Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte prima, capitolo 20

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La sera della coronazione, vigilia di Natale, don Ottavio Lanza, principe di Trabia, dava una magnifica festa nel suo palazzo nel piano del Cancelliere. Tutte quelle cerimonie solenni di ingressi e di coronazione, nelle quali il nobile signore aveva esercitato pienamente le prerogative che gli venivano dal suo grado di secondo titolo del regno, come, per esempio, quella di tenere la staffa del re, gli avevano fatto credere doveroso manifestare la sua devozione al nuovo re e, forse più, la sua magnificenza, con una di quelle feste, nelle quali i signori di Palermo sapevano profondere con gesto superbo e con uguale incoscienza quanto sarebbe bastato a promuovere i commerci e le industrie del regno.

I Trabia abitavano un antico palazzo, nobile architettura del Trecento, ancora visibile nell'eleganza delle finestre ogivali, geminate, a decorazione policroma, che danno sui giardini pensili della via Candelai. La tradizione voleva che questa fosse stata la dimora di Majone, il famoso ministro di Guglielmo il Malo assassinato da Matteo Bonello, ma la storia non serbava che una sola memoria certa di questo palazzo: quella di una festa nuziale, finita tragicamente con la morte di centinaia di persone, per il crollo improvviso del pavimento della gran sala. Fu nel 1527, e il palazzo apparteneva allora al nobile Giorgio Bracco.

Quell'infausto ricordo non impedì alla nobiltà di accorrere numerosa all'invito del principe, che aveva parecchie attrattive; prima di tutte la pompa veramente regale; l'intervento della nobiltà piemontese e savoiarda della Corte del re, e infine la singolarità tradizionale della vigilia di Natale: un magnifico presepe, con personaggi di legno scolpiti stupendamente e vestiti riccamente e una cantata composta per la circostanza da Melchiorre Lomè, nome anagrammatico, col quale esprime va i suoi poetici furori il reverendo don Michele Romeo, gesuita, e posta in musica da don Giuseppe Dia, maestro della cappella del Senato: essa sarebbe stata eseguita dai musici dell'unione di S. Cecilia. E tutto ciò senza contare il giuoco e una gran cena di più che millecinquecento coperti.

La grande sala del palazzo sfolgorava di luce: dal soffitto scendevano lumiere ricche di dorature, sulle pareti coperte di stoffe preziose e arazzi, dinanzi a piccoli specchi rococò ardevano gruppi di candele; luce ed oro dappertutto, dappertutto un abbaglio che faceva credere di essere trasportati nella regione del fuoco immaginata dagli antichi. Ma le altre sale offrivano sorprendenti novità: una di esse era stata trasformata in un bosco, che riprodotto da grandissimi specchi sapientemente frammezzati fra gli alberi, si moltiplicava si prolungava in altre boscaglie, che fantasticamente si perdevano con una confusione di rami, nell'ombra. Un'altra sala pareva un grande pergolato, nel quale le viti si intrecciavano con l'edera e altri rampicanti e i grappoli con grandi fiori dalle forme più fantastiche e dai colori vivacissimi, nel cui calice si nascondevano delle lampade. Nel mezzo una vasca con un fresco zampillo, nella quale si riflettevano i lumi, in un scintillio che pareva tramutare l'acqua in fuoco. La sala dov'era il presepe, aveva lo aspetto di una grotta di stalattiti, annegata in una blanda luce azzurrognola, lunare, da lumi sapientemente celati fra le rocce artificiali. In fondo, un grande arco sembrava la bocca della grotta, ma una tenda dipinta con una gloria d'angeli la chiudeva. Su, di qua e di là dalla bocca, mascherati dalle rocce, si trovavano i palchetti per i musici invisibili.

Era un regno fantastico, una specie di sogno, un incanto, che stupiva, attraeva, affascinava.

