Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte prima, capitolo 16

Italiano English

Quelle furono settimane di tripudio, che chiamarono a Palermo non soltanto gli abitanti del contado e delle città più vicine, ma anche quelli delle città più lontane, e perfino da Messina e da Catania, nonostante la stagione invernale, che rendeva ancora più disagevoli le strade, per se stesse difficili.

Da trecento e più anni, da re Martino fino a quell'anno 1713, non si era più vista nessuna festa di coronazione a Palermo; lo stesso Carlo V, venendo in Sicilia dalla impresa di Tunisi, non chiese di essere coronato nell'antica capitale del regno, dove pur diciannove teste regali erano state consacrate e coronate dal metropolitano; si capisce, dunque, quale attrattiva esercitasse quella cerimonia nuova, che non si sarebbe certamente veduta con frequenza, che aveva per l'isola una grande significazione politica e che destava a nuove speranze il sentimento nazionale.

Fin dalla metà di dicembre era cominciata l'immigrazione dei "regnicoli"; i fondachi e le locande s'andavano popolando di viaggiatori insoliti, che venivano con le bisacce colme di formaggi paesani, di cosce di maiale salate, di noci e fichi secchi e con fiaschi di terracotta smaltata pieni di buon vino, per fare economia.

Nei conventi e nei palazzi trovavano ospitalità i piccoli signori di provincia, gli abati, i grossi borghesi che avevano qualche relazione; per le strade s'incontravano frotte di "regnicoli" che guardavano con stupore le meraviglie della capitale, di cui avevano sempre udito parlare con stupore e anche con orrore. Sapevano che per soggiornare a Palermo ci volevano le saccocce molto rigonfie; anche la statua dell'imperatore nel piano dei Bologna diceva, con la mano distesa innanzi: "Qui bisogna spendere un sacco grande così! Ma per un'occasione come quella si poteva affrontare la spesa. La città pareva loro superiore a ogni immaginazione. Il Duomo, le statue e le fontane sparse per ogni dove, i palazzi altissimi, le carrozze, le sedie volanti, le botteghe, ma soprattutto la Fontana Pretoria e i Quattro Canti, li lasciavano a bocca aperta.

Approfittando di quella invasione di "forestieri" Andrea era uscito dal suo nascondiglio. Zi' Rosario l'aveva trasformato con una parrucca a zazzera grigia, un paio di grossi occhiali, un abito talare un po' sudicio e stinto. Andrea sembrava un pretonzolo di provincia e lo stesso don Raimondo non l'avrebbe riconosciuto. Qualche monello, vedendolo per le strade, e supponendolo piovuto da qualche paesucolo di montagna, gli gridava dietro qualche buffoneria sguaiata che faceva ridere i passanti; ma Andrea fingeva di non capire, e se la pigliava in santa pace, per non richiamare troppo l'attenzione altrui sopra di sè.

Egli andava gironzolando con l'apparenza di un curioso, in cerca di meraviglie, ma in realtà per scoprire una traccia delle persone che gli premeva di ritrovare. In quei giorni, di bighellonare, fermarsi qua e là, vedere gente, udire discorsi, ce ne era quanto se ne voleva.

Nel piano di S. Erasmo si rizzava un ampio e magnifico padiglione, dove il re e la regina si sarebbero recati in forma privata, per vestirsi in tutta la pompa della maestà e, seduti in soglio, ricevere gli omaggi della nobiltà e delle magistrature del regno; da lì, poi, si sarebbero mossi per l'ingresso solenne ufficiale in città.

Dinanzi a Porta dei Greci il Senato faceva allestire un magnifico arco trionfale, alto quasi diciotto metri di nostra misura, fregiato di pilastri, colonne, statue che raffiguravano le virtù del nuovo re e le qualità della felice città di Palermo. I pittori finivano in quei giorni di dare l'oro e l'argento sull'azzurro che vi campeggiava.

