Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte prima, capitolo 14

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Don Raimondo era stato avvertito a cena del caso occorso al suo lacchè e se ne era sdegnato come di una offesa assai grave recata alla sua casa, che bisognava punire. Se ogni popola no o borghese osasse ribellarsi ai servi in livrea, che ne sarebbe dell'autorità e del prestigio della nobiltà? Ma per quella notte, nonostante le sue investigazioni, non gli riuscì di scoprire il reo.

Blasco cercò di dissuadere il nobile signore dai suoi propositi. Egli era così felice, che non poteva capire, nel suo cuore, almeno in quell'ora, alcun sentimento di odio; e quel ragazzo gli era sembrato così bello nel suo atteggiamento audace, che si sentiva piuttosto attirato ad ammirarlo, che disposto a consentire ad una punizione.

"Si tratta di una cosa assai lieve. In fondo il lacchè ha avuto quel che si meritava, e se l'è cavata con qualche ammaccatura e una piccola ferita alla fronte... Perdonategli!"

Anche donna Gabriella inclinava all'indulgenza. Ella aveva veduto una bella ragazza trattenere il giovanotto, e quella visione, rievocata ora, nelle nuove condizioni del suo spirito, la disponeva alla benevolenza.

Ma don Raimondo si ostinò, come se un segreto astio lo pungesse, o un desiderio di sfogare l'interno cruccio che quelle vaghe minacce, quelle lettere misteriose gli mettevano nell'anima. In cuor suo se la prendeva con Blasco. Che diamine, dunque, ci stava a fare quel bravaccio? Perché non aveva preso per il collo quel ragazzo e non lo aveva consegnato alle guardie? Ragazzo, poi? Chi poteva assicurare che dietro quel ragazzo non ci fossero gli uomini, e che quell'incidente non fosse stato provocato?

La dimane mandò a chiamare Matteo Lo Vecchio.

"Ebbene," gli disse "sapete quel che avvenne ieri sera alla mia carrozza?"

"Eccellenza, sì."

"Ah!... E sapete chi osò recarmi ingiuria?"

"Lo so..." "Ah!... Chi è costui?"

"Un ragazzo, un nipote, almeno così dice, del razionale dell'Ospedale Grande, don Girolamo Ammirata..."

"Ah!... Bene. Andate e arrestatemi lo zio e il nipote."

"Vostra Eccellenza sa che ci vuole l'ordine del capitano..."

Don Raimondo guardò il birro e, senza rispondere, prese un foglio di carta, vi scrisse alcune righe, lo chiuse, lo sigillò, e lo diede al birro: "Eccovi una lettera per il capitano di giustizia."

Il birro la intascò, ma non si mosse, come se aspettasse qualche cosa.

"Avete qualche notizia da darmi?" gli domandò il duca.

"Eccellenza, sì."

"Ebbene..."

"Ecco: ieri sera io seguivo, in mezzo alla folla, la carrozza di vostra Eccellenza..."

"Ah! dunque eravate presente?"

"Eccellenza, sì..."

"E non avete arrestato quel mascalzone?..."

Il birro fece un gesto negativo, e disse: "Non era prudente, nè mi conveniva, perché avevo per le mani una cosa più importante."

"Sarebbe a dire?... Sbrigatevi!"

"Ecco. Quando quel giovanotto rigettò il lacchè, don Girolamo Ammirata guardò intorno, e fece un gesto impercettibile con le dita, sulla testa, un gesto che poteva scambiarsi con una grattatina, ma che non lo era: e a quel gesto due o tre mani si alzarono contemporaneamente, allo stesso modo; il che, vostra Eccellenza non ha bisogno che io glielo spieghi, significa evidentemente un segno di riconoscimento e di intesa.

Tanto più che don Girolamo sorrise lievemente, e il suo volto espresse questo pensiero: "Va bene"."

"E voi supponete?"

"Che se quello è un segno di riconoscimento, devono appartenere a una combriccola, che potrebbe essere quella che noi cerchiamo..."

"Non credete di correre troppo?" domandò il duca della Motta non senza aprire il cuore a una lieta speranza.

"Non c'è notizia che esistano in città altre sette. Ma c'è dell'altro."

"Ah!"

"Io mi misi dietro a don Girolamo, al nipote e alla ragazza, che è la figlia del pittore Bongiovanni, e li accompagnai fino alla porta della sagrestia del Duomo. Nessuno poteva supporre che io seguissi loro: ma a un tratto, mentre don Girolamo stava per picchiare, un uomo gli si avvicinò e gli sussurrò una parola all'orecchio; don Girolamo si voltò, cercando tra la folla, i suoi occhi s'incontrarono nei miei. Qualcuno dunque mi aveva notato, e mi faceva notare... Io finsi di non comprendere, anzi, mi avvicinai a fatica alla porta della sagrestia, e con l'aria più indifferente domandai a lui stesso: "Si può entrare qui?". Egli mi rispose di no; io mi indugiai un poco ancora, come per la speranza di entrare, ma la sagrestia non s'aperse, e allora mi allontanai, mescolandomi tra la folla, ma senza perdere di vista il mio uomo."

