voi dovete farvi un vestito di moda, di buon panno... non dico di seta; sebbene voi siete degno di vestire di damasco laminato, o di tela d'oro... Dico bene, padre Bonaventura?..."

Mastro Michele diceva tutte queste cose con una velocità straordinaria, senza dare tempo alle risposte. Padre Bonaventura guardò l'abbigliamento del giovane, come se si accorgesse allora della stranezza e dell'anacronismo di quelle vesti, e assenti. Veramente non poteva dire che Blasco vestisse come l'ultimo figurino.

"Io non dico per fare il mio vantaggio," riprese mastro Barabino; "ma perché capisco che dovendo presentarvi alla società, avete bisogno di comparire bene... Altrimenti non farete fortuna..."

Padre Bonaventura pensava appunto a qualche possibile presentazione giacchè bisognava trovare al giovane un ufficio, un impiego per vivere decorosamente, soddisfacendo così in parte al voto della morta; e forse gli balenava l'idea di presentarlo ai parenti: al nuovo capo della casa, che infine gli era zio, e che, per l'onore del casato, avrebbe dovuto provvedere a nipote.

Disse: "Mastro Michele ha ragione."

"Eh, per bacco, chi dice il contrario!" esclamò Blasco; "credete forse che io vada attorno di mio gusto con questi panni? Ma la necessità non conosce leggi... Questi sono gli abiti che ho trovato nel guardaroba del re di Tunisi..."

"Come, Tunisi..."

"Appunto; ma è una storia lunga che racconterò dopo. Andiamo a noi, mastro Barabino o piccolo Barabba, che fa lo stesso: trovatemi un vestito, eccovi due dobloni di Spagna."

Cacciò le dita nella larga cintura che il farsetto nascondeva del tutto e ne cavò due monete d'oro, che fece ballare sulla mano del sarto, aggiungendo: "Anche questo è denaro di sua Maestà il re di Tunisi, che il diavolo abbia in gloria!... Ma mi raccomando: voglio essere rivestito come questi ganimedi che ho veduto a cavallo alla passeggiata..."

"Lasciate fare a me."

Quando mastro Michele Barabino se ne fu andato, padre Bonaventura disse: "Quando ti sarai abbigliato in maniera conveniente, vedrò di presentarti a qualche signore."

"Ehi."

"Sì" ripetè il frate "è necessario; come vorresti avere uno stato senza la protezione di un signore?"

Blasco pensò a sua madre. A che gli sarebbe giovata ora quella presentazione? Che gliene importava ora di avere un nome piuttosto che un altro? Uno stato se lo sarebbe trovato da sè. Tuttavia non manifestò alcuna obiezione. Forse l'idea di potere rintracciare il suo parentado, e conoscere la casa di suo padre, conoscerne le fattezze in un ritratto, di poter vedere in volto il nuovo barone, non gli fece respingere la proposta del frate. Forse ancora, ma più lontanamente, gli balenò l'idea di potere ricercare quei due signori che l'avevano voluto fare arrestare e, presentandosi come un loro parente, farsi rendere ragione dell'affronto.

Qualche ora dopo mastro Michele portava un abbigliamento completo che, diceva, pareva fatto per Blasco, ma che, in ogni caso, si sarebbe aggiustato: non erano abiti nuovi, ma ancora fiammanti.

"Che credete? Questi escono dal guardaroba del principino di Cattolica; un signorone, che quando ha indossato tre o quattro volte un vestito lo regala al suo mastro di casa, che se lo rivende. Guardate un po' le trine delle maniche! una meraviglia!... E la stoffa? E questo farsetto? Seta di Catania della migliore!... Perché non paia vestito usato, potremmo mutare la seta delle rivolte e i bottoni; una cosa da nulla; potrò farlo qui, dinanzi a voi... Ma intanto provatevi la "giamberga"."

Lo aiutò, commentando: "Benissimo!... A pennello... soltanto bisogna stringere un po' i fianchi... voi avete la vita più snella... Così... ! bisogna comperare delle calze di seta, degli scarpini... Uno spadino..."

"Ah, questo no, mastro mio. Non lascerò mai la mia spada...

"Oh, volete andare intorno con quella durlindana che fa spiritare?"