Per tutte quelle sale si moveva una folla non meno abbarbagliante e affascinante; le sete, i rasi, i velluti, le trine finissime d'Olanda e i ricami d'oro profusi con magnifica e gustosa ricchezza, le gemme sfolgoranti in copia vertiginosa tra i capelli, sulle carni candide come nevi intatte, leggermente colorate dall'aurora, si confondevano in un'onda di profumi. Tutte le iridi più luminose vibravano i toni più caldi e le sfumature più delicate; la Voluttà e le Grazie pareva fossero congiunte insieme per presiedere quel consesso di semidei, disceso dall'Olimpo in quel tempio a miracoli mostrare.

I più bei titoli risonavano per le bocche e tra le parole mielate e gli epiteti più vezzeggiativi che la moda aveva introdotto nel frasario sdolcinato e svenevole di quella società, quasi a velare con una ingenuità arcadica la mostra invereconda di spalle e di seni, e la licenziosità dei costumi.

Coriolano della Floresta aveva detto a Blasco: "Volete venire stasera alla festa del principe di Trabia? Vi farò invitare."

Ma Blasco aveva rifiutato.

"Vi incontrerei probabilmente la duchessa e ciò m'imbarazzerebbe alquanto..."

"Voi? Avete abbastanza spirito..."

"V'ingannate. L'ho veduta stamattina alla coronazione e vi confesso che ne ebbi un gran turbamento. Ella fece le viste di non accorgersi di me; se non avesse tenuto questo contegno freddo, forse mi sarei turbato di meno... È ancora troppo presto per vederla senza commozione."

Così Coriolano della Floresta andò solo.

Donna Gabriella, infatti, era alla festa, circondata da uno sciame di giovani, ai quali la sua bellezza faceva perdere la testa. In mezzo a loro, ella, sebbene piccolina, dominava. Le punte del suo spirito colpivano e sgomentavano, ma, più di tutti, prendevano di mira il principino di Iraci, che non si era rassegnato alle sue sconfitte e si rodeva per una rivincita.

Vedendola sola, senza quell'antipatico cavalier servente che, accompagnandola dovunque, gli aveva impedito di ritentare l'assalto, aveva provato un vivo sentimento di compiacenza, come se fosse stato liberato da qualche incubo. Si era già saputo, nei graziosi pettegolezzi delle conversazioni signorili, che Blasco aveva lasciato il palazzo Albamonte, e si era supposta una rottura fra donna Gabriella e lui, la cui divergenza di opinioni nel diritto di bastonare i servi non pareva che il pretesto. L'assenza di Blasco aveva confermato il ragionamento logico, e la piazza pareva dunque abbandonata ed esposta al più audace occupante.

Il principino di Iraci credeva, dunque, il momento opportuno di piantare le batterie e aprire la breccia; ma donna Gabriella lo aveva sgomentato con due o tre frecciate che avevano fatto arrossire il nobile, quanto fatuo e vanitoso giovane.

Gli altri avevano applaudito, ridendo, lieti dell'insuccesso; cosa che aveva ancor più mortificato il giovane. Ma donna Gabriella, a un tratto, sorridendo e con un'aria di bontà che sconcertò i calcoli di coloro che avevano riso disse: "Andiamo, principe, offritemi il vostro braccio! e conducetemi un po' in giro ad ammirare le sale."!

Le parole erano rivolte al principino, ma i suoi occhi avevano guardato il cavaliere della Floresta, che si avvicinava in quel punto.

Ella prese con ostentazione il braccio del giovane, che si era risollevato, raggiante di gioia, riprendendo la sua boria di piccolo pavone e attraversò il gruppo, rispondendo con un inchino ironico al saluto ossequioso di Coriolano della Floresta.

Non ebbe il tempo di accorgersi del sottile sorriso, impercettibile sogghigno, che sfiorò le labbra di Coriolano, nell'inchinarsi.

Il cavaliere, barattando qualche parola ora con questo ora con quello, entrò nella sala da giuoco. V'era una gran ressa intorno alla gran tavola dove si giocava a bassetta e i mucchi d'oro sparivano o crescevano a ogni sfogliare di carte, tra il cicaleccio, le scommesse, le puntate. Negli altri tavolini si giocava a goffo e ad altri giuochi più o meno rischiosi e il denaro correva, in poste favolose; qua e là dei gruppi d'uomini più maturi discorrevano degli avvenimenti della mattina e del modo come s'era svolta la festa della coronazione, delle speranze concepite per il nuovo regno.

