Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte prima, capitolo 9

Italiano English

Uscendo dallo studio del pittore, nel lasciare il nipote a posare per la gran tela storica alla quale il Bongiovanni lavorava, don Girolamo Ammirata gli disse: "Io vado all'ufficio; tornerò a casa forse un po' più tardi di mezzodì. Hai inteso?"

"Va bene" rispose il giovanotto, senza voltarsi, tenendo il braccio levato con la spada in pugno, in un gesto bellicoso, come l'aveva messo don Vincenzo.

L'"ufficio" era l'amministrazione dell'ospedale grande, dove don Girolamo prestava l'opera sua di razionale, ossia, come si direbbe ora, con un neologismo non giustificato da nessuna necessità, ragioniere. L'ospedale grande era allora nell'antico palazzo di Matteo Sclafani, acquistato, per le istanze del pio fra Giuliano Majali, dal senato di Palermo nel secolo XV, per riunirvi i vari ospedaletti, che sorgevano in città.

Il magnifico palazzo, ridotto a caserma dai Borboni, che lo lasciarono manomettere, conserva anche oggi le vestigia dell'antico splendore in una delle facciate, nel portale e in una grande e terribile pittura murale, forse di pittore fiammingo del quindicesimo secolo; una lapide, ora non più esistente ma riprodotta dagli storici, narrava che era stato costruito in un anno dal magnifico Matteo Sclafani, conte di Adernò e rivale in magnificenza e in grandezza dei potenti Chiaramonte. Formando uno degli angoli del piano del Palazzo Reale, per giungervi bisognava percorrere il Cassaro, essendo lo studio del Bongiovanni in uno di quei venerandi palazzi del Trecento, tra la piazzetta delle Vergini e il vicolo di S. Antonio ancora visibili.

Don Girolamo dunque, uscito dal vicolo sulla vecchia e nobile arteria della città, svoltò a destra, ma percorsi pochi passi entrò nella chiesa di S. Matteo la cui gradinata ingombrava allora parte della strada.

Il suo aspetto prese a un tratto una espressione di umiltà e di compunzione col capo basso e inclinato, le braccia conserte sul petto, il passo lieve e lento. Biascicando preghiere, si avvicinò alla pila dell'acqua benedetta, e si segnò devotamente; poi piegò per la navata di sinistra, fermandosi nella quarta cappella, dinanzi al quadro del Novelli, inginocchiandosi poco discosto da un altro devoto, che pareva assorto nella preghiera.

Don Girolamo si segnò un'altra volta e a voce abbastanza udibile, e con cadenze da frate al coro, intonò il versetto del salmo: "Beatus qui intelligit super ege unz et pauperem."

E allora, con la stessa cadenza, lo stesso tono, senza voltarsi, quell'altro devoto continuò: "In die naala liberabit eum Dominus'.."

Don Girolamo lo lasciò finire, e riprese: "Dominus conservet eum et vivificet eum, et beatum faciat eum in terra."

E l'altro: -"Et non tradat eum in animam imitizicorurvc ejus."

Don Girolamo si chinò e, come se continuasse a pregare, disse queste strane parole: "Ho una sporta di limoni."

"Portali allo "scaro".

"A quanto a mille?"

"A tre, a tre."

"Con l'aiuto di Dio e del beato Paolo."

"Amen."

Avevano appena finito di scambiarsi questo dialogo singolare, che s'udì un gran vocio e un colpo di pistola, e quasi nel tempo stesso un precipitare di passi su per la gradinata e dentro la chiesa, che diffuse un panico e una grande confusione tra i pochi fedeli che si indugiavano ancora in chiesa. Un uomo entrò, o meglio si gettò tra i fedeli, tenendo in un pugno una pistola ancora fumante, rovesciando una specie di birro, che, trovandosi in chiesa, è corso alla porta, allo sparo, voleva impedirgli di entrare.

Quell'uomo o a caso, o per necessità di fuga, si buttò nella navata sinistra, e si fermò presso la cappella maggiore, lasciandosi cadere sopra una sedia, dinanzi a uno dei pilastri della cupola.