Il duca ascoltava pensieroso. Quel contabile, che egli conosceva di nome, apparteneva dunque ad una setta segreta, che con ogni probabilità era quella dei Beati Paoli? Se le lettere misteriose che gli giungevano emanavano da quella terribile società, certamente egli doveva saperne qualche cosa. Come venirne a capo? Sarebbe stato capace il birro di penetrare il segreto? Lo guardò, e l'aspetto volpigno dell'uomo parve infondergli un po' di speranza.

Disse: "E ora che vi proponete di fare?"

Matteo Lo Vecchio sorrise finemente e rispose: "So bene che potrei buscarmi qualche palla, di notte, dietro la schiena; ma si capisce che ora dovrò cercare i mezzi di penetrare nel covo di quei malandrini..."

"Bravo! e confidate di riuscire?"

"Eccellenza, non mancherà per me... Le ripeto, che se non mi ammazzano, io saprò chi sono e dove si adunano, e chi scrive quelle lettere..."

"Se giungerete a questo vi farò ricco..."

"Grazie, Eccellenza. Soltanto avrei un'osservazione da fare... Che se io arresto don Girolamo e il nipote, mi tolgo l'unico filo che ho per ora nelle mani..."

"Avete ragione. Datemi quella lettera..."

"Perdono, Eccellenza. La lettera, se non oggi, mi può essere utile domani, fra otto, venti giorni, e la utilità può manifestarsi così improvvisamente e urgentemente, che un indugio per venire da vostra Eccellenza a domandargliene un'altra potrebbe riuscire dannoso..."

"È giusto. Tenetela. Avete bisogno di denari?"

"Eh!... non guastano mai; e forse e senza forse, sarà necessario ungere le ruote..."

"Prendete."

Il duca si cavò dalla tasca una borsa piena di scudi e la diede al birro, che in un baleno la fece sparire nella sua ampia saccoccia.

"E tenetemi informato" aggiunse don Raimondo.

Le parole equivalevano a un congedo.

Matteo Lo Vecchio diceva fra sè: "Accorto, Matteo; tu hai trovato una California; bisogna saperne approfittare con giudizio: le cose un po' per volta... E procura di farti onore!... Ma quei maledetti Beati Paoli sono come gli spiriti... Si vedono, si sentono e non si acchiappano mai...".

Egli si avviava pianino pianino, come un modesto impiegato che va per i fatti suoi, ma esercitando l'occhio investigatore prudente. Era troppo conosciuto, per poter passare inosservato, e spesso gli giungeva dietro le spalle qualche allusione poco lusinghiera; appunto per questo procurava, camminando, di prendere un'aria indifferente e quasi distratta.

Si avviava a casa per desinare.

Matteo Lo Vecchio abitava in un vicolo dell'Albergheria, che porta ancora il suo nome, poichè il birro ebbe dai suoi concittadini l'onore di un ricordo, che molti, illustri per virtù cittadine e per ingegno, non ebbero o dovettero aspettare dei secoli, perché qualche studioso, affrontando le critiche, osasse timidamente consigliarlo. Quel vicolo aveva perduto la sua denominazione, per chiamarsi col nome del birro, fin da quando questi era vivo.

Egli si era a poco a poco così immerso nei suoi pensieri, che pur volgendosi a sbirciare ai suoi fianchi, non notò che una specie di servitore dalla livrea stinta, gli teneva dietro fin dalla piazza della Mercede. Lo aveva guardato così, indifferentemente, e siccome non gli aveva offerto nulla di singolare da richiamare la sua attenzione, non ci aveva più badato. Quel servitore, che all'aspetto pareva mortificato della sua povera livrea, non gli badava. All'angolo della chiesa dei Santi Cosmo e Damiano si era fermato a contrattare con un carrettiere, che stava lì fermo appoggiato alle stanghe, fischiando: avevano scambiato poche parole, dopo le quali il servitore e il carrettiere erano saltati sul carretto, e la mula si era avviata lentamente per la strada della Guilla, girando per la stradetta del collegio dei Gesuiti seguendo lo stesso cammino di Matteo Lo Vecchio.

Se il birro si fosse voltato indietro, avrebbe naturalmente pensato che quel servitore era andato a cercare il carro per trasportare della roba, nè avrebbe pensato mai che il carrettiere studiasse il passo della mula, per non raggiungerlo. Egli non avrebbe potuto vedere, nè sospettare le manovre misteriose del servitore sopra la mula, quando si trovarono tutti nel bel mezzo della stradetta.

Il servitore, infatti, chinatosi sulla groppa della bestia, cacciò sotto il sellino qualche cosa che infastidì subito la mula; il carrettiere allora la punse col manico della frusta.

