Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte seconda, capitolo 2

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La Santa Maria, galea del regno, dopo un viaggio disastroso nello Jonio. lungo le coste calabresi e pugliesi, tornò a Messina nel pomeriggio della Domenica delle palme. I galeotti, dopo le pratiche dell'approdo e la visita sanitaria, furono fatti smontare e condotti nell'ergastolo, perché potessero assistere alle funzioni religiose della settimana santa, confessarsi e comunicarsi come di precetto. La Santa Maria del resto, avendo bisogno di riparazioni, era stata tirata in arsenale, e non avrebbe ripreso il mare tanto presto, cosicchè i galeotti avrebbero avuto un periodo relativamente lungo di riposo.

Andrea, che era arrivato a Messina da oltre una settimana, si mescolò ai curiosi per vedere sbarcare i galeotti e li guardava a uno a uno, come chi vuole riconoscere qualcuno. Era una folla lacera, sporca, arruffata, che a ogni passo faceva risonare sinistramente le catene; qualcuno andava col capo basso, torbido o triste: i più guardavano la folla con un sorriso sguaiato sulle labbra. Si affrettavano all'estremità della Palazzata verso l'antico palazzo reale nel cui pianterreno erano vaste e comode prigioni.

Andrea si domandava chi fosse tra quei galeotti quel famoso Giuseppico, alla ricerca del quale era stato mandato. L'aveva veduto poche volte nel. palazzo Albamonte, tutto raso, con la livrea dei duchi della Motta, quindici anni buoni innanzi: ora non vedeva che facce barbute e scarmigliate sotto casacche logore e di colore indefinibile, e non gli riusciva di riconoscere la fugace immagine che egli aveva conservato nella sua memoria. Il suo occhio si fermò sopra un galeotto alto, ossuto, dal profilo tagliente, le cui gote erano coperte da una barba ispida e foltissima. L'occhio bieco e sanguinoso di quel galeotto gli rimescolò il sangue.

Dubitò e volle accertarsi: "Giuseppico!" esclamò.

Il galeotto si voltò vivamente e guardò Andrea con stupore, aggrottando le sopracciglia in uno sforzo di riconcentrazione della memoria.

Andrea non ebbe più dubbio; gli si avvicinò, camminandogli accanto e gli domandò: "Non mi riconosci, Giuseppico?.."

Il galeotto voleva dire di no, ma qualche cosa glielo vietava; forse una lontana immagine cominciava a comparire nella sua memoria.

"Sono Andrea... Andrea, l'antico servo del duca della Motta..."

Giuseppico lo guardò meravigliato, e parve riconoscerlo: "Ah!... Andrea... E vero!.."

"Povero Giuseppico, come ti rivedo!..." continuò Andrea commiserandolo: "se tu sapessi quanto me ne duole!"

"A te?" domandò il galeotto incredulo.

"Certo. Non siamo forse cristiani? Allora fu un'altra cosa; tu eri al servizio di don Raimondo, io ne ero stato cacciato, ma ora anche tu sei in disgrazia e le disgrazie affratellano. Io non penso più al passato... Se ti occorre qualche cosa, di' liberamente..."

Giuseppico non rispondeva; quell'incontro inaspettato lo aveva sospinto quindici anni indietro, e gli aveva rapidamente rievocato il tempo vissuto. Non gli pareva verosimile che Andrea gli stendesse una mano amica e stava sospettoso e guardingo, temendo una insidia; e per tutto il tragitto fino al palazzo reale rispose con dei grugniti o dei gesti alle parole di Andrea.

Prima di separarsi, Andrea gli disse: "Verrò a trovarti; ma se puoi farti vedere da una di queste finestre, sarà bene; potremo parlarci meglio. Io verrò stasera a ventitrè ore, a passeggiare di qua... Intanto, prendi, potrà servirti."