"Sapete che il principe di Villafranca ha ricevuto l'incarico di ingaggiare una compagnia siciliana di guardie del corpo? Quaranta gentiluomini..."

"Ben pensata... È un giusto riconoscimento di un nostro diritto..."

"Il re nominerà tre cavalieri dell'Annunziata e alcuni gentiluomini di camera..."

"Chi sono? Chi sono?"

La notizia era data da don Raimondo Albamonte.

"Se le mie notizie sono esatte, i cavalieri dell'Annunziata saranno tre principi..."

"V'è Trabia?"

"No. Forse Butera, Geraci e Cattolica."

"Perché poi Cattolica e con Trabia che è secondo titolo?"

"E i gentiluomini?"

"Saranno sei o otto; il gran ciambellano faceva i nomi di sei principi, un duca e un conte... Sono di gran casato..."

"I nomi, duca, i nomi?"

La notizia di quelle prossime onorificenze aguzzava la curiosità, destava desideri vanitosi: avere una distinzione di più stabiliva una certa preminenza in quell'Olimpo.

"Scommetto che il duca siete voi..." "No; è Angiò..."

"Angiò? Angiò? Perché lui?"

"E tra i principi, credo, ci siano quelli di Carini, di Scordia, di Raffadali, di Villafranca, di Roccafiorita, di Palagonia..."

Quei nomi suscitarono, secondo l'umore e l'opinione che ciascuno aveva di sè, approvazioni, delusioni, commenti.

"Sarà poi vero?"

Altrove si commentava il procedimento della cerimonia della coronazione.

"Sia detto con tutta devozione, ma secondo me, dal momento che il re si coronava con la corona di Sicilia, i gentiluomini assistenti del soglio dovevano essere siciliani. La spada toccava portarla a un Branciforti, e la corona a un Ventimiglia o a un Moncada... Sono diritti..."

"Avete veduto che al "Sanetus" il re si tolse la corona dal capo con le sue mani, invece di farsela togliere dal gran ciambellano?"

"E poi la mise da sè, dopo la comunione."

Cominciavano già a serpeggiare piccole critiche, e a manifestarsi quel sordo astio verso la nuova monarchia che non avrebbe mai fuso e amalgamato intorno al trono la nobiltà siciliana.

Coriolano della Floresta passava distrattamente da un gruppo all'altro fermandosi un po', barattando qualche parola. Don Raimondo lo salutò con un freddo sorriso. Sapeva che aveva ospitato Blasco e ciò, date le ragioni della separazione, gli pareva una mancanza di riguardo e un gesto di paura, giacchè da quando aveva fatto arrestare don Girolamo Ammirata ed Emanuele, una certa inquietudine turbava il suo spirito. In fondo non aveva nessun elemento di accusa, e salvo l'ingiuria fatta alla sua livrea dal giovanotto, non poteva incolparli d'altro. Il capitano di giustizia poteva tenerli in carcere; ma l'Ammirata poteva far giungere al re una supplica e ottenere la scarcerazione, non essendoci alcun processo contro di lui. Temeva inoltre di non avere posto le mani sul vero autore delle lettere misteriose che gli arrivavano non meno misteriosamente, giacchè il giorno dopo l'arresto di don Girolamo, il duca aveva trovato un'altra lettera, della medesima scrittura coi soliti versetti dei salmi, i soliti disegni, le solite parole oscure e anche una non lontana allusione a quell'arresto.

Aveva fatto chiamare Matteo Lo Vecchio, ma il birro era partito per Girgenti, in servizio di quell'avvocato fiscale, per il conflitto che vi era sorto tra il vescovo e il potere civile, in seguito all'interdetto lanciato dalla Curia pontificia. Si sentiva solo, e ciò lo rendeva più cruccioso contro Blasco, che si era allontanato per un nonnulla, e contro il cavaliere della Floresta.