Un altro arco, ricco di trofei e di quadri a chiaroscuro, era costruito per ordine del Senato a Porta Felice: e, per non turbare la bellezza architettonica dei due fianchi, avevano addossato ai pilastri un'arcata di legno, dipinta a marmo. Un terzo arco aveva elevato la nazione napoletana dinanzi alla sua chiesa di S. Giovanni in piazza Marina, sormontato da una statua della Vergine, e addobbato di velluti. Più su, nel Cassaro, nel crocicchio formato dalla strada della Loggia e da quella dei Chiovari - oggi Cintorinai - i genovesi avevano innalzato un altro arco trionfale, alto sessanta palmi, con quattro facciate, quattro arcate, pilastri, colonne, cornici, scartocci, statue e quadri a chiaroscuro che rappresentavano le imprese dei duchi di Savoia e dei genovesi in difesa della fede cristiana, della quale era pure simboleggiato il trionfo nella croce, arme dei principi sabaudi e della repubblica di Genova.

Intorno a questi archi, cui artigiani, decoratori, pittori davano l'ultima mano, si affollavano i curiosi, andando dall'uno all'altro, commentando, magnificando, comunicando notizie e impressioni. Quelle opere parevano luoghi di convegno.

Ma la folla maggiore si adunava ai Quattro Canti che il Senato faceva decorare col più grande sfarzo. Quattro archi di trionfo s'alzavano agli sbocchi delle quattro strade, con pitture, ornati, allegorie; drappi d'oro e d'argento e velluti rivestivano le quattro facciate monumentali; e sopra di essi emblemi, simboli, iscrizioni, magnificavano il nuovo re, ed esprimevano il giubilo della città e del regno; sulle quattro fontane, quattro grandi tele allegoriche; ai lati di ognuna di esse, due palchetti per i musici. La piazza ottagonale pareva un immenso padiglione.

Luogo consueto di ritrovo, adesso con quegli apparati richiamava oltre ai "regnicoli", ai forestieri, anche i cittadini dei quartieri più lontani, e le quattro strade parevano le foci di quattro fiumane confluenti che si confondevano tumultuando. Di lì passava tutta Palermo.

L'ultimo arco di trionfo, innalzato dalla colonia milanese, sorgeva all'angolo dello arcivescovado che guarda il Duomo.

Andrea passava dall'uno all'altro indugiandosi, osservando, scrutando senza parere, sotto la maschera di povero buon prete di montagna, ma di più si fermava ai Quattro Canti, dove maggiore era il concorso dei curiosi, maggiore quindi la probabilità di vedere qualche viso noto, di afferrare qualche parola. Ma nè un motto, nè uno sguardo. Egli non vedeva che fisionomie insignificanti e udiva discorsi che non lo interessavano.

Forse, pensava, un giretto per le locande non sarebbe stato fuor di proposito: ma occorreva un pretesto, e non era difficile improvvisarne uno. Con una piccola bisaccia in collo, fingendo di essere arrivato allora, cominciò a visitare le locande: quelle di S. Antonino, quella del Messinese, quella dell'"Olio", della "Campana", della Fieravecchia, dei Lattarini, quella di Failla ai Tornieri; andò in quella di Colonna Rotta, fingendo di non rimanere contento del locale o del prezzo, ma indugiandosi in ognuna di esse. La sua incontentabilità gli procacciava le male parole dei locandieri, che ci si arrabbiavano. Oh! che cosa voleva quel morto di fame, un letto di piume con le coperte di seta? Poteva ringraziare Dio se trovava un canile, da tanto ch'era miserello nel suo robone verdastro!...

Ma le male parole e le minacce non lo scuotevano: gli doleva solo che le sue ricerche riuscivano infruttuose. Aveva visitato invano le locande della città, nelle quali erano soliti venire i "regnicoli", e non gli rimanevano che le più misere e suburbane.