Pose in mano al galeotto uno scudo d'argento e se ne andò. Finalmente aveva trovato l'assassino di Maddalena e lo strumento dei delitti di don Raimondo: ma come trarlo dal carcere? Anzi, come trarlo dalla sua? Fuggire dal carcere non era poi una cosa molto difficile in quei tempi, se non si era chiusi in qualche torre o nelle segrete di qualche castello. Le prigioni del palazzo reale avevano finestre non molto alte dal suolo, che davano sulla marina e sulla facciata che guardava il piano, dove sorgeva già il sobborgo di Terranova. Vi erano delle guardie, ma esse non impedivano che i carcerati potessero discorrere coi parenti e con gli amici che venivano dalla strada, perché allora non era così rigorosa la segregazione, e in carcere si poteva fare il proprio comodo, non essendovi altra restrizione che quella di non oltrepassare la porta dei corridoi. Soltanto i rei di stato e in materia di fede erano chiusi in celle e separati dagli altri.

Quando i galeotti furono chiusi nelle stanze della prigione e vennero tolte loro le catene, Giuseppico si affacciò alla finestra, più per curiosità che perché sperasse qualche cosa da Andrea e si meravigliò quando lo vide venire e fermarsi lì sotto. Scambiarono poche parole. Andrea gli promise che la dimane gli avrebbe mandato un buon desinare e del buon vino, e lo lasciò un po' sconcertato e titubante.

Così durò per due o tre giorni. Andrea aveva notato la diffidenza del galeotto e sentiva che era necessario prima di tutto vincerla e guadagnarsi la fiducia. E per quei giorni non gli parlò di nulla. Egli dalla strada, Giuseppico aggrappato ai ferri della finestra, discorrevano di mille cose frivole e diverse tra le quali Andrea trovava il modo di insinuare qualche accenno alla ingratitudine di don Raimondo, che avrebbe dovuto trovarsi lui in quel posto. Le quali allusioni accendevano lampi di odio negli occhi di Giuseppico e sospiri di collera.

Un giorno, con uno scudo regalato a un custode, Andrea ottenne di parlare con Giuseppico in una stanza del carcere, dicendosi suo parente.

Quando furono insieme, Andrea gli disse rapidamente a bassa voce: "Vi porto due cose, scegliete voi: una è questa: Volete essere denunziato per il tentato avvelenamento della duchessa e per l'assassinio di Maddalena? L'altra è questa: Volete riacquistare la libertà, una somma di denaro e l'imbarco in un bastimento che va in Sardegna? Scegliete."

Giuseppico rise sguaiatamente, e disse: "Che proposte! C'è forse da dubitare sulla scelta? La seconda, scelgo la seconda, per sant'Efisio!.."

"Sta bene, ma c'è una condizione.."

"Eh?... Una condizione? Come sarebbe?"

"Una cosa da nulla. Mi ubbidirete ciecamente, e verrete con me a testimoniare dinanzi a una persona i delitti del duca..."

"Nespole! La chiamate una cosa da nulla? Significa mettermi nelle mani della giustizia..."

"No: significa la libertà, la ricchezza e la vendetta. Nessuno saprà cotesta testimonianza; voi sarete condotto col più grande mistero, in tutta segretezza, e appena resa la vostra testimonianza sarete accompagnato a bordo e posto al sicuro. Rifletteteci..."

"No, no... Non accetto..."

"E allora vuol dire che andrò a denunziarvi al capitano governatore."

Giuseppico alzò le spalle.

"Bisognerebbe provare..."

"E la cosa più facile. Peppa la Sarda non è morta; è viva, vivissima e si trova in casa mia."

Giuseppico impallidì.

"Vi lascio. Rifletteteci bene. Io non sono venuto da me, ma per parte di persone potentissime. Domani mi darete la risposta."

Andrea se ne andò, lasciando il galeotto in un mare di pensieri.

La sera dopo, dalla strada, domandò a Giuseppico: "Sì o no?"

Giuseppico rispose: "Sì, e che il diavolo vi porti..."

"Sta bene. Dopodomani andrete tutti alla cittadella, per lavorare ai fossati. Ci sarò anch'io. Statemi attento e secondatemi."

La stessa sera, con una feluca - che partiva alla volta di Palermo, Andrea spedì una lettera a Zi' Rosario, per avvertirlo.

