Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte prima, capitolo 22

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Donna Gabriella era rientrata da un pezzo, e neanche lei dormiva. Sdraiata sul letto, col capo appoggiato alla palma della mano e il gomito sprofondato sui guanciali, guardava giù sul pavimento una spada e un foglio di carta gualcito.

Aveva gli occhi lucenti di lacrime e ardenti come per febbre; il suo volto esprimeva dolore, rabbia, dispetto, vergogna.

Appena uscita dal palazzo Trabia, nel trovarsi sola in carrozza con quel cavaliere che le era terribilmente antipatico, si era pentita della sua mossa. La carrozza le ridestava memorie dolci e dolorose, che le rendevano più odiosa la compagnia del principe di Iraci.

Nella sua vanità di conquistatore, il giovane gentiluomo suppose che ella subisse la dolce commozione dell'amore, e volle prenderle la mano, con tenera intimità; ma donna Gabriella si schermì con asprezza.

"Lasciatemi!... Che cosa avete creduto?"

Quelle parole lo stupirono e lo sconcertarono; guardò la duchessa arrossendo e balbettando.

"Come? Che vuol dire ciò, mio sospiro?"

"Siete noioso con le vostre frasi, se non sapete contenervi come si conviene con una dama, vi pregherò di lasciarmi sola..."

"Perdonatemi!... non credevo di offendervi... ma voi..."

"Io? Che cosa avete creduto?"

Il povero giovane non sapeva che pensare. Si era dunque ingannato? Non si era forse donna Gabriella appoggiata a lui con quell'abbandono così significante e così delizioso? Non aveva detto di accompagnarla? Non aveva per questo appunto abbandonato la festa? Non l'aveva per tutta la sera tenuto vicino a sè, ascoltando le sue parole, le sue espressioni più tenere? Che cosa significava dunque quel mutamento repentino, quella collera, quel disdegno?

La carrozza, per non fare la ripida salita della Guilla, era uscita per la strada di Montevergini nel Cassaro, e ora, svoltati i Quattro Canti, risaliva per la Strada Nuova, verso S. Agostino.

Il principe pensò: "Forse è un gesto di pudore o di ritrosia, bisogna essere audace". E raccolto il suo coraggio, steso un braccio intorno alla vita di donna Gabriella, prendendole con la mano libera una mano, trasse vigorosamente la dama contro il suo petto per baciarla.

La duchessa gettò un grido, e col volto in fiamme, levatasi a mezzo, ricacciò indietro l'audace, dicendo fra le lacrime di rabbia: "Villano!... siete un villano!"

Quel grido lanciato nella notte, fece voltare un uomo, che in quel punto passava dinanzi la chiesa dei Crociferi. Egli vide confusamente, attraverso i vetri, al lume delle torce dei due volanti che trottavano accanto ai cavalli, vide nel tempo stesso le livree, si diede un pugno sulla fronte, e raccolto il mantello intorno a un braccio, si lanciò dietro la carrozza, la raggiunse, vi gettò dentro uno sguardo, vide e riconobbe il principe di Iraci, che confuso, vergognoso, balbettava con le mani giunte dinanzi alla duchessa, che celava il volto fra le mani:

"Perdonatemi... perdonatemi... Ma se sapeste quanto vi amo!"

Nè il principe, nè la duchessa videro quell'uomo che con una mano sullo sportello correva accanto alla carrozza ficcando gli occhi attraverso i vetri. Del resto egli non vi rimase che un istante; lasciato lo sportello, balzò con un salto sull'asse di dietro dove nei giorni di gala si mettevano ritti in piedi i lacchè; vi sedette, tenendosi a uno dei cinghioni delle molle, con la spada sulle ginocchia e il mantello arrotolato sul braccio.

I pochi passanti guardavano con stupore e ridendo quel lacchè vestito da cavaliere e accoccolato sull'asse come un monello; e si domandavano se non si trattasse di uno scherzo o di qualche matto scappato da S. Giovanni dei Lebbrosi.

I due cavalli trottavano sul lastricato con pari cadenza, empiendo del fra gore dei loro ferri e delle quattro pesanti ruote il silenzio notturno.

Dentro la carrozza era ritornata la calma: il principe sconfitto, confuso, non aveva avuto lo spirito di confessare il proprio errore e di fare onorevole ammenda della sua sciocchezza con quei modi che ogni buon cavaliere dovrebbe saper trovare. S'era rincantucciato in un angolo della carrozza, muto, in collera con se stesso, dandosi dell'imbecille e attribuendo la sua sconfitta alla troppa fretta.