"Certo. Sono sette anni che mi serve, e mi ha reso tanti servizi, che sarei un ingrataccio se l'abbandonassi... E poi, va' a cercarmela una lama come quella!... Toledo, e delle migliori!.. Niente spadini, niente spiedi per le allodole!..."

"Come volete voi. Ma i guanti... almeno tre paia di guanti, dei fazzoletti trinati... e una parrucca a riccioli..."

"Niente parrucca!..."

"Ma l'usano tutti: come volete figurare senza la parrucca?"

"Oh, che forse ho la testa pelata io?"

Blasco scosse i lunghi e folti capelli, che ondeggiarono, si allargarono come una raggiera.

"Ho forse bisogno d'una capigliatura finta?"

"Ma le parrucche sono a riccioli, sapete bene..."

"E faremo arricciare i nostri capelli!... Andrò a letto coi pavigliotti. Piuttosto ho bisogno di camicie e di cravatte di pizzo..."

"Queste le ho portate: non vedete? Sono anch'esse del principino... Ma adesso lasciate fare a me. Vediamo un po' le risvolte... Il panno è color mattone, la seta paglierina, o verde pisello... che ne dite? Lasciate fare a me!"

A ventidue ore d'Italia, ora in cui ferveva la passeggiata, Blasco da Castiglione uscì dalla locanda trasfigurato, tra lo stupore e l'ammirazione del vicinato, che non sapeva persuadersi come mai quel bel cavaliere, elegante e azzimato, potesse essere quel povero "regnicolo" dal vestito buffo; una cosa soltanto avevano in comune le due figure: la fierezza.

Non si è giovani e belli per nulla, e Blasco aveva anche lui quel tanto di vanità che è indispensabile per lasciarsi ammirare senza averne l'aria. Adesso che aveva un bel vestito, voleva portarlo attorno e concedersi la soddisfazione di guardare con maggior disdegno, anzi, con provocante ostentazione, tutti quei superbetti gonfi della loro eleganza, come tanti tacchini. Uscito dalla strada dei Cintorinai, risalì per il Cassaro, per recarsi fuori Porta Nuova, dove in quell'ora c'era passeggio.

La sua aria spavalda, la maschia bellezza del suo aspetto facevano voltare la gente, che non poteva ristare dall'ammirarlo: "Ecco un bel giovane!".

I critici, però, che cercano il pelo nell'uovo, si affrettavano a moderare la prima ammirazione, trovando che la spada, quella spadaccia formidabile d'altri tempi, stonava maledettamente con l'eleganza impeccabile del vestito, ma le donne non s'attaccavano alla miseria di una spada: l'uomo era bello.

Blasco attraversava il piano del Palazzo Reale, quando presso il vecchio e incompiuto Ospedale degli Spagnoli vide una ricca carrozza ferma e un cavaliere allo sportello, che pareva conversare cerimoniosamente con qualcuno che stava dentro; un'altra carrozza, più sobria, davanti al cui sportello stava impalato un lacchè, era ferma anch'essa poco distante. Evidentemente era quella del cavaliere.

Blasco ebbe l'impressione di una cosa già veduta: rallentò il passo, guardando con attenzione il gruppo; non vedeva il volto delle persone che conversavano, nè riconosceva il grave cocchiere e gli staffieri dell'una e dell'altra carrozza; ma tuttavia quell'immagine complessa non gli riusciva nuova. A poco a poco qualche cosa si schiarì nel suo cervello: egli riconosceva il colore delle livree e l'insieme della carrozza, al cui sportello stava il cavaliere, e un'ondata di sangue gli imporporò il volto.

Allora affrettò il passo e si fermò anche lui presso l'altro sportello, in modo da poter vedere la donna che stava dentro e il viso del cavaliere, che le parlava e che egli aveva di fronte.

Questo gli importava di più.

La sua ombra richiamò gli occhi del cavaliere. Si riconobbero?

Certo gli occhi del cavaliere si accigliarono; la donna ne seguì con curiosità il raggio, si voltò, vide anche lei quel bel giovane fiero, col pugno sull'anca, lo guardò un istante, e, rivoltasi al cavaliere, domandò: "Conoscete quel giovane?"

Blasco udì le parole, e aspettò la risposta del cavaliere, che evasivamente disse: "Non ricordo d'averlo mai veduto, ma, ve ne prego, non mi togliete il conforto di questi momenti deliziosi, per uno sconosciuto..."

