Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte prima, capitolo 11

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Era sonata da poco la mezzanotte all'orologio del Monte di Pietà e, contro il solito, v'era in città quella notte una grande animazione. Quella mattina, 10 ottobre, erano arrivati i trenta vascelli inglesi e genovesi che trasportavano Vittorio Amedeo, la sua Corte, il suo seguito nella capitale del regno. Approdati dapprima all'Arenella, e ricevuta la visita dello arcivescovo, e poco dopo quella di alcuni signori e dei due deputati del Senato, le navi verso sera avevano gettato l'àncora nel Molo grande, e il re aveva manifestato la sua volontà di sbarcare il giorno dopo verso ventitrè ore d'Italia.

Tutta la giornata un esercito di artigiani aveva febbrilmente atteso ad addobbare il ponte di sbarco alla Cala, e i quattro archi della piazza Villena. ed ora seguitava al lume di torce e di fiaccole a terminare il lavoro prima di giorno. Un via vai di carri e di baroccini, un risonare di martellate e grida e rumori confusi, che la notte aumentava, si diffondeva per il Cassaro, intensificandosi ai Quattro Canti, echeggiando su tutta la città e richiamando i curiosi.

L'idea di avere un re proprio aveva infuso nelle mani l'entusiasmo delle anime. Nel fervore di quegli artigiani, nella curiosità stessa dei cittadini, che invece di andare a dormire se ne stavano ai Quattro Canti o alla Cala a veder lavorare, quasi incuorando con la loro presenza a far presto e bene, c'era del patriottismo. Coloro che dormivano quella notte, avevano il sonno lieve e dolcemente ansioso.

Non erano quelli i preparativi per il solenne ingresso e per la coronazione, che richiedevano un tempo più lungo e un maggior lavoro; tuttavia bastavano a mettere in brio e in moto la città.

L'attenzione era così attirata verso i due centri di maggior lavoro, e la frequenza delle persone, anche in quell'ora insolita, era tale che nessuno poteva meravigliarsi di incontrare altra gente per le strade.

Due uomini intabarrati in modo irriconoscibile uscivano dalla Conceria e attraversata la Strada Nuova si cacciavano nella strada dei Candelai, non senza prima essersi guardati intorno, con l'aria di persone che non vogliono essere seguite. Quando parve loro di essersi allontanati alquanto, così da non poter essere veduti dagli insoliti frequentatori della bella strada, lasciarono l'andatura di gente che va per i fatti suoi, e si affrettarono come chi teme di giungere tardi.

Piegarono per la piazza del Monte di Pietà, e tirarono via per la strada delle Lettighe, fin presso la chiesa dei "Canceddi" ossia dei vetturali volgarmente intesa col nome di Santa Maruzza: ivi si fermarono.

Uno dei due trasse le mani di sotto al mantello, dicendo: "Abbiate pazienza: lasciatevi bendare."

L'altro non si oppose. Il primo gli legò un fazzoletto sugli occhi e lo prese per mano, aggiungendo: "Venite con sicurezza."

Costeggiarono la chiesa, entrarono per un vicolo nero e misterioso, e dopo alcuni passi si fermarono.

"Ci siamo!" disse colui che guidava.

Si avvicinò a una porticina bassa, tarlata, sdrucita, e raschiò con l'unghia, leggermente, come un gatto. Dall'interno dopo un breve intervallo, rispose un altro raschio. L'uomo allora modulò un leggero fischio.

La porta si aprì silenziosamente; l'uomo prese per mano il bendato, lo trasse a sè nel vano nero e profondo, dicendo: "Venite. Badate, c'è un gradino..."

La porta si richiuse dietro a loro.

Percorsero un breve corridoio, in fondo al quale un'altra porticina si aprì con lo stesso mistero. Entrarono in un cortiletto, in mezzo al quale nereggiava nella notte un albero contorto. Il pavimento risonò nella notte sotto i loro passi, come se fosse stato vuoto.

"Attento," avvertì il guidatore "qui si scende."