Donna Gabriella se ne stava anche lei nell'angolo opposto, sospettosa, guardinga, piena di sdegno e di pentimento; sdegno contro quel vanesio, che aveva creduto sul serio di averla conquistata; pentimento di essersi arrischiata con lui, dopo avere, per di spetto, fatto un giuoco pericoloso. E di tutto quello che le era avvenuto accusava Blasco, chiamandolo dentro di sè con tutti i nomi suggeriti dalla collera e dall'odio... e quella donna, quella rivale ignota alla quale era stata sacrificata, e per la quale lei, l'adorata, la desiderata, la tentata fino a quel momento stesso, era stata un capriccio, un giuoco di Blasco.

La carrozza aveva percorso la strada di S. Agostino, oltrepassato il crocicchio del Capo, e s'era fermata dinanzi al portone del palazzo Albamonte.

L'uomo saltò a terra, s'aggiustò rapidamente il mantello, e corse ad aprire lo sportello dicendo con leggera ironia: "Permettete, signor principe, che renda io questo piccolo servizio alla signora duchessa?"

"Voi!" gridò stupita la signora duchessa riconoscendolo.

"Il signor Castiglione!" esclamò contemporaneamente, con malfrenato dispetto, il principe.

Blasco s'inchinò con gesto canzonatorio.

"Io stesso, signori, sorpreso, in verità, della vostra sorpresa. Io stesso, che vi auguro la buona notte, e vi domando scusa della piccola libertà che mi sono permessa."

Donna Gabriella, riavutasi dal primo stupore, riprese il suo contegno sdegnoso e scesa dalla carrozza senza appoggiarsi al braccio di nessuno, infilò il portone, con un incesso da regina offesa.

Il principe ne fu esasperato: "Signore," gridò a Blasco, "quando la finirete di seccarmi?"

"Quando vorrete voi, mio bel moscardino; anche subito, se vi piace."

"Ebbene, sì. Una volta tanto, è necessario che io scenda fino a voi!" "Come? Siete dunque montato sopra una sedia, per giungere all'altezza d'un uomo?"

"Andiamo, signore."

Trasportato dalla sua collera, il principe di Iraci ordinò a uno dei volanti, che per deferenza stavano ancora lì con le torce accese, di precederlo a fare lume e si avviò verso la vicina piazzetta della Mercede, che offriva il comodo di potersi battere al largo.

Blasco lo seguì. La chiesa dei Mercedari era ancora chiusa, e la piazzetta solitaria. Con un gesto lo sciolse e gettò per terra il mantello, il principe di Iraci lo gettò invece sulle braccia del volante. Un istante dopo le lame scintillarono e si incrociarono stridendo.

Il principe era un forte schermitore non avendo altro da fare si esercitava ogni giorno, in casa, col primo maestro di scherma che fosse a Palermo e con le migliori lame della nobiltà; ma era troppo in collera per potere, combattere in sala, svolgere tutto il suo giuoco. La disfatta in amore, le mortificazioni ricevute, la meschina figura fatta al cospetto della duchessa, erano delle forti ragioni per togliergli il dominio di se stesso, e accendergli nell'animo la voglia matta di sfogare; l'apparizione di Blasco, contro il quale nutriva un odio profondo e irriconciliabile; aveva fatto traboccare il vaso. Attaccava con furore cieco, più bramoso di ammazzare l'avversario, che studioso di mostrare la sua superiorità.

Blasco invece serbava la sua calma; fin dalle prime mosse aveva capito di aver da fare con una lama maestra, ed egli non era rotto a tutte le astuzie della scherma: aveva però il pugno saldo, l'occhio sicuro e quella grande padronanza di sè, che gli faceva considerare tutti i pericoli, come dei giuochi. E, al solito, era diventato di buon umore e sarcastico.

"Voi vi strapazzate troppo, caro signore!" diceva schermendosi dalla furia del principe; "vi strapazzate troppo... e potreste buscarvi un raffreddore... Ciò che... Adagio, signorino bello, vi farete infilzare da voi stesso... e ciò non entra nel mio piano... dicevo dunque... che una costipazione potrebbe allarmare la vostra signora madre! E mi dispiacerebbe. Attento a voi... Badate, mi costringete a farvi un occhiello. E credetemi, non voglio sciuparvi... Siete un così bel campione del genere degli scimuniti, che sarebbe un peccato mandarvi all'inferno di Dante... Avete letto Dante?... Suppongo di no. Io sì, ho letto qualche cosa..." Il principe di Iraci era furibondo. Tenuto a distanza dalla spada di Blasco, che gli balenava sempre dinanzi agli occhi, non riuscendo a sviarla e a scoprire l'avversario per colpirlo esasperato da quelle parole che gli parevano altrettanti schiaffi, sbuffava, come un giovane gatto inferocito.