La donna si voltò nuovamente per guardare Blasco, il quale allora credette suo dovere togliersi il cappello e fare un bell'inchino.

"Domando umilmente perdono, signora, se oso risponderle io invece del signore... Mi chiamo Blasco da Castiglione, e sarei felicissimo se potessi ricevere l'onore di offrirle la mia servitù... Quanto al signore Nonsochi, spero di avergli rinfrescato la memoria."

Si inchinò nuovamente, domandando scusa del disturbo, e con passo nè lento, nè affrettato, riprese la strada, soddisfatto di sè e curioso di due cose: sapere chi erano quella dama e quel cavaliere, e che cosa avrebbe fatto ora questi.

"La donna è bella, perdinci!... se quel cavaliere le gira attorno come una farfalla, non ha torto. Chi non farebbe altrettanto?" pensò Blasco.

Gli balenò l'idea se anche a lui potesse essere rivolta quest'ultima domanda; e questa possibilità lo fece arrossire e sorridere di compiacenza e di commiserazione insieme. Oh sì, proprio lui, povero e ignoto seme perduto nel mondo!... Ella doveva esse re una dama di qualità, a giudicare dalla bellezza dei suoi quattro cavalli bianchi, dalle dorature della carrozza e dalla ricchezza delle livree; tutte cose che la allontanavano dalla folla ignobile, dai senza nome, che la facevano apparire anzi come un oggetto intangibile per altre mani che non fossero quelle consacrate dai vecchi diplomi feudali.

Ma anch'egli avrebbe potuto essere un privilegiato: quel misterioso padre, del quale il frate non gli aveva voluto dire il nome, non era forse un signore di feudi?

Nuovamente lo riprese il cruccio della sua nascita, come se sul volto gli apparissero le stimmate della illegittimità; ma la gaiezza naturale, che non gli dava il tempo di fermarsi su malinconie, lo riprese; scosse il capo, e mormorò: "Eh via! sono un imbecille ad amareggiarmi per simili sciocchezze. Andiamo, Blasco!".

Ma uno scalpitare fragoroso di quattro cavalli dietro a sè lo fece voltare; erano i quattro cavalli bianchi che venivano con un bel passo maestoso, sotto la guida sapiente del cocchiere troneggiante sui velluti della sua cassetta. Si fermò. La carrozza gli passò davanti. La bella donna lo guardò. Blasco arrossì e stimò doveroso salutarla. Gli parve, o fu illusione, che ella sorridesse. Restò quasi rapito, seguendo con gli occhi la carrozza, assalito da un tumulto di idee, turbato da certi pensamenti pazzi, non risolvendosi a riprendere il cammino, stava lì col desiderio di rivedere la dama domandandosi se veramente ella aveva sorriso, e perché aveva sorriso, avendo sempre impressa nella mente l'immagine di quel sorriso.

Da questo stato venne a destarlo una altra carrozza: era quella del cavaliere, che veniva al passo. Il cavaliere, a piedi, avanzava verso di lui, accigliato e minaccioso, seguito da due lacchè.

"Signore," gli disse coi denti serrati, quando gli fu dinanzi "è la seconda volta che mi venite fra i piedi, e vi avverto che non sono uso a tollerare gli importuni..."

"Buona abitudine, signore," rispose Blasco senza scomporsi; "buona abitudine, e ve ne lodo..."

"E non ammetto neppure i miei pari a prendersi la libertà di scherzare."

"Buona anche questa. I tempi sono così gravi, che non è lecito scherzare..."

"Signore!..."

Blasco lo guardò, e a quel grido, che era una minaccia, rispose freddamente: "Se invece di mandarmi i birri, cosa indegna di un gentiluomo, mi aveste tenuto prima questo discorso, vi avrei risposto: "Signore, in quell'angolo della piazza due gentiluomini hanno tutta la comodità di infilzarsi: fuori quell'arma, e finiamola; ma capirete che ora non posso più trattarvi a cotesto modo, senza mio discapito"..."

Il cavaliere si morse le labbra, e, rosso e tremante per la collera, gridò ai servi: "Ma insomma! cacciate via quest'uomo!..."