Discesero infatti alcuni scalini; il bendato sentì che l'aria si faceva umida e sapeva di muffa; infatti la scala scendeva per un passaggio scavato nel tufo che grommava qua e là, e rendeva lubrico il terreno. Una lucernetta, posta in una piccola nicchia scavata nella parete, spandeva una luce appena sufficiente per lasciar indovinare gli scalini.

Ai piedi della scala si fermarono; il guidatore disse: "Aspettate qui un momento. Vi si verrà a prendere."

Lasciò il bendato in una specie di sala, e picchiò cinque colpi a una porta. Una voce dall'interno sussurrò delle parole misteriose, che il guidatore contraccambiò; la porta si aperse ed egli entrò in una stanza illuminata da lanterne infisse al muro. Alcune voci lo salutarono.

"Buona notte, zi' Rosario."

Alla luce delle lanterne apparve il volto butterato e gli occhietti vivaci del piccolo bottegaio.

"È qui" disse; "quando vossignoria vuole..."

In fondo alla stanza v'era una specie di altare di pietra, sul quale sorgeva un Cristo in croce, fra due candele accese, e ai piè della croce era aperto un libro. Dinanzi all'altare, c'era un tavolino, al quale sedevano tre uomini mascherati, vestiti con una specie di sacco nero: di qua e di là, sopra scranne, sedevano altri sei uomini, anch'essi insaccati e mascherati. Sotto le maschere nere gli occhi brillavano sinistramente.

Zi' Rosario s'avvicinò alla parete, cacciò le mani in una nicchia, ne cavò un involto e un istante dopo, anch'egli vestito del sacco e mascherato non fu più riconoscibile degli altri. Allora quegli che pareva presiedere la adunanza fece un segno: uno dei sei si alzò e uscì per rientrare quasi subito traendo per mano l'uomo bendato.

"Dategli la luce" ordinò il capo.

La benda fu tolta e apparve il volto attonito e commosso di Andrea. Il passaggio repentino dalle tenebre alla luce, per un minuto gli tolse la percezione esatta dell'ambiente; poi a poco a poco si assuefece, e nel momento di silenzio che regnò nella stanza, guardò con stupore il luogo in cui si trovava, quasi non persuadendosi che nel cuore di Palermo si trovassero di quelle caverne che, non infrequenti nei dintorni della città, il popolo attribuiva ai saraceni. La stanza era scavata nel tufo, con un certo criterio d'arte; aveva il tetto a volta, nelle pareti qualche nicchia. V'erano presso l'altare vestigia d'intonaco, ma l'umidità l'aveva scrostato: si sentiva che quella grotta si trovava nel sottosuolo.

Il capo domandò: "Voi vi chiamate Andrea Lo Bianco?"

"Illustrissimo, sì."

"Qui non vi sono illustrissimi; vi sono fratelli."

"Domando perdono..."

"Voi siete stato servitore del defunto duca della Motta?"

"Fino al giorno in cui morì per mano dei Turchi..."

"Sta bene. Questa venerabile società è venuta a conoscenza che voi potete fornire notizie intorno all'attuale duca della Motta... Occorrono notizie sicure e documenti: badate. Le parole non possono accontentarci. Noi siamo dietro a un'opera di giustizia e di rivendicazione, ma non abbiamo potuto fare un passo innanzi, perché ci siamo trovati dinanzi a una porta chiusa che forse voi potete aprire..."

Il capo tacque un minuto, indi riprese con voce solenne e commossa: "Andrea Lo Bianco, tu sei entra to in un luogo nel quale nessun profano ha messo mai il piede; ma ciò impegna la tua vita forse in un modo che tu non immagini. Sei tu sicuro di mantenere le tue promesse. Se non lo sei, dichiaralo: sarai accompagnato nel modo stesso col quale sei venuto, e sarai lasciato Libero; noi abbiamo fiducia nel tuo silenzio; ma se dichiari di esser sicuro, bada, Andrea Lo Bianco, che non ti concederemo più di ritirarti, e che accanto, dietro a te, in strada, in chiesa, nella tua casa stessa vi sarà sempre, invisibile e infallibile il braccio vendicatore della nostra giustizia..."

