Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte prima, capitolo 12

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Alle ore ventidue del giorno dopo, una vera fiumana di gente scendeva per il Cassaro, verso Porta Felice, per vedere lo sbarco del re. Dai balconi pendevano arazzi e tappeti; ai Quattro Canti erano stati nella notte improvvisati quattro archi di trionfo, addobbati di stoffe, nappe, frange e lumiere; e i quattro prospetti sparivano quasi sotto i velluti e gli ori.

Presso Porta Felice era stato costruito il ponte per lo sbarco, con un grande arco parato coi colori della città, e sormontato da un'aquila dorata e coronata, che fra gli artigli teneva lo scudo sabaudo.

Fino dal mezzodì la guarnigione spagnola, coi bagagli, s'era recata alla Cala, per imbarcarsi; e una folla di amici, di congiunti, di compaesani, già divenuti cittadini, aveva accompagnato i soldati di re Filippo non senza un certo rammarico. Quei soldati aveva no già contratto nozze e stretto parentele coi cittadini, e nella consuetudine della dimora si consideravano già cittadini essi stessi; la ragione dei trattati li cacciava dal regno, del cui possesso non pensavano essere privati. Con le famiglie, erano circa dodicimila persone che se ne andavano, che lasciavano tante cose care, memorie, affetti, consuetudini, per dar posto a una gente nuova, piovuta improvvisamente, come un esercito conquistatore, ma senza avere neppure la gloria d'avere conquistato il regno.

Quella partenza aveva qualcosa di triste e di angoscioso: destava rimpianti e compianti, forse anche sdegni.

Le truppe savoiarde e piemontesi, intanto che gli spagnoli si imbarcavano, scendevano dai vascelli e venivano ordinandosi nella passeggiata della Marina, per precedere l'ingresso del re come egli aveva ordinato.

Era dunque un doppio spettacolo quello che si offriva alla gente, come preparazione all'altro più solenne e del. tutto nuovo, quale l'ingresso dei sovrani, i quali non sarebbero sbarcati che quando le truppe savoiarde avessero preso possesso della città. Si calcolava che il re non avrebbe posto piede a terra prima di ventitrè ore, cioè un'ora prima dell'Ave; bisognava dunque affrettarsi per trovare un buon posto in prima fila, o sulle gradinate delle chiese, donde lo spettacolo si sarebbe goduto meglio.

A ventidue ore tutti i balconi del Cassaro erano gremiti di gente, specialmente di signore; le gradinate zeppe, il Cassaro stipato. Non un palmo di terra vuoto. Sulle teste della folla, qua e là emergevano gli aspetti vivaci e giocondi di bimbi, tenuti a cavalcioni sul collo dei padri. La folla si apriva, buttandosi, ondeggiando da una parte e dall'altra per lasciar passare le carrozze della nobiltà; alla magnificenza dell'equipaggio, alla ricchezza e ai colori delle livree le riconoscevano. Quella era del principe Butera, primo titolo del regno. Il principe don Placido Nicolò Branciforti col capo smarrito in una enorme parrucca arricciata, salutava con amichevoli sorrisi di protezione quanti, e non erano pochi, si scappellavano e si sberrettavano al suo passaggio. Quell'altra era del principe di Geraci... Ecco le livree di casa Alliata, e quelle di casa Settimo, di casa Bonanno, del marchese di Regalmici, di casa Filangeri; passavano tutte, sfolgorando l'oro delle decorazioni la bellezza e il numero dei cavalli, la quantità degli schiavi e dei servitori.

Il Senato passò nelle proprie carrozze, preceduto dai musici, dai conestabili a cavallo, dai cerimonieri e dai due mazzieri; col capitano, coi giudici, gli uffiziali, le guardie urbane vestite di rosso e di giallo, una magnificenza veramente regale, che era ragione di orgoglio e di compiacimento del popolo, del quale appagava l'innato gusto per ogni cosa bella, ricca, magnifica.

Laggiù, fuori Porta Felice, la ressa era maggiore. I reggimenti e gli squadroni savoiardi, circa seimila uomini, con le bandiere, i tamburi, gli ufficiali nelle loro varie uniformi, si dirigevano a entrare in città; la folla si assiepava, intorno a loro, pigiandosi tra le linee di soldati e le carrozze che si andavano schierando secondo il grado le preminenze, presso il ponte di seco. Moltissima altra folla aveva preso d'assalto le barche; lo specchio d'acqua della Cala ne era pieno. Il sole calando sopra Monte Cuccio vestiva di una luce d'oro il fortino della Garita e il mastio del Castello o gettava sulle onde frastagliate e agitate da migliaia di remi, fiamme sulle sete rose del ponte, sui velluti, sugli stendardi.