Giuseppico aspettò con impazienza il giorno di lavoro ai fossati della cittadella di recente costruita sul braccio di S. Raineri: l'idea di evadere, di avere del denaro, di ritornare nell'isola nativa, e nel tempo stesso di vendicarsi, senza correre rischio, del duca che l'aveva abbandonato, lo eccitava. Vero è che di tanto in tanto l'assaliva un dubbio: Se Andrea l'avesse ingannato? Se quella era una trama per farlo cadere? Ma si domandava poi: "A che pro? Se volessero perdermi non dovrebbero che denunziarmi per quei tali fatti... E se Andrea era un emissario del duca? Bah! Il duca non avrebbe lasciato trascorrere quindici anni per disfarsi di lui, e fare ammazzare uno in galera era la cosa più facile di questo mondo: i galeotti avevano sempre delle armi addosso, nonostante la sorveglianza, e per tre tarì erano disposti a scannare il loro padre".

Così, costruendo ipotesi e sospetti e distruggendoli per ricostruirne altri, Giuseppico passò quei due giorni. Egli fu il primo e il più ilare a saltare nella barca, che doveva trasportarli al braccio di S. Raineri e per tutto il tragitto andò guardando attorno, spiando tutte le barche, interrogando con gli occhi tutte le persone che incontrava. Andrea non si vedeva.

Giuseppico cominciò a lavorare di malumore, temendo qualche contrattempo. A mezzodì un venditore di melarance venne con due ceste in mezzo ai galeotti, che gli si affollarono intorno. Giuseppico gli si avvicinò, ma non appena li guardò, trasalì di gioia, riconoscendo Andrea. Un'occhiata del quale gli impose prudenza.

"Procurate di venire tra la scogliera. Vi ho nascosto quello che ci occorre" gli disse rapidamente e sottovoce appena ne ebbe il destro.

"Va bene."

Andrea trascorse la ciurma e vuotò le due ceste; a poco a poco s'era ridotto sul lato orientale del braccio di S. Raineri, difeso da scogliere artificiali, contro le quali si infrangevano le acque dello Stretto. Le scogliere formavano delle insenature, delle cavità, in cui era facile nascondersi. Egli vi si calò, come se avesse avuto bisogno di appostarsi: nessuno lo guardava, giacchè i galeotti avevano ripreso il lavoro; soltanto gli occhi di Giuseppico lo seguivano col più vivo interesse. Egli capì che bisognava raggiungere Andrea in quel punto. Senza parere, seguendo il lavoro, a poco a poco si avvicinò anch'egli tra gli scogli chinandosi per non far notare la sua alta persona, guardando intorno con la coda dell'occhio, con la furberia di un gatto. Poi, quasi strisciando, si lasciò cadere anche lui tra gli scogli, vi si nascose, e aspettò un minuto per vedere se qualcuno si era accorto della sua manovra.

Andrea lo chiamò a bassa voce: "Su!... non c'è tempo da perdere. Vieni qui: non ci vedrà nessuno."

Difatti tre o quattro enormi massi formavano ivi un'ampia stanza, aperta da un solo lato e del tutto celata alla cittadella e alla ciurma. Giuseppico vi si recò.

"Lasciami fare" gli disse Andrea, e con un paio di forbici gli tagliò la barba lunga e ispida, in pochi colpi, quasi a fior di pelle.

Bastò quella lieve correzione perché il. suo aspetto mutasse.

"Butta via quella casacca e indossa quest'altra. Ma svelto."

Giuseppico non se lo fece ripetere due volte; senza quella barba, con quelle vesti diverse, difficilmente si poteva riconoscere in lui il galeotto di un quarto d'ora addietro. Andrea lo condusse tra i meati che gli enormi massi lasciavano fra loro, oltre la linea della scogliera, dove, dondolava un caicco, legato a un sasso da una corda.

Lo liberarono, vi saltarono dentro, impugnarono i remi, e via, velocemente.

Nessuno si accorse di loro; in quell'ora lo Stretto era percorso da barche di ogni specie, grandi e piccole, e il caicco non poteva destare l'attenzione di nessuno. Essi remarono verso sud, con l'intenzione di sottrarsi alla vista della cittadella e delle fortificazioni che guardavano il mare. Andrea aveva tutto preveduto e calcolato. Non sarebbero sbarcati che sulla spiaggia fra Contesse e Tremestieri, abbandonando il caicco a se stesso e si sarebbero cacciati presto fra le gole dei monti che formano il gruppo di Antennammare, dove, anche volendo, sarebbe stato difficilissimo ricercarli.