Andrea rispose: "Io ho fede in voi; abbiate voi fede in me. Voi siete qui per la giustizia, io per la vendetta. Voi mi avete salvato, e siete padroni della mia vita: io pongo tutto me stesso al servizio vostro."

"Sta bene. Fratelli, a voi."

I sei uomini si levarono e circondarono Andrea; a un cenno tutti nello stesso tempo trassero dal nero sacco che li copriva un lungo e affilato pugnale, e gliene fecero balenare la punta agli occhi; due di loro poi, rapidamente, afferrarono Andrea, gli denudarono il braccio sinistro, e con la punta del pugnale vi scolpirono una piccola croce. Il sangue fiorì sul braccio nudo. Allora uno dei tre che sedeva al tavolino si alzò, prese il libro dai piedi del crocifisso, lo pose sul tavolo, cavò da una scatoletta una penna, e, intintala nel sangue, la porse ad Andrea.

"Andrea Lo Bianco" riprese il capo "questo libro contiene i santi evangeli e le lettere del santo apostolo Paolo. Apponi la croce col tuo sangue su questa pagina; e giura di ubbidire ciecamente a quanto ti verrà imposto; giuralo per i santi evangeli, per il santo apostolo Paolo, per il tuo sangue, che sarà versato a stilla a stilla; giura che serberai il segreto di quanto udirai e vedrai e che nè tortura nè allettative ti strapperanno dalla bocca un solo accento; giura che il tuo corpo e l'anima tua apparterranno ora e sempre a questa venerabile società dei Beati Paoli, in servizio della giustizia, in difesa dei deboli, contro ogni violenza e prepotenza di governo, di signori, di preti."

Andrea con mano ferma tracciò una grossa croce, a piede della pagina che gli mostrava, e disse: "Lo giuro; e che questa croce scritta col mio sangue segni la mia sentenza se io verrò meno all'obbligo mio."

"Che Dio t'assista e il Beato Paolo apostolo ti armi del suo zelo, e ti dia la sua spada! Ora rispondi. Tu eri al servizio del duca don Emanuele?"

"Sì, signore."

"Fino alla sua morte, hai detto?"

"Egli morì fra le mie braccia; prima di morire mi diede una medaglia, perché la ponessi al collo del figliuoletto, che egli non conosceva. Tornato a Palermo, dopo qualche peripezia, adempii al pietoso incarico."

Il compagno che sedeva a destra del presidente domandò con vivacità: "E quella medaglia?"

"Era una medaglia d'argento, che da una parte teneva incastonata una reliquia, una piccolissima scheggia: dall'altra aveva impressa l'immagine di San Sebastiano, protettore dell'antica Accademia di Armi... Era sospesa a una catenella di maglie d'argento..."

"Ah!... sta bene!..." esclamò il Beato Paolo.

"Continuate" disse il capo.

"Contavo di vegliare sul padroncino, e avevo trovato una compagna fedele in Maddalena... Ma io fui cacciato via da don Raimondo, e Maddalena fu uccisa; forse avvelenata."

"Che cosa può farvelo supporre?"

"Don Raimondo tentò di avvelenare la duchessa...

Egli era andato col suo servo fidato a prendere il veleno in casa di una strega che abitava nel vicolo di S. Onofrio, e si chiamava Peppa la Sarda. Io udii quello che dissero, stando dietro la porta... Quando essi andarono via, irruppi nella casa di Peppa la Sarda, la obbligai a darmi il contravveleno, e, per sicurezza, imbavagliai e portai a casa mia la strega... Ma ogni sforzo riuscì vano. La duchessa fu certamente uccisa e ucciso il figlio... Per nascondere il delitto, don Raimondo simulò che degli assassini li avessero rapiti; legò una corda al parapetto del balcone, per simulare il ratto;... poi fece cadere i sospetti sopra di me, e fui arrestato e buttato in galera. un assassino, signori, un assassino: ha ucciso tre innocenti per impadronirsi di un patrimonio che non gli spetta..."

"Chi è il servo?"

"Ignoro se egli l'abbia ancora ai suoi servizi, si chiamava Giuseppico; era un majorchino, magro, nero, torvo."