Era pallido e ansava. Un gran livido gli gonfiava mostruosamente una gota: pareva il colpo di un bastone.

Passato il primo sgomento, la folla dei fedeli gli si strinse intorno, curiosa. Tutti volevano vedere, volevano sapere.

"Che cosa è stato? Che cosa vi è accaduto?"

Altra gente accorreva nella chiesa, dalla strada, mentre il sagrestano tentava di respingerla e chiudere la porta.

"L'ha ammazzato?"

"Ha fallito..."

"No: lo ha preso a una spalla."

"Aveva ragione."

"Sono soperchierie..."

"Vedrete che l'impiccheranno."

"Sì, ma intanto non possono arrestarlo..."

"Per tre giorni..."

"Bisognerebbe aiutarlo!..."

"Eh! la chiesa è custodita dai birri... tutte le porte sono custodite.

Non si scappa..."

"Chi era?"

"Chi è?..."

Domande, notizie, giudizi si incrociavano intorno a quell'uomo, che, ancora pallido, ansante, ma torbido e feroce, si premeva una pezzuola sulla gota, guardando tutti quegli occhi fissi sopra di lui.

Il sagrestano e il "massaro" cercavano di cacciare fuori tutta quella gente: "È ora di chiudere... dobbiamo chiudere la chiesa!... ohè, che vi prenda l'amore di Dio!... Uscite, via!... via!... Lasciatelo stare. Alla fine non c'è niente di straordinario..."

Un po' con le parole, un po' con gesti e con spintoni, cercavano di cacciare la folla, che ondeggiava, si scomponeva, si ricomponeva intorno a quell'uomo; qualcuno reagiva, altercava! la chiesa risonava di grida, di minacce.

Allora don Girolamo disse al sagrestano: "Accompagnalo nella sagrestia e chiudilo dentro..."

Era infatti il solo mezzo per sottrarre quell'uomo alla curiosità altrui e per obbligare la gente a uscire dalla chiesa, non avendo più nulla da vedere. Il sagrestano guardò don Girolamo e parve che scambiasse con lui un breve segno impercettibile con l'occhio.

Si avvicinò a quell'uomo e gli disse: "Venite con me nella sagrestia. Starete meglio."

L'uomo non se lo fece ripetere. La folla si aprì per lasciarlo passare, si richiuse dietro di lui, lo seguì; il sagrestano chiuse la sagrestia e si cacciò la chiave in tasca: "E ora" disse "mi pare che possiate andarvene."

Così la chiesa a poco a poco si vuotò; non senza generose largizioni di epiteti poco lusinghieri all'indirizzo del sagrestano, il quale, spingendo innanzi i più restii, rispondeva masticando le parole ironicamente: "Va bene! va bene!... Tutto quello che volete."

Serrò la porta: fuori della quale due sbirri del capitano di città, armati, s'erano posti a sedere sull'ultimo gradino, non potendo entrare in chiesa ad arrestare l'uomo che vi si era rifugiato, perché tra le immunità di cui godevano chiese e conventi c'era anche quella del diritto di asilo; e la giustizia non poteva mettere piede in un luogo sacro, senza un'espressa facoltà dell'arcivescovo. Ma d'altra parte il diritto di asilo non poteva durare più di tre giorni, in capo ai quali il colpevole doveva essere consegnato alla giustizia secolare. Per cautela il capitano di città aveva fatto custodire le porte, intanto che sua Eccellenza il Vicerè sollecitava l'ordine dell'arcivescovo.

Don Girolamo Ammirata e l'altro devoto non erano usciti dalla chiesa, quando il sagrestano ritornò, dopo aver chiuso la porta; il "devoto" gli ordinò con tono rapido e tagliente: "Apri la sagrestia."

Il sagrestano ubbidì.

Il "devoto" e don Girolamo entrarono; si copersero il volto con delle maschere nere; il sagrestano restò fuori, a un cenno degli occhi di don Girolamo.