E tutto seguì a puntino. Andrea aveva nascosto in fondo alla barchetta un po' di vitto, un paio di pistole per sè, la sua spada, una lima, dei mantelli e dei grossi stivali. Cinse la spada, infilò le pistole alla cintura e, prima di sbarcare, segò con la lima gli anelli di ferro al malleolo e la cintura che servivano per incatenare Giuseppico al banco di galera. Buttò quella roba rivelatrice in fondo al mare. Giuseppico si sentiva felice e per la prima volta, forse, provò un sentimento di riconoscenza verso il suo liberatore.

Presero la via dei monti, sfuggendo i piccoli villaggi e i casali disseminati su quelle coste ridenti di vegetazione e non si fermarono che a notte, in una casa campestre presso Rometta.

A piccole tappe, percorso il distretto di Messina, giunsero a Milazzo dove Andrea acquistò due cavalli. Durante il viaggio, egli insinuava nel cuore di Giuseppico le più rosee speranze, facendogli capire che, ubbidendo e offrendo la sua testimonianza minuta di quanto era accaduto nel palazzo Albamonte, egli si guadagnava la protezione di personaggi altissimi che lo avrebbero salvato da ogni persecuzione, non solo dei privati, ma della stessa giustizia.

"Immaginate di servire lo Stato. E dico lo Stato, perché si tratta in fondo di una cosa che riguarda lo Stato."

E con questi discorsi, e stuzzicandolo, gli andava strappando dalla bocca dei particolari ignoti che Andrea registrava nel suo cervello, sicchè ora nessun dettaglio del dramma svoltosi nell'inverno del 1698 gli era ignoto o mal conosciuto.

Dopo due giorni arrivarono alla Milicia, allora piccolo casale di poche centinaia di anime, intorno a una chiesa e a un fondaco. Era già oltre l'Avemaria e per non arrivare di notte a Palermo (ancora c'era da percorrere quattordici miglia) conveniva fermarsi. Andrea riteneva fosse utile spedire un corriere a Zi' Rosario per avvertirlo e aspettare istruzioni. Non era difficile trovarne uno. Quel fondaco era frequentato da "canceddi" o vetturali che portavano frumento, vini, olii, formaggi nella capitale del regno e qualcuno si sarebbe certamente offerto, dietro un piccolo compenso. Inoltre aveva acquistato da poco tempo una grande rinomanza l'immagine della Madonna di Loreto, cui era dedicata la chiesa della Milicia, e per i miracoli che essa faceva, era meta di più pellegrinaggi votivi; onde si era sicuri di trovare nel fondaco qualche comitiva di devoti. E infatti ce n'erano. Una famiglia di borghigiani, una specie di bravaccio, e uno di quei mezzi preti che vestivano l'abito corto e portavano il collare degli ecclesiastici e comunemente erano chiamati col nome di "abati", produzione propria del Settecento.

Quando Andrea e Giuseppico giunsero al fondaco, l'abate faceva ridere quei borghigiani, raccontando delle barzellette. Essi parteciparono all'allegria, mentre in un banco lì presso acquetavano la fame con pane e ricotta fresca, innaffiati con un vinetto color d'ambra; e bastò che ridessero, perché l'allegro abate si rivolgesse anche a loro e li attirasse nella comitiva.

Le parole tiravano parole e così, da mezze frasi, da brevi accenni, Andrea potè indovinare che quei borghigiani sarebbero ritornati a Termini e che l'abate invece andava a Palermo.

"Bene! - pensò - ecco il mio corriere".

"E voi andate a Palermo, non è vero? Domattina? Faremo la strada insieme..."

"Ah no" rispose Andrea. "Noi dobbiamo fermarci qui domani, per compiere il nostro voto; partiremo doman l'altro. Ma vossignoria potrebbe farmi un favore, se non le spiace..."

"Dite pure..."

"Avevo promesso a un mio compare che l'avrei avvertito del mio arrivo... Se vossignoria vuol darsi questa pena... È facile trovarlo..."

"Ah, ditemi chi è e dove sta, e fate conto che prima di mezzogiorno sarà avvisato."

"Grazie, signor abate. Sa la parrocchia di S. Margherita alla Conceria?..."

"So, so..."

"Un po' più su... c'è la taverna del "Masticoso", Zi' Rosario il Masticoso... lo conoscono tutti..."