"E che ne fu di Peppa la Sarda?"

"Non lo so. La stessa notte, ritornato a casa, non la trovai più. Come fuggì? Non lo so. Dove andò a rifugiarsi? Bisogna rintracciarla. Essa fornì due volte il veleno, e una notte andò in palazzo, per prepararlo essa stessa, e lo diede alla padrona, che la credette Maddalena... Oh, è una storia triste, infame, scellerata!... Se don Raimondo avrà avuto in potere suo la strega, l'avrà certamente fatta sparire; ma se è viva, essa è una teste, anzi un accusatore terribile... Essa e Giuseppico. La povera Maddalena avrebbe potuto dire ben altro... ma essa è morta, vittima della sua devozione alla padrona. Bisogna dunque rintracciare Peppa la Sarda e Giuseppico; non è possibile che essi siano morti; la mala erba non muore. Saranno rintanati in qualche luogo. Trovateli, obbligateli a dire la verità e fate giustizia. Le anime delle vittime, di donna Aloisia, del piccolo don Emanuele, di Maddalena vi benediranno, e avranno riposo."

Gli occhi di Andrea sfavillavano; sul suo volto passavano le onde della commozione; nella sua voce tremante l'odio e l'amore si avvicendavano. Un mormorio sommesso seguì, come un commento, alle sue ultime parole.

Il Beato Paolo che aveva rivolto la domanda sulla medaglia ad Andrea, allora si alzò e con voce commossa esclamò: "Dio è giusto! Dio è grande! Dio ha inviato a noi quest'uomo, perché la giustizia sia piena e intera: Dominus pupillum suscipiet, et vi peccatorum disperdet."

Andrea non capì quel latino, ma intuì che doveva alludere ai casi che aveva raccontato; e dall'enfasi con cui fu detto, arguì che c'era qualche cosa ch'egli non sapeva, ma che doveva essere terribile.

Il Beato Paolo che aveva parlato riprese: "Io ho qualche notizia che può interessare e sulla quale, anzi, richiamo l'attenzione di questo venerabile tribunale. Il duca della Motta ha ospitato in casa sua un giovane, che si chiama o si fa chiamare Blasco da Castiglione... Questo giovane gli è stato raccomandato da un frate del convento dei Chiovari, padre Bonaventura da Licodia. È un giovane valoroso, e pare che il duca lo abbia preso con sè per la sua difesa. Le mie informazioni dicono che è veramente temibile..."

"È vero" disse un altro; "egli bastonò i birri. Era alloggiato alla locanda del Messinese..."

Allora il capo disse: "Bisogna sapere chi è costui e donde viene."

Poi rivoltosi ad Andrea, aggiunse: "Voi tenetevi pronto agli ordini che vi saranno comunicati dal fratello che vi ha condotto qui: e intanto non vi fate conoscere, non vi fate vedere. Il duca della Motta ha sguinzagliato un cane, che è entrato subito in battuta; voi lo conoscete: È Matteo Lo Vecchio. State in guardia."

Fece un segno. Uno di quegli uomini misteriosi bendò di nuovo Andrea e lo condusse fuori. Ivi egli si trovò a fianco zi' Rosario che lo prese per mano e lo guidò per lo stesso cammino percorso prima. Giunto presso il Monte di Pietà lo sbendò.

"Su" egli disse "affrettiamoci a casa..."

Rifecero la strada senza parlare; Andrea era come sopraffatto da quello che aveva veduto: si domandava per quale ragione quel tribunale misterioso e terribile si interessasse delle usurpazioni del duca della Motta; certo non era per vendicare la morte di alcuno; e allora? E chi erano quegli uomini, dei quali tutti parlavano, che nessuno conosceva, e che pure incutevano tanto terrore nella città, e spesso rendevano titubante e timido il magistrato sul punto di sentenziare?