Coriolano finse di non essersi accorto della freddezza di quel sorriso, barattò qualche parola e passò oltre. Cercava con l'occhio dove fosse andata la duchessa.

Cominciava la cantata: si udirono le prime battute di un'orchestra assai semplice, che imitava il molle e patetico suono della cornamusa. La duchessa probabilmente si trovava sotto le stalattiti iridescenti della grotta artificiale, per godersi lo spettacolo. Entrò anche lui, indifferentemente, mescolandosi tra la folla degli uomini, in piedi dinanzi alla porta.

Dei servi avevano portato sgabelli e piccole seggiole e cuscini per le dame; donna Gabriella s'era seduta quasi sotto uno dei palchetti, col dorso a uno dei pilastri foggiati a stalattiti e stalagmiti che li reggevano. Il principino di Iraci le stava dietro, chinato sulla spalliera, in un atteggiamento ostentatamente sdolcinato.

Coriolano, insinuandosi dolcemente, senza parere, giunse a mettersi sotto il palchetto nello spazio fra il pilastro e la parete; il pilastro lo nascondeva agli occhi del principino, ma la duchessa poteva vederlo.

In quel momento la gran tenda dipinta s'aperse da un lato, e il grande presepe apparve in un fulgore di luce che abbagliava, dietro una specie di bocca d'opera scura, che pareva l'apertura di una grande grotta. Giacomo Serpotta, il meraviglioso scultore, aveva ideato e plasmato l'ampia scena; era una serie di colli aspri, coperti in cima di bianche nevi, qui elevati a picco, lì dolcemente degradanti, che s'andavano perdendo in una lontananza cerulea, in forme più dolci. Verso il proscenio, la capanna del bambino Gesù, formata da alcune colonne, addossate come un prono a un chiuso di pietre coperto di paglia; in alto si librava una gloria di angeli con lunghe! strisce di carta sulle quali era scritto: Gloria in excelsis Deo et pax in terra hominibus bonae voluntatis; dinanzi alla porta della capanna lo zampognaro e il pifferaio, e due o tre pastori genuflessi; dentro, Giuseppe e Maria: questa in ginocchio, l'altro in piedi, appoggiato al bastone fiorito, tra attonito e riverente; fra loro la mangiatoia, col bambino Gesù in atto di benedire, e, dietro, l'asino e il bue. Dalla testa del bambino si irraggiava un nimbo di luce, formata da sottili strisce di vetro poste in modo da rifrangere le cento e cento fiammelle nascoste che illuminavano il presepe. Dall'altra parte vi era una grotta, dove dei pastori fabbricavano ricotte e caci; dei caciocavalli tondi e prismatici pendevano dalla volta della grotta; più in giù una taverna addossata alle rocce, coi tavolini fuori, il tavernaio dietro il banco pieno di caraffe e intorno ai tavolini pastori, contadine, viaggiatori, intenti a gozzovigliare. In alto, sopra una roccia, una torre, col torriere sopra; sotto la torre un pastore dormiente, e un po' più giù un altro, spaventato dall'improvvisa luce. Nel fondo della valle un fiume, accresciuto da una cascata, attraversato da un ponte, e sparsi tra le sponde, lungo il corso, sul pendio dei colli, pastori che tiravano capre per le corna; lavandaie, ortolani col somaro carico di cavolfiori, un cacciatore col cane, un pescatore, un contadino curvo sotto un enorme fascio di legna. Tra una roccia e l'altra, un gruppo di case, fra le quali una bottega da salumaio, con tutto ciò che il realismo gastronomico poteva suggerire, in bella mostra degli avventori che stavano a contrattare. Nello sfondo si vedeva altra gente, a piedi, a cavallo; e più lontano ancora un lembo di mare, e oltre quel lembo una città con le sue torri, le sue casupole, i suoi campanili, vaganti nel vapore roseo dell'aurora che si diffondeva nel cielo azzurro.