L'uomo stava passeggiando con le mani conserte sul petto, le sopracciglia aggrondate, e pareva seguisse un pensiero. All'entrare dei due, alzò il capo sorpreso dalle maschere, sospettoso, pronto a difendersi; ma si arrestò subito, quando il "devoto" che aveva assunto un tono umile e mansueto, gli disse: "Se tu hai ragione, se sei un povero perseguitato, se hai ricevuto offesa, confidati, forse ti potremo giovare. Come ti chiami?"

Il volto di quell'uomo si era illuminato di un raggio di speranza e di gioia, quasi avesse ricevuto una rivelazione da lungo tempo desiderata.

Rispose senza esitazione: "Andrea... Andrea Lo Bianco."

"Sei cittadino?"

"Sì, signore..."

"Che t'hanno fatto?"

"M'hanno buttato in galera, senza aver commesso nulla..."

"Nulla proprio?"

"Lo giuro, per Gesù sacramentato!..." le sue parole avevano l'accento della verità. "Ma avevano forse bisogno di farmi sparire..."

"Chi?"

"Chi? Il duca della Motta!.."

"Il duca della Motta? Don Raimondo Albamonte?"

"Appunto."

"E per quale ragione?"

L'uomo tacque non parendo disposto a rivelare ciò che forse era un gran segreto; i due mascherati aspettarono un po' in silenzio, poi il "devoto" insistette: "Per quale ragione il duca della Motta voleva disfarsi di voi?"

"Perché... perché forse mi crede un testimonio pericoloso... Fui arrestato, processato per un delitto che non avevo commesso, che non mi si potè provare... e nondimeno fui mandato a remare sulle galere del regno... E lì si tentò di assassinarmi... Guardino."

Scoperse il petto, e mostrò una cicatrice un po' sotto la clavicola.

Don Girolamo e l'altro si guardarono.

Andrea continuò: "Sono fuggito... Eravamo a Milazzo. Sono fuggito dalla galera, rompendo i ferri, buttandomi a nuoto. A piedi sono venuto qui a Palermo per vendicarmi... e non me soltanto!. Poco fa mentre risalivo per il Cassaro, ecco il duca in portantina... Ho riconosciuto le livree... Mi avvicinai per vedere meglio dentro. Un servo che andava accanto allo sportello, ributta; il duca mi vede, mi riconosce, grida; quel servo tenta di prendermi, io lo respingo... allora alza la canna per accopparmi... io perdetti il lume degli occhi e sparai... Non so se l'ho ucciso..."

"Chi? il duca?"

"No, il servo... Adesso, lo so, mi arresteranno... Qui non c'è mezzo di fuggire... Sarò impiccato col termine straordinario, perché il duca è potente. Non. è la vita che mi preme; l'ho giocata altre volte, quando seguivo il mio padrone, buona e santa anima, il duca, il vero duca della Motta, don Emanuele... No, non è la vita; ma il non potere vendicare gli innocenti..."

Tacque ancora un po'; indi come risolvendosi a un tratto riprese: "Se io non m'inganno, e se quello che io ho sentito dire non è una menzogna, signori, ve ne supplico, proteggetemi!.. Forse, non ve ne pentirete, potrete aiutarmi a compiere una grande opera di giustizia... Ve ne scongiuro!..."

Don Girolamo e il compagno si guardarono, non risposero subito nè direttamente.

Il "devoto" disse: "Di che innocenti parli tu?"

Andrea, con gli occhi sfavillanti, i muscoli del volto contratti come da una visione orribile, ponendo la mano sul braccio dell'uomo mascherato, disse, scandendo le parole, imbevendole di odio profondo: "Don Raimondo Albamonte non sarebbe duca della Motta se non avesse soppresso la duchessa vedova, sua cognata, e il nipote, l'erede legittimo..."

Un grido di stupore uscì dalla bocca di quei due...

"Che ne sai tu? Come puoi affermarlo?"

Andrea stese il braccio verso un crocifisso ritto sulla tavola, fra due candelieri.

"SI... Lo so; so chi fornì il veleno; per questo mi volevano sopprimere, come fu soppresso un altro testimonio: la cameriera della duchessa!..."