Un colpo di cannone fece voltare tutti verso il Castello. Si vide sopra l'antenna salire lentamente e dispiegarsi al sole il vessillo del regno di Sicilia, tutto bianco con in mezzo una grande aquila nera coronata, che recava in petto lo scudo di Savoia. Il sole rivestì di luce quel vessillo, come per salutarlo e parve che veramente esso risplendesse di nuovo splendore di augurio di nuova era per il regno dalla mala signoria ridotto a stremata decrepita provincia.

Nel tempo stesso alcune gondole si; staccarono dai vascelli del molo; la prima di esse, grande, ornata d'oro e d'un padiglione di velluto rosso, con sopra l'insegna della città, era servita da rematori in livrea rossa. Era la gondola del Senato, e dentro vi erano il re Vittorio Amedeo, la regina Anna d'OrlÈans e il principe Tommaso. Allora le truppe diedero nei tamburi, le trombe squillarono e, ordinate, con passo cadenzato, cominciarono a entrare da Porta Felice.

Era già il tramonto; l'aria si faceva scura: cominciò ad accendersi qualche torcia dinanzi alla porta di una bottega; fu il segnale: tutto il Cassaro si illuminò improvvisamente; alle botteghe, sulle ringhiere dei balconi si accesero lanterne, torce, lampade; dal pianterreno ai fastigi delle case e dei palazzi, il Cassaro apparve costellato di stelle fiammeggianti, come un cielo d'agosto.

A mano a mano che i tamburi procedevano si propagava per il Cassaro quel fremito, quell'agitarsi trepidante dell'aspettazione di una gioia: "Eccoli! eccoli!..."

Dopo i soldati sarebbe venuto il re. Il re! Che cosa era un re? Che cosa era questo nume invisibile, questo nome che empiva i cuori di una soggezione religiosa, questo ente misterioso, del quale fino allora avevano conosciuto la volontà lontana cui si erano piegati, senza domandarsi perché?

Ecco finalmente il re. Egli veniva a restituire al regno la sua indipendenza, alla capitale il suo splendore...

Da un balcone all'angolo della strada degli Schioppettieri, don Vincenzo Bongiovanni si godeva lo spettacolo. Non era solo. Oltre a Pellegra, aveva invitato don Girolamo Ammirata e il giovane nipote di lui, del quale egli era quasi entusiasta.

"Venite con noi" aveva detto loro; "ho un posto buono, in casa di un amico. Non abbiate soggezione; è gente che ne sarà lieta; e poi... sentirete che vinetto! E sentirete anche dell'altro. Sapete che quella pettegolina di Pellegra m'ha fatto una poesia sulla venuta del re? Ma poesia, non sciocchezze!...

Don Girolamo aveva accettato. Ora se ne stavano tutti e quattro in un canto della pesante e lunga loggia, appoggiati alla ringhiera di ferro battuto; il giovanotto all'angolo, Pellegra accanto a lui, poi don Vincenzo e il razionale; don Vincenzo loquace, allegro, strampalato, sboccato anche, senza riguardo a Pellegra; don Girolamo taciturno, serio, riservato. Il pittore era così infatuato nella sua parlantina, che non guardava la figlia: e i due giovani, in quello sbocciare della giovinezza, parevano così felici di trovarsi accanto, avvolti nell'ombra della sera, che nessuna cosa sembrava li interessasse, circondati di gente da ogni parte, con una folla mobile, fluttuante, rumorosa sotto i loro occhi, si sentivano soli; non vedevano che se stessi, non udivano che le voci delle loro anime assorte.

Tante volte si erano trovati accanto nello studio del pittore, posando, per soddisfare i capricci che la fatuità suggeriva a don Vincenzo, ma sebbene improvvisi. rossori e fremiti inconsapevoli qualche volta li turbassero, non avevano mai provato la dolce soggezione, il tenero imbarazzo che quella sera il trovarsi spalla contro spalla, nell'angolo della loggia, metteva loro nelle vene. Il rullio dei tamburi, lo squillare delle trombe attrasse per un po' la loro attenzione.

Pellegra al vedere la selva di baionette che scintillava nel Cassaro esclamò: "Quanti soldati!"

"È vero che avete fatto una poesia per il re?" domandò il giovanotto.

"Sì..."

"Come si fa a inventare una poesia? Non mi è mai riuscito: eppure penso tante cose... sapete? quando sono vicino a voi!... Vi offenderete se ve le dico?"