La mula si scosse, si dibattè, come per liberarsi di qualche cosa, sparò un paio di calci e si diede improvvisamente a correre, presa da una pazzia che la faceva andare serpeggiando.

La strada era, ed è stretta; la distanza fra il carro e Matteo Lo Vecchio breve. La mula a un tratto fu : addosso a Matteo Lo Vecchio, che fu sorpreso dal fracasso del carro e dalle urla del carrettiere e del servitore, voltatosi, e vedutosi sopra quella furia di animale, cercò di scansarlo, ma non così presto che una delle stanghe, colpendolo : di fianco, non lo rovesciasse, e non lo travolgesse sotto le ruote.

Il carro passò oltre, come una furia sboccò nel Cassaro; la mula inferocita, aveva perso il lume degli occhi; trasportata dall'impeto suo medesimo, andò a cozzare, tra lo spavento e le grida della gente, contro lo stipite di una bottega di fronte, rovinando ogni cosa e rovesciandosi per terra, con tutto il carro.

Venti mani, cessato il primo sgomento, le furono sopra. Il carrettiere e il servitore s'erano gettati lestamente per terra, in tempo, e mentre il primo si affannava per raggiungere la mula, disperandosi e sacramentando, l'altro, con un viso tutto pietà, sollevava da terra Matteo Lo Vecchio, gemente, pesto e sanguinoso.

"Oh poveretto!... Che disgrazia!..."

Della gente, richiamata alle grida, al rumore, accorreva affollandosi, domandando che cosa fosse avvenuto, commiserando.

Qualcuno, riconoscendolo, alzava le spalle. "ah, è quel pezzo di birbante? Bene gli stia!..."

Qualche altro, più feroce, aggiungeva: "Lasciatelo crepare lì, non vi date pensiero di lui... Birro è!..."

Ma il servitore andava attorno, cercando una seggiola.

"Bisogna trasportare questo di sgraziato all'ospedale... Infine è carne cristiana come noi... Un po' di misericordia la comanda il buon Dio!..."

La pietà vinse alcuni. Adagiarono Matteo Lo Vecchio, che dolorava, sopra una seggiola, e pianino pianino si avviarono per l'ospedale che non era lontano, mentre i più ostili ripetevano:

"Sì, sì! fategli bene; vedrete come ve ne pagherà. Oh, che non sapete forse che il birro non la perdonò a San Michele Arcangelo, che per compassione lo fece entrare in Paradiso?"

Sbuffando, recalcitrando, impennandosi, ritornava la mula col carro, tenuta per la briglia dal carrettiere.

"Dovreste castigarla cotesta mula, compare. Dal momento che l'aveva sotto, doveva finirlo, perdinci!"

A poco a poco la folla si diradò, ognuno riprese le sue occupazioni, e portò altrove la notizia che un carro aveva arrotato Matteo Lo Vecchio.

Non si commosse nessuno; ma ora, quando don Raimondo seppe che il birro si trovava all'ospedale con una gamba spezzata, e che ne aveva a dir poco per due mesi, impallidì. Caso? Certo; ma quel "caso" incoglieva proprio il suo agente segreto, nel momento stesso in cui, scoperta la pista, entrava in battuta. C'era forse un destino misterioso che gli avversava la strada? Ne ebbe un brivido di sgomento. La sua contrarietà crebbe, quando a cena Blasco gli ricordò una promessa.

"Vostra Eccellenza mi aveva promesso di parlare al re, in favor mio, e ottenermi un posto nelle milizie. Ho veduto le guardie; mi piacerebbe entrare in quel reggimento, sono quasi tutti gentiluomini..."

Don Raimondo pensò dentro di sè con collera: "Adesso vuole andarsene anche questo poltrone!...".

Ma la sua maschera non tradì il pensiero intimo, e rispose benevolmente: "Vedremo, vedremo... ve l'ho promesso e manterrò. Ma non c'è premura, e la vostra compagnia mi è così simpatica che, scusate l'egoismo, non vorrei privarmene tanto presto... Del resto credo che non abbiate ragione di lamentarvi di noi..."

"Tutt'altro, signor duca; sono anzi riconoscentissimo alla sua bontà e a quella della signora duchessa, ma io sento di non dovere più oltre abusare della sua ospitalità... Il che non toglie per altro, che sarò sempre un fedele affezionato servitore della sua casa..."

"Bene, bene!... ne parleremo più tardi..."

Egli non si accorse della nube di tristezza che velava la fronte di donna Gabriella e della quasi taciturnità di Blasco; era così immerso nei suoi pensieri, che si era, per così dire, isolato. Si domandava se gli conveniva fare arrestare don Girolamo e il nipote, con un pretesto, e tenerli in prigione almeno tutto il tempo che Matteo Lo Vecchio sarebbe stato nella impossibilità di rientrare in attività; ma non riusciva a risolvere il problema. La violenza primitiva gli suggeriva di agire; la prudenza acquisita e la maschera assunta gli imponevano circospezione.

E la cena quella sera fu silenziosa e grave.