I due uomini mascherati si guardavano, sempre più stupiti, a quella rivelazione che non si aspettavano.

Per un minuto stettero in silenzio. Alcuni colpi furono bussati lievemente alla porta della sagrestia. Don Girolamo aprì e sporse il capo fuori. Era il sagrestano.

"Presto! presto!" disse "picchiano alla porta piccola. Saranno gli sbirri col permesso dell'arcivescovo... Vossignoria se ne vada."

"Sta bene. Va' ad aprire."

L'altro, che aveva udito, si accostò a un armadio, e apertolo, diede un pugno al fondo, che cedette e mostrò un vuoto buio e profondo. Vi entrò, dicendo: "Venite."

Andrea e don Girolamo lo seguirono; l'armadio si richiuse, il fondo ritornò al suo posto: Andrea si credette piombato nel vuoto misterioso e stese le mani istintivamente, come per afferrarsi a qualche cosa o per riconoscere se quei due salvatori erano accanto a lui. Ma improvvisamente una luce rischiarò il luogo: quello che precedeva aveva acceso una lanterna che probabilmente stava in una piccola nicchia scavata nella parete.

"Andiamo."

Andrea riconobbe che percorrevano un corridoio scavato nel tufo, abbastanza alto perché un uomo di statura comune potesse passare senza urtare col capo. Le pareti madide tramandavano un forte odore di umido, e dalla volta trapelava ogni tanto qualche goccia fredda.

Andavano uno dietro l'altro; i loro passi si spegnevano nel terreno cedevole e attaccaticcio. Il corridoio scendeva in giù lievemente. Andrea sentì sulla volta un rumore sordo, simile a un brontolio; indovinò che sopra di loro v'era una strada o una piazza, e che vi passavano dei carri. Dove si andava? Aveva perduto il senso dell'orientamento, e non poteva fare alcuna induzione.

A un tratto si fermarono. L'uomo mascherato spense la lanterna, e il buio li ravvolse. Andrea udì tre colpi battuti con le nocche delle dita sopra una tavola, probabilmente una porta, e dopo quei tre colpi altri tre ognuno dei quali seguito da un grattamento, come di un gatto che tenti aprire. Un paletto scivolò cautamente negli anelli, e un filo di luce si aprì lungo una parete: delle voci bisbigliarono sommesse, rapide, brevi, e la porta si aprì interamente.

Andrea si trovò in una stanza piccola, nuda, che riceveva luce da un'altra porta aperta in una stanza luminosa, ingombra di barili e di botti. Un ometto piccolo, grasso, col viso butterato e gli occhietti piccoli, neri, lucidi come quelli di un topo, se ne stava da parte, col berretto in mano, in attitudine rispettosa, ma non servile.

"Zi' Rosario - disse l'uomo che era andato innanzi e che aveva picchiato, indicando Andrea - bisogna "salvarlo"."

"Va bene."

"Vita per vita!"

"Mezza parola!" protestò zi' Rosario mettendosi una mano sul petto.

L'uomo mascherato si voltò verso Andrea e gli disse: "Restati qui. Starai sicuro. Ci vedremo poi e parleremo. Addio."

Andrea cercò di trattenerlo.

"Signore, signore, almeno lasci che ringrazi Vossignoria..."

Ma l'altro gli fece segno di tacere e seguito da don Girolamo entrò nell'altra stanza; li, con un gesto rapido, entrambi si tolsero le maschere, e uscirono in strada.

Andrea domandò a zi' Rosario: "Ve ne prego... ditemi..."

Ma quello gli troncò la parola in bocca: "Prima di tutto imparate una parola..."

"Che parola?"

"Questa."

E zi' Rosario porse innanzi le labbra strette, e le prese fra l'indice e il pollice della destra con un gesto significativo che voleva dire: "Bisogna star zitto, qualunque cosa vedete".

Andrea capì, arrossì di vergogna e mormorò: "Scusate."

"Niente, amico. Ora venite su, dove starete come un papa."