Gli occhi dell'abate scintillarono.

"Zi' Rosario il Masticoso... Ho inteso."

"Bene. Vossignoria gli dirà: "Vostro compare Andrea arriverà domani a punta di giorno col cugino"."

"Domani, a punta di giorno. Ho inteso. Non dubitate, che sarete servito..."

Andrea se ne andò a dormire soddisfatto, il padre abate finse di fare altrettanto; se non che egli dormì da un occhio; con l'altro vegliava sul fondaco, e aspettava. Quando fu sicuro che tutti dormivano profondamente, russando alto e basso, si alzò, senza fare rumore, discese a piedi nudi pian piano giù nella stalla dove dormiva il bravaccio e avvicinatosi lo scosse dolcemente per un braccio. Quello balzò sorpreso e stava per gridare, ma l'abate gli mise una mano sulla bocca, sussurrandogli: "Zitto: sono io!.."

La stalla era rimasta illuminata da due lampioncini a olio, che appena diradavano le tenebre; ma il bravaccio riconobbe la voce e si alzò subitamente, dicendo: "Che c'è?!"

"Zitto, vieni qui fuori, e ti dirò."

L'altro non aspettò che l'ordine fosse ripetuto, aprì cautamente la porta della stalla e uscì con l'abate. Un cavallo nitrì lievemente.

"Maledetta bestia!" mormorò l'abate.

Fuori era una luna magnifica; tutte le campagne ne erano inondate; il capo Zafferano si distingueva nettamente sul mare scintillante. L'abate sussurrò poche parole alle quali il bravaccio rispose assentendo, con un riso sguaiato: indi l'abate risalì, a piedi nudi, su nella stanzaccia dove tutti dormivano ancora. Il bravaccio, rientrato nella stalla, slegò un cavallo, raccolse la sella e la testiera, se lo trasse fuori, lontano dal fondaco, e, sellatolo, vi montò e partì di buon trotto alla volta di Palermo. L'abate tese l'orecchio quando non udì più alcun rumore s'addormentò anche lui, come uomo soddisfatto di sè. All'alba si svegliò, si alzò e scese giù nella stalla. Il fondacaio v'era già e guardava con occhio stupito i cavalli e le mule che tuffavano il muso nelle greppie.

"Ce ne manca uno" diceva; "come mai manca?"

"Qualcuno che sarà partito" disse l'abate: "non ci vuol molto a indovinare."

"Lo so, ma è appunto questo che non mi persuade! Partire a mia insaputa... prima che io apra il fondaco... Deve essere quella faccia di malo Cristiano che non parlava mai!..."

"È facile verificare."

Il fondacaio salì su nella stanza e ritornò poco dopo bestemmiando.

"Lo dicevo io! il brigante."

L'abate si strinse nelle spalle: "Cose che capitano in questo mondo senza timore di Dio! ... Mi dispiace per voi e anche per me..."

"E che c'entra vossignoria? Il danno lo ha fatto a me; tra crusca e paglia per il cavallo, stallaggio e vitto sono quasi due tarì! Capisce? Ladro! bandito!..."

"E voi avete ragione... Ma io contavo di farmi accompagnare da lui; le strade sono così poco sicure... e poi stamattina sto tanto poco bene, che non mi avventurerei a un viaggio a cavallo, solo... Se trovassi una lettiga!"

L'abate sedette dinanzi alla porta del fondaco mostrando in volto una grande sofferenza. A poco a poco si destavano tutti, scendevano sulla strada a respirare l'aria mattutina.

Andrea domandò all'abate: "E vossignoria non è ancora partito?..."

"A momenti... Ho un certo malore, che... Se trovassi una lettiga!..."

"Sarà meglio aspettare un po'" disse uno; "non è difficile che ne passi qualcuna, venendo da Termini..."

Andrea ne fu scontento, ma si rassegnò. L'abate si premeva ogni tanto il ventre, mormorando un ohi! e intanto lanciava in fondo alla strada sguardi investigatori, borbottando fra sè delle parole incomprensibili. Andrea lo guardava con dispetto e corruccio; quell'improvviso malore guastava il suo disegno; si domandava se non era il caso di partire, senza aspettare istruzioni, conducendo Giuseppico con sè. Ed era sul punto di mettere in atto il suo proposito, quando uno scalpitio di cavalli attirò l'attenzione di tutti e fece balzare in piedi con vivacità l'abate, il cui volto prese una espressione di gioia feroce.