"No, dite pure..."

"Ebbene, quando sono vicino a voi, nel cervello mi tumultuano tanti pensieri, tante belle idee; e non posso esprimerli, o se voglio trovare le espressioni, mi vengono in mente quelle che leggo nei poeti che ha lo zio Girolamo. I padri del Collegio m'insegnano il latino, e non m'insegnano a scrivere delle poesie... Chi l'ha insegnato a voi?"

"A me? Nessuno... I versi mi vengono in mente belli e fatti..."

"Come v'invidio..."

"Perché?"

"Perché se sapessi scriverne... ne farei tanti per voi..."

Pellegra arrossì e sorrise e parve volesse sviare il discorso: "Guardate, Emanuele," disse.

Passava un gruppo di ufficiali a cavallo, con le sciarpe turchine al cinto, le spade sguainate, diritti e fieri.

Il giovane disse: "Vi piacerebbe se io fossi uno di quelli?"

"Sì: sapete che io ho letto molto, non è vero? Ho letto la Gerusalemme e l'Orlando, e quei cavalieri prodi e cortesi mi passano sempre dinanzi agli occhi... Quelli dovevano essere tempi veramente eroici! Mi sarebbe piaciuto nascere allora."

"Ah, se fossi più grande e ricco!..."

"Che fareste?"

Potrei avere un brevetto di capitano... e potrei passare con la mia compagnia sotto le vostre finestre."

Tacquero. Adesso, terminato il passaggio dei reggimenti veniva la cavalcata dei signori, le cariche del regno, il senato; infine il marchese di Balbases già vicerè per la Spagna. Vittorio Amedeo e Anna d'OrlÈans; il re tutto raso, con la parrucca riccioluta alla moda di Francia, il volto lungo dei Savoia, il naso affilato, un po' duro e sostenuto; la regina magra, bionda, angolosa, col naso lungo borbonico. Dietro, nelle altre carrozze, il principe Tommaso, i grandi dignitari della Corte piemontese, le guardie. Le artiglierie, dai bastioni; dal Castello, dai vascelli, tuonavano; le campane di tutte le chiese, per ordine ricevuto da monsignor Gasch, arcivescovo, squillavano a festa e dalla strada, dai balconi illuminati, tra lo splendore di mille e mille torce, via via che il corteo procedeva, si levava il grido di "Viva il re!", grido imprigionato da secoli di servitù straniera nel profondo dei cuori, e che prorompeva, adesso, con tutto l'entusiasmo di un sogno avverato.

La commozione aveva preso l'animo anche di don Girolamo: il pittore gesticolava e gridava: "Mi piace! mi piace!... Parola d'onore che ne farò un quadro; ne farò un quadro!... Adesso voglio andare alla Cattedrale; deve essere tutta illuminata, e ci sarà l'arcivescovo per ricevere il re, e cantare il Te deum... Andiamo, andiamo. Su, Pellegra! Venite, don Girolamo."

Trascinò i suoi amici giù per le scale, aggiungendo: "Andiamo per i vicoli, non ci sarà gente e potremo andare presto."

Era così preso dalla sua idea, ridendo come un fanciullo e correndo per la strada degli Schioppettieri, che non aveva riguardo per i suoi compagni. Don Girolamo aveva tentato di moderarlo: "Diamine, vuole scoppiare? la Cattedrale non se la portano via, certamente". Ma don Vincenzo non gli dava retta; dimenticava perfino la figlia. Bisognò seguirlo alla meglio in quella corsa, su per la piazza del teatro di S. Lucia, per la strada sotto l'arco di San Giuseppe e via per la strada di S. Chiara.

Pellegra ed Emanuele si tenevano vicini, la fretta ogni tanto li spingeva l'uno verso l'altro e le loro spalle si urtavano leggermente. Ne ridevano. Quella corsa li divertiva; parevano due agnelli usciti dall'ovile a scorrazzare sul prato. Don Girolamo li seguiva. Altra gente aveva avuto la medesima idea e percorreva di fretta la medesima strada; in qualche punto essa era così numerosa, che bisognava aprirsi il passo, urtando qualcuno, che lanciava dietro a loro dei moccoli. Risalirono per la strada dell'Origlione, cacciandosi in un labirinto di vicoli, donde finalmente, per il vicolo del Lombardo, riuscirono nel Cassaro, all'estremo limite del piano della Cattedrale.