La setta che in quegli anni diffondeva in Palermo e anche in Val di Mazara il terrore dei suoi atti di giustizia aveva larghe ramificazioni che erano note soltanto al supremo tribunale che la dirigeva; gli affiliati ignoravano quanti erano; ognuno di essi non conosceva che il compagno dal quale era stato condotto con mistero, bendato, e non vedeva dinanzi a sè che uomini mascherati. Ne avveniva che gli affiliati erano sorvegliati dai capi, senza saperlo, e senza potersene guardare; ciò li rendeva muti, prudenti, fedeli, pronti anche al sacrificio.

Ai poveri, ai deboli, la setta si presentava come una formidabile protettrice e ciò le procacciava simpatie e quella inconsapevole e pur potentissima solidarietà, per la quale gli affiliati non si sentivano mai soli, e potevano contare nel soccorso e nella protezione del popolo e della piccola borghesia.

I padroni dello Stato erano i signori e il clero, perché essi possedevano la ricchezza; tutte le cariche erano in potere loro, gli uffici più delicati non erano concessi che a nobili, i quali naturalmente, per spirito di casta, si aiutavano, si sorreggevano, si proteggevano. Qualunque violenza commettessero, erano sicuri della impunità; le condanne più gravi si limitavano all'esilio o al confino in qualche nobile castello, o in qualche castello reale, dove erano alloggiati e serviti con ogni agio, e godevano della più ampia libertà. Ma il popolo e la piccola borghesia non avevano che la miseria e la servitù, e la legge folgorava i più feroci castighi che l'insano rigore di quei tempi le poneva in mano, non soltanto per punire colpe reali, ma anche per lasciar compiere violenze e ingiustizie.

I Beati Paoli apparivano ed erano di fatto come una forza di reazione, moderatrice: essi insorgevano per difendere, proteggere i deboli, impedire le ingiustizie e le violenze: erano uno Stato dentro lo Stato, formidabile perché occulto, terribile perché giudicava senza appello, puniva senza pietà, colpiva senza fallire. E nessuno conosceva i suoi giudici e gli esecutori di giustizia. Essi parevano appartenere al mito più che alla realtà. Erano dappertutto, udivano tutto, sapevano tutto, e nessuno sapeva dove fossero, dove s'adunassero. L'esercizio del loro ufficio di tutori e di vendicatori si palesava per mezzo di moniti, di lettere, che capitavano misteriosamente.

L'uomo al quale giungevano, sapeva di avere sospesa sul capo una condanna di morte.

Come erano sorti?... Donde? Mistero. Avevano avuto degli antenati: quei terribili "vendicosi", che ai tempi di Arrigo VI e di Federico II erano diffusi per il regno e il cui capo era un signore, Adinolfo di Pontecorvo; i proseliti migliaia; il loro compito quello di vendicare le violenze patite dai deboli.

Ma nessuno seppe mai chi fosse il capo dei Beati Paoli, nè potè mai dire se appartenesse a questa o a quell'altra classe o casta. Nessun processo potè mai, in più di un quarto di secolo, diradare il mistero. Qualche volta un uomo saliva sul patibolo, accusato di delitto di sangue: si diceva, si riteneva per certo che fosse un affiliato; ma nè la tortura nè la vista del patibolo poterono strappargli il segreto. La giustizia troncava qualche ramo; l'albero rimaneva e gettava i nuovi germogli.

Nel 1713 la setta era nel suo pieno vigore; pareva infervorata di quel che le pareva opera di giustizia, e la città ne era come sopraffatta. Il governo viceregio, la corte capitaniale, il tribunale del Sant'Offizio si erano confederati, mettendo da parte i litigi consueti per preminenze e prerogative, per estirpare la setta; ma invano. I più arditi segugi, nel punto in cui pareva loro di essere sulle tracce, cadevano misteriosamente.

Questa era la società segreta nella quale Andrea s'era imbattuto; questo il tribunale cui chiedeva vendetta: e nella sua immaginazione, attraverso la maschera, ingrandiva quei personaggi, dando loro sembianze quasi straordinarie. Se egli avesse potuto, nascosto, vedere in volto quegli uomini terribili, che, lui uscito, si tolsero le maschere, si sarebbe stupito nel vedere delle fisionomie insignificanti e comuni.

L'uomo che, seduto accanto al capo, aveva rivolto qualche domanda ad Andrea, era don Girolamo Ammirata.