Erano otto militi delle compagnie rurali, che venivano dal fondo dello stradale, di trotto, con le carabine sulla coscia.

Giuseppico impallidì; per un moto istintivo si tirò indietro, dentro il fondaco.

"I birri!"

Andrea vide l'abate stropicciarsi le mani e sogghignare con un riso breve e secco. Aggrottò le sopracciglia, non spiegandosi la ragione di quel riso e di quella gioia, ma a un tratto, vide i primi due militi a pochi passi dal fondaco, fermare i cavalli e spianare le carabine contro di lui gridando:

"Arrenditi! Arrenditi!"

Accadde un momento di confusione indicibile; le tre o quattro persone che stavano lì sulla porta si precipitarono dentro il fondaco urlando, intanto che l'abate si slanciava contro Andrea, con le mani tese. Fu un attimo e nell'attimo una rivelazione e una risoluzione. Andrea fu pronto a gettarsi dentro, a chiudere la porta e a sprangarla con la grossa sbarra di legno. Poi salì su nella stanza con Giuseppico, e andò a spalancare le finestre per vedere se c'era via di scampo. Giù i militi smontati da cavallo, si erano appostati per impedire la fuga, mentre il caporale, l'abate e i due militi tempestavano la porta, gridando:

"Aprite! Aprite! ..."

Ma Andrea aveva con la pistola minacciato chiunque avesse osato togliere la sbarra e nessuno si moveva. Dalle finestre che davano sullo stradale non era possibile la fuga, perché c'erano i militi; dalla parte opposta un terrazzino dava sul pendio della collina, su cui sorge Milicia. Il fondaco era costruito sul ciglio della collina, che in quel punto era quasi tagliata a picco e si inabissava sotto per un'altezza di trenta canne e più, coperta di folti cespugli, fino alle falde, che cedevano poi alle sabbie della prossima spiaggia. Questa condizione topografica impediva che il fondaco potesse essere circondato anche di dietro: la via era dunque libera da quella parte, ma, salvo ad avere le ali, non era possibile fuggire senza rompersi il collo. E tuttavia la salvezza era di là.

Andrea misurò l'altezza che gli diede le vertigini.

Dei passi intanto risonarono giù nella stanza ed essi sarebbero stati presi in gabbia. Guardò Giuseppico: il galeotto digrinava i denti. I passi rimbombarono sulla scaletta di legno; un colpo fece traballare la porta. Andrea corse al balcone trascinandosi Giuseppico.

"Coraggio! lasciamoci cadere di qui; i cespugli ci proteggeranno."

Ma Giuseppico indietreggiò inorridito.

"No, no...." e, voltatosi, visto uno sgabello, lo brandì.

La porta a un nuovo colpo si spalancò; i militi si slanciarono con le carabine spianate: Andrea scavalcò la ringhiera, vi si penzolò, si lasciò cadere nel vuoto, mentre l'abate urlava:

"Fuoco!"

Quattro colpi empirono la stanza di fiamme e di fracasso. Giuseppico che era rinculato in un angolo, presso il terrazzino, cadde supino con le braccia spalancate. I militi corsero al terrazzino, guardarono stupefatti giù nell'abisso, videro un tramestio tra i cespugli, tirarono alcune fucilate.

L'abate che si era chinato su Giuseppico, che rantolava immerso nel sangue, lo guardava attentamente.

"Questo è bello e andato. Mi dispiace: c'era forse da cavarne qualche confidenza gustosa. Ma il signor duca sarà più contento: "o vivo o morto".

Morto, non potrà più aprir bocca! certo! Ma quell'altro... Deve essersi rotto le gambe, se non il collo."

Fuori s'era adunata una gran folla di villani che invadeva il fondaco, curiosa, stupita, domandando, commentando; qualcuno si era perfino avanzato fino alla stanza per vedere il morto. Tutto il villaggio era sossopra. L'abate, che aveva assunto modi imperiosi e rudi, incuteva soggezione, parendo un personaggio misterioso e tutti si scostavano per lasciarlo passare.