Tutti quei personaggi, alti più di un palmo, di legno, immaginati ed eseguiti con uno schietto realismo, erano vestiti di vere stoffe: le sete, i velluti, i damaschi, le nappe d'oro, si alternavano con le pelli; le mode più schiette dell'ultimo Seicento con delle fogge di nessuna epoca e di nessun paese; il realismo più efficace con le figurazioni più spirituali. Non v'era rispetto per la cronologia, nè per la logica, nè per la geografia e il costume, ma la fantasia vi aveva moltiplicato episodi della vita in una forma viva e vera, che giustificava la fama che godeva quel presepe.

I cantori avevano attaccato con un motivo largo e ondeggiante, che dominava il bisbiglio di ammirazione, mentre gli archi, accompagnando con toni ora bassi ora alti, frammezzavano di tanto in tanto le tradizionali note della pastorale.

Donna Gabriella pareva assai stufa delle manifestazioni del principino di Iraci, ma volgendo la bella testa e accorgendosi di Coriolano, assunse una maschera felice che provocò un impercettibile sorriso sulle labbra di Coriolano.

"Non disturbo?" le domandò piano, con un grazioso inchino.

Donna Gabriella rispose con adorabile civetteria: "Voi?... Siete così avaro della vostra compagnia, che è una fortuna vedervi."

"La signora duchessa mi lusinga. Ma temevo di interrompere una conversazione che, sotto questa grotta, può anche prendere il colore di un idillio..."

Donna Gabriella lo guardò per vedere se dicesse sul serio; le parve di leggere qualcosa di beffardo, di ironico nel volto di Coriolano; sviò il discorso e, fingendo di stare attenta alla musica, disse: "Sentite? Ecco una bella frase... Oh, davvero che don Giuseppe Dia è un gran maestro! ... Ne convenite?"

"Non si può non convenire coi vostri giudizi..."

Il principino di Iraci aveva allungato il collo, per vedere con chi donna Gabriella parlasse, e riconobbe Coriolano. N'ebbe dispetto, perché sapeva che il cavaliere della Floresta era amico di Blasco e l'ospitava, e gli pareva di scorgere l'odiato e già fortunato avversario, attraverso il volto di Coriolano.

Donna Gabriella moriva dalla curiosità di sapere perché Blasco non fosse venuto alla festa. Sebbene la condotta del giovane l'avesse ferita, e un sentimento indefinibile che rassomigliava all'odio ora le agitasse il petto contro di lui, pure aveva sperato di incontrarlo alla festa, per umiliarlo col suo disprezzo e la mancata soddisfazione che si era promessa, l'avvelenava dentro. Ma non lasciava trasparire il disprezzo.

Dopo un istante, distrattamente e con l'aria più indifferente, domandò: "E il vostro amico, il vostro ospite?... Perché non l'avete condotto?"

"Oh, non è mancato per me... Si è rifiutato."

"Sì?" e aggiunse poco dopo: "Si capisce, il povero giovane è ancora un po'... selvatico e rude..."

"Vi domando perdono se oso affermare un'opinione contraria alla vostra; ho potuto scoprire invece che egli ha dei sentimenti delicatissimi, che dovrebbero essere meglio apprezzati... Non avrà forse saputo farveli conoscere? Ne sarei sconsolato, ma non stupito; ma in questo caso meriterebbe il vostro compatimento."

"Siete forse il suo avvocato o il suo ministro plenipotenziario?"

"Nè l'uno nè l'altro. Non accette rei questo incarico presso di voi da nessuno..."

"Perché? Non sono una potenza degna di voi?"

"Che dite? Perché, se mai, vorrei adempierlo per conto mio personale, non per altri..."

"Galante!..."

"Non come voi meritereste. Bisognerebbe, per esempio, avere l'eloquenza del principe di Iraci."

Donna Gabriella fece una smorfia, e ricondusse il discorso su Blasco.

"E... e perché si è rifiutato di venire?"

"Mah!... pare che sia un segreto. Non ho osato penetrarlo, per quel riguardo che meritano i segreti, specialmente certi segreti..."