Ma allo sbocco del vicolo dovettero fermarsi: il Cassaro era in quel punto invaso da un fiume in piena; la popolazione avida di spettacoli aveva seguito le truppe, e si era agglomerata; risospinta e divisa dalle carrozze, si addossava alla balaustra, rinculava nei vicoli, si risospingeva, dilagando nel piano; pigiavasi sotto il bellissimo portico del XV secolo, per entrare in chiesa, e trovare i posti migliori. Ma la chiesa doveva essere gremita.

Il pittore disse: "Bisogna aprirsi la strada a furia di gomiti..."

"Ma non si può entrare in chiesa" disse don Girolamo; "non vedete che ressa?"

"Bah! entreremo dalla sagrestia: vedrete che a me apriranno... Sono conosciuto..."

Bisognò seguirlo. Don Vincenzo si cacciò animosamente nella folla cogliendo il destro per gettarsi dietro una carrozza, approfittando del breve spazio libero fra una carrozza e l'altra per passare all'altra parte del Cassaro. Pellegra tentò di seguirlo, ma in quel punto sopravveniva un'altra carrozza, preceduta da quattro lacchè con le torce, uno dei quali, con la consueta tracotanza dei servi, prese Pellegra per un braccio e la ributtò indietro; ma nel tempo stesso un violento spintone lo mandò a gambe levate fra le zampe dei cavalli. Un urlo dominò il frastuono; il cocchiere cercò di frenare i cavalli, ma non così in tempo da impedire che il lacchè fosse travolto e pesto dai primi due.

Avvenne un momento di panico e di confusione. L'urlo, il subito rinculare dei cavalli, l'arrestarsi della carrozza, il precipitarsi degli altri lacchè per trarre e rialzare il caduto, la percezione confusa di un urto e di una caduta, impaurì la folla che, non sapendo di che si trattasse, immaginò una rissa, armi, morti; i più vicini alla carrozza indietreggiarono violentemente gettandosi su quelli che stavano dietro; il moto si propagò in un attimo; la folla ondeggiò, fuggì, lasciando lì in mezzo i lacchè col ferito sanguinante in braccio, e innanzi a loro Emanuele in atteggiamento pugnace, col viso giovanile feroce, e Pellegra tremante, ristretta a don Girolamo.

Tutto ciò avvenne con una rapidità che non diede tempo a nessuno di formarsi un'idea precisa dell'accaduto, salvo che al giovanotto. Ma l'urlo, il fermarsi improvviso dei cavalli, lo sbandarsi della folla, gettarono lo sgomento anche dentro la carrozza; lo sportello si aprì subito e ne balzò fuori Blasco, che al vedere il lacchè ferito, sostenuto dai compagni, si avvicinò precipitosamente, esclamando: "Che cosa è dunque avvenuto?"

Egli era ancora lontano dal supporre che Emanuele, visto l'atto villano del lacchè l'avesse buttato fra le zampe dei cavalli; e gli altri lacchè non si erano accorti di nulla, tanto la scena si era svolta rapida, improvvisa, imprevista, per cui non potevano dare nessuna spiegazione.

Ma Emanuele disse: "Signore, i vostri lacchè sono malcreati! Bisogna insegnare loro a rispettare le signore, se non volete che vi si buttino sotto le ruote..."

Blasco guardò attonito quel giovanotto, che aveva atteggiamenti da uomo, e che parlava così fieramente.

"Che cosa vuoi dire, ragazzo mio?" gli domandò avvicinandoglisi.

"Voglio dire, signore," rispose Emanuele "che sono stato io a dare una lezioncina al vostro lacchè."

Blasco passò da uno stupore all'altro e, cosa curiosa, si sentì cadere dall'anima ogni collera. Ma una voce femminea dalla carrozza lo scosse da quel suo sbalordimento.

"Don Blasco! don Blasco!"

Egli allora si avvicinò allo sportello dal quale si era sporto fuori un grosso volto spaurito: "Non è nulla, signora duchessa." rassicurò "è caduto un lacchè."

E ritornato verso Emanuele, gli pose una mano sulla spalla e gli disse: "Tu mi sembri un bravo ragazzo e i bravi ragazzi mi piacciono. Ma ti consiglio di non farti più vedere da me. Vattene..."

Con un gesto gli fece fare una giravolta; ma il giovanotto col viso in fiamme, si rivoltò vivamente per reagire: se non che don Girolamo e Pellegra gli si gettarono dinanzi, trattenendolo e riparandolo a un tempo.

"Emanuele! Emanuele!..."