Si avviò dunque per la strada del Serraglio, fuori porta di Termini dove erano due povere locande; ma giunto in piazza della Fieravecchia, dinanzi alla fontana sormontata dalla statua di Palermo coronato, si fermò colpito da una figura di donna, accoccolata sopra i gradini, col capo un po' chino sul petto e l'aria stanca e balorda.

La guardò attentamente con l'aria di chi non è ben sicuro, ma più disposto a riconoscere una persona già veduta; e più la guardava, più pareva riconfermarsi nel suo aspetto e una viva gioia gli si dipingeva sul volto. La donna levò il capo: forse l'ombra nera di quel pretonzolo fermo dinanzi a lei richiamò il suo sguardo.

Gli stese la mano dicendo con voce rauca: "Mi fa la carità?.. Se vuole le indovino la ventura."

"La mia ventura? Eh! la so bene io, figlia mia. Non aspetto nessun premio, perché non gioco al Seminario di Genova o alla estrazione di Milano..."

"Io leggo la sorte..."

"Hai dunque commercio col diavolo?"

L'indovina ebbe un tremito di paura.

"Dico per ridere. Mi fa la carità? Un grano..."

Andrea si frugò nelle tasche: trovò una monetina di bronzo e la diede alla donna.

La piazza era quasi deserta. Qualche facchino sedeva sui gradini, dal l'altro lato della fontana, sonnecchiando in attesa di qualche commissione che non veniva; poche persone attraversavano la piazza, in fretta; nessuno badava a loro.

Andrea si chinò e sottovoce disse: "Dove sei stata finora, Peppa la Sarda?"

A quel nome la donna sobbalzò stupita e spaventata, e guardò con terrore quel prete, sforzandosi di ricordare se mai l'avesse veduto altra volta, e balbettò con una finzione che l'accusava: "Peppa la Sarda?... Non so chi sia... forse s'inganna."

"Non m'inganno, ed è inutile fingere. ti conosco da quindici anni addietro... quando abitavi al Monte di Pietà..."

La donna tremava in preda a un vero smarrimento, non seppe trovare una parola di risposta, vagando intorno con gli occhi, sospettosa, e investigando il volto sogghignante di quel prete misterioso ed ignoto.

"Venni qualche volta a trovarti nel tuo antro, quando facevi dei beveraggi... anche per mandare all'altro mondo qualche... duchessa!..."

La donna perdette ogni padronanza di sè; balbettò ancora: "Ma no... vossignoria s'inganna... Se qualcuno sentisse... certe cose non si dicono così per la strada..."

"Non aver paura... Non ci ode nessuno, e del resto non potrebbe capire... Su, alzati... Sono parecchi giorni che ti cerco."

"Me? Cerca me?.."

"Sì, te; non te ne meravigliare; non voglio nessuna polverina, ma certe informazioni... Alzati."

Peppa la Sarda, soggiogata, si alzò; aveva le vesti a brandelli, i piedi nudi, l'aspetto miserabile la faceva apparire più vecchia.

"Come ti sei ridotta!" mormorò il falso prete; "avrai fame, certamente; ti darò di che ristorarti... Hai una tana per dormire?"

"Nossignore..."

"E dove dormi?"

Ella fece un gesto che significava: "Dovunque, sotto il cielo".

"Bene, bene!" mormorò Andrea; "ti troverò l'alloggio. Va' innanzi, io ti seguirò... e bada, non tentare di fuggire, perché mi basta un grido, per fare accorrere le guardie e consegnarti al Sant'Offizio... E stavolta non te la caveresti con qualche anno di carcere. Ricordati della duchessa della Motta!..."

"Per carità," gemette la strega atterrita "zitto! Vengo: dove dobbiamo andare?"

"Al quartiere della Conceria, dietro le case di S. Rocco... Va' innanzi."