"E scommetto che non avete letto neppure il Tasso... Un cavaliere dovrebbe leggerlo... Vedete: i cavalieri del Tasso, quando si battono, non si dimenticano... Si battono come in una sala d'armi; voi invece vi arrabbiate troppo... soffrite di fegato? Brutta malattia!... Ho conosciuto un uomo che per essere ammalato di fegato, morì... d'una trave che gli cadde sul capo!... Dio ve ne scampi."

Il principe non ne potè più. Ah! era tempo di finirla. Egli diventava ridicolo agli occhi del volante che faceva lume e che evidentemente rideva. Raccolse tutte le sue forze e spiegò tutta la sua arte per ferire Blasco. La sua spada giunse a eludere l'arma avversaria e a farsi strada: se Blasco non fosse stato sollecito a saltare indietro, il principe lo avrebbe trapassato.

"Ah! ah!" disse Blasco senza perdere il buon umore: "Volete dunque ammazzarmi sul serio?... Oibò! un bello e bravo figliuolo come sono io?.. Aspettate... Vi insegnerò in tre tempi, un colpo maestro che mi insegnò un cavaliere di Malta... A Tunisi dove ero schiavo... Uno... Badate, mio bel figurino... Due... Adesso viene il bello... Là, là, tre!..."

Con una mossa rapida, imprevedibile, turbinosa, fortissima, avviluppò, strappò, fece saltare a cinque o sei passi la spada del principe, vi pose sopra un piede, e mutando improvvisamente tono, esclamò torbido e serio:

"Adesso, ragazzo mio, vattene!"

Raccolse la spada del principe e se la pose sotto il braccio; il principe era rimasto impietrito, con gli occhi sbarrati, senza coscienza; poi a un tratto, ritornato in sè, si diede un pugno sulla fronte, e scoppiando in lacrime di rabbia, di dolore, di vergogna se ne fuggì. Blasco lo seguì con gli occhi per un tratto e quando lo vide dileguarsi nell'ombra, mormorò:

"Povero diavolo!... Mi fa compassione...

Infine, si è battuto da bravo...".

Indi, rivoltosi al volante, gli ordinò: "Va' su a prendermi una penna, un calamaio e un pezzo di carta..."

Il volante corse. Sul portone l'altro volante aspettava; da lontano aveva udito il cozzare dei ferri e s'era spinto un po' a vedere anche lui; ora domandava al compagno qualche particolare.

"Ah! una cosa magnifica: ti racconterò."

Il volante ritornò poco dopo con quanto gli era stato chiesto. Blasco al lume della torcia scrisse il seguente biglietto:

Signora duchessa e padrona mia venerata,

"Mi fo ardito di mandare a V. S. la spada del signor principe di Iraci; perché si degni di restituirgliela, e avvertirlo che, quando si ha l'onore di accompagnare una dama di qualità come V. S., si ha l'obbligo di tenerla più saldamente in pugno. Le bacio umilmente e devotamente la bellissima mano e sono sempre ai piedi di V. S.

Blasco da Castiglione

Il suo servitore"

"Porta questa spada e questo biglietto alla signora duchessa" ordinò al volante; "e prendi questo per bere alla mia salute."

Gli gettò sulla mano uno scudo e se ne andò tranquillamente a casa, ma non andò a letto. Quell'avventura gli aveva tolto il sonno. Si fece portare una bottiglia di vino vecchio e si abbandonò ai suoi pensieri. Quanto tempo trascorse? Non contò le ore. Coriolano, rientrando dalla festa, si stupì di vedere luce nella camera di Blasco e andò a picchiare all'uscio per sapere se gli occorresse qualche cosa.

"Come?" gli disse entrando: "Siete ancora levato?"

"Toh! non è questa la notte di Natale?... Veglio anch'io. Vi siete divertito?"

"Un po'; e voi?"

"Moltissimo. Mi sono battuto."

"Voi? Con chi?"

"Col principe di Iraci, finalmente..."

"Col principe di Iraci?... Dite sul serio?"

"Non mi pare di scherzare..."

"E dove? Quando? Perché?"

"Perché? Per una cortesia... compresa; quando? due ore addietro, credo; dove? a pochi passi dal palazzo Albamonte."

"Ah!... Dunque voi!..."

"Non proseguite; immagino quel che volete dire: che io sono ancora innamorato; lo ero, amico mio, lo ero, adesso sono guarito pienamente, perfettamente guarito. E la prova è questa, che potendo infilzare quell'imbecille, mi sono contentato di disarmarlo, per gratitudine. Senza di lui sarei forse ancora innamorato: gli debbo la mia guarigione. Non avrei potuto dormire senza comunicarvi questa grande notizia. Ora mi sento come liberato da un gran peso."

Raccontò ogni cosa con semplicità" e senza vanteria, Coriolano lo ascoltò con interesse, poi disse:

"Amico mio, voi avete contratto un debito, che non vi sarà rimesso. Guardatevi."