Le carrozze che erano indietro intanto facevano ressa, la folla rassicurata si spingeva, stringendo da ogni parte, stretta e spinta dalla fiumana che saliva su dal Cassaro, che scendeva dai vicoli. Blasco fece con le spalle un gesto di noncuranza e rimontò in carrozza: il cocchiere sferzò i cavalli, che si mossero con un grande scalpitio; la carrozza riprese il cammino con due soli lacchè, passò dinanzi a Emanuele e a Pellegra, per raggiungere il posto che le spettava gerarchicamente.

Pellegra ed Emanuele videro dentro la carrozza accanto a Blasco una giovane e bellissima signora.

Don Girolamo la riconobbe: "Ah!" esclamò "la duchessa della Motta!..."

Essi, attraversarono il Cassaro, entrarono nel piano della Cattedrale, tendendo la folla col proponimento di raggiungere don Vincenzo Bongiovanni, che supponevano stesse aspettando dinanzi la porticina della sagrestia. Pellegra si stringeva a Emanuele, provando dei brividi al contatto del giovane, che la facevano impallidire: dentro di sè giustificavasi, attribuendo alla pressura della calca, dentro la quale si aprivano a fatica il passo, quel doversi stringere a lui; ma era quasi subito costretta a confessare che non era senza piacere, e che volentieri cedeva al fiotto che la spingeva contro la spalla di Emanuele. Egli le appariva ora più grande, un uomo; tanto virile e superiore alla sua età le era sembrato quel gesto, per la prontezza, l'energia, il coraggio, tanto più ammirevoli, in quanto si trattava di signori potenti.

A un certo punto la folla era così fitta, che essi si trovarono stretti stretti. Emanuele, istintivamente, come per difendere Pellegra da quelli che la premevano, le circondò la vita col braccio.

Ella si sentì venir meno, e mormorò: "Oh Dio!... Che cosa fate, Emanuele?"

Egli parve stupirsi di questo suo atto; balbettò: "Scusate... c'è tanta gente... Non credevo che avreste potuto avervene a male..."

"No..." rispose, non valutando il peso delle sue parole; "non me l'ho a male."

E allora si guardarono sorridendo, ma con uno sguardo nuovo, e si sentirono rimescolare il sangue, e non parlarono; ma le loro mani non si lasciarono più.

Così giunsero dinanzi alla porticina della sagrestia. Don Vincenzo Bongiovanni non c'era: forse era entrato, impaziente di aspettare. Le campane suonavano a distesa; il re e la regina erano già entrati nel Duomo, ricevuti dal cardinale e dal Capitolo; le carrozze s'erano fermate in fila, una dietro l'altra, coi lacchè intorno, stanchi e impertinenti, aspettando i padroni che avevano seguito il re dentro il tempio.

La duchessa della Motta era scesa dalla carrozza anche lei, appoggiandosi al braccio di Blasco.

Ella aveva chiesto informazioni dell'accaduto, ma il giovane si era limitato a rispondere: "Una ragazzata. Uno spintone; un lacchè è andato sotto, ma non si è fatto gran male; l'ho fatto trasportare nella bottega di uno speziale."

Don Raimondo nella sua qualità di magistrato essendo dovuto andare coi suoi colleghi, aveva pregato Blasco di accompagnare la duchessa; ciò che egli aveva accettato di buon grado. Da due o tre giorni egli era ospite del palazzo degli Albamonte, e, sebbene non abusasse della sua fortuna, era diventato, senza volerlo e senza saperlo, il dominatore della "torre di Montalbano".

Don Raimondo, pur conservando la sua maschera di freddo e cortese protettore, sentiva entro di sè una specie di astio contro quel giovane, della cui origine aveva col suo acume penetrato il mistero; ma sentiva che egli era e doveva essere il naturale difensore della sua persona e della sua casa e se lo traeva sempre appresso ora con un pretesto, ora con un altro.

Era bastato vedere per un giorno Blasco in compagnia del nobile duca e osservare la considerazione in cui era tenuto, perché con la curiosità destata dal suo ingresso nella società aristocratica, si manifestasse una specie di benevola attenzione. Il che, mentre aveva tranquillato gli scrupoli del nuovo amico, aveva giovato ad accomodare la questione col principe Iraci. Si capisce che, data la differenza di grado, non era il caso di una sfida in piena regola, secondo il giudizio dei "politici" ossia degli intendenti in materia. Il cavaliere della Floresta, andò su e giù; si ebbero delle spiegazioni reciproche, e non si parlò di nulla. Ma intanto, siccome la questione tenne occupati per due o tre giorni cavalieri e signori di alto rango, la fama di Blasco da Castiglione fu assicurata.