L'Ave era sonata, il cielo anneriva faceva freddo; Peppa la Sarda tremava di freddo e di terrore. Quel prete era forse una spia? Era un famulo del Sant'Offizio? Come sapeva tutte quelle cose? Come la conosceva?... Eppure quella voce... quella voce ella l'aveva udita. Dove? Quando? Egli l'aveva rassicurata è vero, ! la conduceva in qualche casa, evidentemente, invece di consegnarla ai birri e di condurla in prigione, ma ciò non bastava. E domani? Camminava in fretta, come se, giungendo più presto, si sarebbe liberata da un incubo. Obbediva a quel cieco impulso che spinge talvolta il reo a confessare ogni suo delitto, come per scaricarne l'animo, e lo affretta alla pena, come una liberazione. Ormai era in potere di quel prete; un atto di resistenza, un tentativo di sottrarsene l'avrebbero perduta. Via via riprendeva un po' della sua calma e poteva considerare la sua condizione. La femmina riprendeva il suo dominio. Bisognava giocare d'astuzia: non si era forse trovata altre volte in pericolosi frangenti? Non se n'era cavata?

La speranza rinasceva e con la speranza la curiosità di sapere chi era quel prete, e come conosceva uno dei tanti orribili segreti della sua vita.

Invece di percorrere le strade principali aveva preso delle vie traverse, strette, tortuose, forse con un lontano sogno di fuga, ma Andrea le stava così dappresso, che dovette abbandonare l'idea. Quando giunsero al la parrocchia di S. Margherita, prima di cacciarsi in quel dedalo di vicoletti misteriosi che rendevano formidabile alla polizia il quartiere dei Conciatori di pelle, Andrea si pose risolutamente accanto a Peppa la Sarda.

A un centinaio di passi dalla parrocchia si fermò: "È qui."

Erano dinanzi a una taverna illuminata da una fumosa lampada ad olio.

"Zi' Rosario" disse Andrea "questa povera donna ha fame, e l'ho condotta da voi, che siete di buon cuore. Essa non ha un terdenari".

Ammiccò con l'occhio.

Zi' Rosario fece un gesto di benevolenza e rispose: "Entrate, buona donna."

Poi, siccome nella taverna c'erano tre o quattro persone che bevevano intorno a una tavola sudicia, aggiunse: "Venite da questa parte: starete con maggior libertà."

Peppa la Sarda era troppo furba per credere alla bontà di quel tavernaio; capì che la sequestravano, ma ormai, non potendo sottrarsene, bisognava affrontare la situazione e cercare di difendersi con tutte le astuzie che la condizione di donna del suo conio avrebbe saputo suggerirle.

Non arrivava però a comprendere ancora il perché di quel sequestro, e che volessero da lei quegli uomini. E diceva mentalmente "uomini" perché non dubitò un solo minuto che l'oste e il prete non fossero d'accordo.

Seguì Zi' Rosario in una stanzetta dietro il banco, in fondo alla quale era una scaletta. Andrea le teneva dietro.

"Su" disse.

"Accompagnatela voi" fece Zi' Rosario, dando ad Andrea una lucernetta; "io vo a prendere qualche cosa per rifocillarla..."

Andrea spinse Peppa la Sarda su, nella stanzetta che egli abitava da tre mesi; chiuse la porta, buttò sul letto il tricorno, la parrucca, gli occhiali, il robone, e postosi contro la lucerna, così da esserne pienamente illuminato, domandò con volto e voce terribili:

"Peppa la Sarda, mi riconosci?"

Ella lo guardò, impallidì, sbarrò gli occhi spaventati e mandò un grido di terrore.

"Adesso a noi;" disse Andrea; "siediti e non tremare: non ti faremo nulla, se avrai giudizio."

Zi' Rosario portò del vino, del pane e del pesce fritto.

"Vedete che l'ho finalmente trovata" gli disse Andrea; e rivolto a Peppa la Sarda, aggiunse: "mangia: parleremo dopo."

Ma Peppa la Sarda non mangiava: aveva la gola serrata.