"Ah! dunque ha dei segreti il vostro amico? Come potete saperlo?"

"L'ho supposto. Non vi è uomo al mondo che non abbia qualche segreto da custodire. Si può ignorare quale sia con precisione il segreto, ma è così facile indovinare che se ne abbia qualcuno... Specialmente quando si tratta di giovani..."

"Ah! ecco!... Cosicchè quello del vostro amico... è uno di quei segreti di giovani, facili a indovinarsi..

"Avete colto nel segno..."

"Il che vuol dire che egli è... innamorato....

"Voi siete di una penetrazione meravigliosa..."

"Non ci vuol molto a leggere nelle vostre parole..."

"Davvero?" riprese Coriolano, fingendosi sorpreso. "Sarò stato così poco accorto? Non credo... A ogni modo, credo che sia proprio così; egli deve essere innamorato..."

"E questo amore gli ha impedito di venire, non è vero?"

"È inutile negarlo."

Donna Gabriella si morse le labbra: rapidamente nel suo cervello si formulò una serie di pensieri, di una logica rigorosa, che davano la spiegazione più accettabile di molti fatti, e le destarono in fondo all'anima le serpi della gelosia e del dispetto. Ecco dunque la ragione del contegno freddo e riservato di Blasco; ecco ciò che si nascondeva sotto la finzione di un sentimento di riguardo; ecco perché aveva abbandonato il palazzo! Tutti pretesti; egli amava un'altra donna, e lei, la duchessa della Motta, desiderata da tutti, era stata per lui nient'altro che un lieve capriccio, un giuoco. Quale umiliazione! E chi era cotesta incognita rivale? Era bella? Più bella di lei?

Sul suo volto passavano come onde! le commozioni prodotte dai vari pensieri; le sue piccole mascelle si stringevano talvolta col nervoso moto di collera di una giovane belva, e i suoi occhi scintillavano attraverso gl'improvvisi veli di lacrime, e il suo petto si sollevava gonfio di tempesta.

Coriolano sorrideva finemente sotto il naso.

Uno scroscio di applausi indicò che la cantata era finita: la grotta si empì di cicaleccio e del rumore degli sgabelli respinti e scostati; donna Gabriella si alzò e disse al principe di Iraci:

"Offritemi dunque il vostro braccio, e accompagnatemi."

"Con tutto il cuore, mia gentile regina..."

Passarono dinanzi a Coriolano, che s'inchinò rispettosamente, ma non senza ironia. Donna Gabriella non se ne accorse; aveva altro per il capo: se non l'avesse trattenuta un sentimento di orgoglio e la paura di lasciarsi scoprire, avrebbe cercato di appurare il nome di quella ignota rivale, della cui esistenza non dubitava e che lei odiava con tutto il cuore. Giacchè, per quanto cercasse di negarlo a se stessa, ella amava Blasco; lo amava con tutto l'ardore di un'anima inappagata, con tutta la collera di un affamato al quale si sottrae il pane. Credeva di indovinare, sotto le mezze parole di Coriolano, più che egli non avesse detto; correva più in là e riteneva per certo che Coriolano sapesse tutto e fosse il confidente o il complice di Blasco.

Nella tempesta che l'agitava, talvolta, dimenticandosi, s'abbandonava o si stringeva al braccio del principino il quale, credendo d'essere oggetto di dolci manifestazioni, andando in visibilio cominciò a mormorarle tenere frasi...

"Idolo mio, voi mi schiudete il paradiso!"

Donna Gabriella non l'udiva: tutti i suoi sensi convergevano in un punto; quando il principino si fece più insistente, domandandole perché non gli rispondesse, ella si riebbe e fu sul punto di dirgli: "Ma tacete, siete un seccatore".

Se non che in quel momento vide sopra di sè gli occhi di Coriolano della Floresta e allora, con un subitaneo cambiamento, riprese il suo dominio e con un'aria molle e civettuola, disse al principe, in modo che Coriolano potesse udirla: "Andiamo: accompagnatemi a casa, mio bel cavaliere."