L'alterco aveva fatto fermare della gente, che ne aspettava in silenzio la soluzione; qualche altra carrozza, qualche portantina s'erano arrestate anch'esse: da lontano accorreva altra gente, incuriosita dal vedere la folla. Tutto questo aveva aumentato la collera del cavaliere e infuso una certa braveria ai servi, che all'ordine del padrone si erano avanzati. Ma, prima che avessero avuto il tempo di mettere le mani addosso a Blasco, questi li aveva violentemente ghermiti per il petto, e, allargate e chiuse le braccia con uno sforzo prodigioso, li aveva battuti l'uno contro l'altro, e pesti, balordi, li aveva gettati addosso al loro padrone, che per poco non ne era stato travolto.

Ciò era avvenuto con tanta rapidità, così fulmineamente, che nè i servi, nè il cavaliere avevano avuto il tempo di pensare a difendersi; e aveva suscitato una vera ammirazione per quel bel giovane elegante, che rideva dello sgomento, della vergogna dei lacchè, della collera del cavaliere, con la stessa tranquillità come se fosse stato uno spettatore.

Il cavaliere sbuffava; altri cavalieri amici o conoscenti si erano avvicinati a lui; dei popolani circondavano i due lacchè che pallidi, anelanti alla vendetta, riparavano al disordine del loro abbigliamento.

Di tra la folla, il cavaliere minacciava: "Me la pagherà!..."

Blasco gli lanciò un ultimo frizzo.

"Mi duole di aver gualcito così belle livree, signore; ma vi manderò il mio sarto: è un valent'uomo..."

La folla rise: i signori cercarono di sottrarre il cavaliere al ridicolo cui si esponeva.

"Via, principe, non è da pari vostro... Andiamo, montate in carrozza."

Lo spingevano. Egli, che forse non cercava di meglio, resisteva, minacciando ancora, ingiuriando Blasco coi nomignoli dispregiativi dei quali i cittadini della capitale gratificavano i regnicoli: "Cotesti "piedi incretati", che calano dai monti a infestare la città, banditi! Informatevi almeno se è nobile!" ruggiva; "informatevi se è nobile per poterlo sfidare."

La vista dei quattro cavalli bianchi, che ritornavano indietro, potè più di qualunque suggerimento. Il "principe" si affrettò a montare sulla sua carrozza, dopo essersi assicurato che i suoi amici avrebbero pensato a salvare la dignità sua.

Un giovane di aspetto fine e grazioso, intanto, si era avvicinato a Blasco, sorridendo di ammirazione: "Bravo, signore; voi avete una bella forza e maggiore freddezza e prontezza di spirito..."

Fra giovani coetanei la simpatia getta subito i vincoli dell'amicizia; Blasco sorrise e porse la mano al giovane dicendogli: "Mi chiamo Blasco da Castiglione."

"Nome da romanzo eroico!" rispose il cavaliere della Floresta; "se posso esservi utile ne sarò lieto... Ora venite, c'è troppa gente... Ho qui la mia carrozza..."

Lo trasse con sè, attraversò la folla, mentre dall'altra parte conducevano il "principe" e l'obbligò a montare in carrozza. In quel punto i quattro cavalli bianchi passavano accanto a loro; il cavaliere della Floresta fece un profondo inchino alla dama.

"Scusate, chi è quella dama?" domandò Blasco.

"La duchessa della Motta."

"Ah!.."

"La conoscevate?"

"No; ma il feudo della Motta è contiguo a quello di Castiglione.

E quel signore col quale ho avuto da dire?"

"Il principe di Iraci".

"Ah, un principe? Tanto meglio..."

La carrozza s'era messa in moto.

"Dove volete essere condotto?" gli domandò il cavaliere della Floresta.

"Se non vi spiace, al convento di San Francesco dei Chiovari... Ma, poichè siete così gentile, vi prego di ascoltarmi: vi dirò, strada facendo, le ragioni dell'alterco..."

"Volevo anzi pregarvene, perché è bene vedere in che modo risolvere questa questione. Capirete bene che il principe di Iraci è della prima nobiltà, il che esige una considerazione particolare, anche in materia cavalleresca. Se vi ha offeso, può rifiutarsi di darvi una soddisfazione con le armi, salvo che non siate un principe di nobiltà pari alla sua... Sentiamo dunque."

E cominciarono a parlare.