Egli spediva ora dei militi tra i cespugli, non dubitando che Andrea vi si trovasse morto o gravemente ferito.

Le ricerche riuscirono vane: in un punto sotto il terrazzino, si vedevano rami spezzati, e come un vuoto, una buca tra le fronde; ma nulla più. La cosa destava stupore, pareva veramente straordinaria.

"Quell'uomo deve avere un diavolo in corpo!" dicevano i militi.

L'abate li ingiuriò. Erano degli imbecilli: con dei militi di quel conio si capiva bene che le campagne fossero infestate di malandrini: ali non ne aveva Andrea, e anche se il folto dei cespugli avesse attutito la caduta, l'altezza era tale, che almeno avrebbe dovuto produrre uno stordimento. Essi non avevano saputo cercare. Andrea doveva trovarsi lì, fra le macchie: sarebbe andato lui a frugare. Seguito dai militi e da una torma di villani, discese alle falde della collina.

Tutta quella gente si sparse fra i cespugli e i sassi, come una muta di cani, frugando da per tutto, spinta più che dall'interesse, dalla curiosità destata da quel fatto inverosimile. Per oltre un'ora tutte le macchie, i buchi, i cespugli, furono ricercati, sondati, rovistati, ma invano. Si trovarono qua e là, dove il terreno era molle, delle piste, poi esse si perdevano nel terreno che diventava ghiaioso, verso il torrente che porta lo stesso nome del villaggio.

Andrea dunque era rimasto vivo ed era fuggito di là; questo rasentava il miracolo.

Ritornarono su. L'abate fece prendere il cadavere di Giuseppico, lo fece caricare addosso a una mula, e coi militi, tra l'accalcarsi dei villani, riprese la via per Palermo, dove giunse poco prima dell'Avemaria.

Quel triste corteo, con quel cadavere di traverso sulla mula, i militi, l'abate, si traeva dietro i monelli e i curiosi che incontrava per la strada. Volevano sapere chi fosse quel morto; ma nessuno lo sapeva: si supponeva che dovesse essere qualche temuto bandito, e i nomi dei più famosi grassatori di campagna volavano fra le congetture.

L'abate fece deporre il cadavere nella chiesa di S. Antoniello, detto volgarmente lo Sicco, dov'era un piccolo cimitero dei giustiziati; licenziò i militi, dicendo che avrebbe pensato lui a riferire ogni cosa al capitano giustiziere, e si affrettò a recarsi al palazzo Albamonte, dove domandò del duca.

Don Raimondo sbirciò quell'abate pieno di polvere, senza riconoscerlo subito; ma quando quegli aprì bocca, non potè trattenersi dal sorridere, ed esclamò:

"Toh! siete dunque voi?... Non vi avevo riconosciuto... Ebbene?" "Ebbene, Giuseppico... fu!..."

"Come?"

"Se vostra Eccellenza vuol degnarsi di venire al cimitero di S. Antoniello lo Sicco, prima che lo sotterrino, potrà riconoscerlo."

"Raccontatemi dunque..."

E Matteo Lo Vecchio, che altri non era che l'abate, gli raccontò come la fortuna lo avesse assistito e gli avesse reso meno difficile il compimento del suo assunto: dolendosi che quel demonio di Andrea gli fosse sfuggito.

"Ma intanto" disse poi alla fine "sappiamo chi è questo Zi' Rosario. Vostra Eccellenza dovrebbe farmi avere un ordine per arrestarlo questa sera stessa e arrestare anche il sagrestano. Adesso bisogna agire con energia."

"E non avete voi carta bianca? Servitevene."

"Ha ragione: non ci ho riflettuto. E allora lasci fare a me. Spero che sarà contento..."

Per tutta risposta don Raimondo prese due rotoli di scudi e li diede al birro.

"È un piccolo acconto" disse "e ora andate, e aspettatemi a S. Antoniello."

La sera stessa, mentre squadre di birri erano sguinzagliate per vari punti della città, don Raimondo raccontava al re di avere scoperto e posto le mani addosso ai capi della formidabile setta che incuteva tanto terrore, e di avere liberato il regno da una continua e terribile calamità. Tacque naturalmente, e si capisce, che egli più che alla salvezza del regno provvedeva alla sua sicurezza.