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Don Girolamo Ammirata abitava nel quartiere del Capo, sulla piazzetta di S. Cosmo, una casetta modesta, come la sua condizione. La casa aveva due piani e vi si saliva per una scaletta di legno, coperta di lastre di ardesia. Don Girolamo abitava al primo piano; al secondo era andato ad abitare il pittore Bongiovanni: questa vicinanza aveva stabilito fra le due famiglie una buona amicizia, e non passava giorno che non si vedessero. Il Bongiovanni, vedovo, aveva trovato nella moglie dell'Ammirata, la signora Francesca, una parente affettuosa che insegnava a Pellegra quelle antiche e quasi perdute virtù casalinghe delle donne di una volta, che sapevano consacrarsi alle cure della casa, con ammirabile abnegazione, ed erano il conforto e il centro della famiglia. Pellegra, per confessare il vero, non pareva approfittasse molto degli insegnamenti della signora Francesca perché - diceva questa - il pittore l'aveva fuorviata coi libri. Che bisogno aveva una donna di fare sonetti e leggere libri latini come un padre gesuita? Queste le erano cose da uomini: a una ragazza bastava saper leggere il libro di divozione e fare la propria firma; così erano educate tutte le ragazze del ceto medio che sapevano poi tagliare, cucire, cucinare, stirar d'amido, ricamare fare trine, erano insomma brave nel governo della casa. Pellegra amava i libri e ne aveva uno che leggeva sempre, ed era, ciò che più scandalizzava la buona signora, un libro di poesie che parlavano d'amore! Ma già, don Vincenzo Bongiovanni giudizio non ne aveva mai avuto; e meno male che Pellegra, in fondo, era una buona ragazza.
Tra uno sfogo e l'altro di questo genere, che Pellegra ascoltava sempre con un sorriso, la signora Francesca insegnava alla fanciulla quel che poteva. La vicinanza, quest'ufficio materno e la libertà che il pittore, in principio della sua malattia mentale, lasciava alla figlia, avevano vieppiù stretto quella dolce simpatia di cui s'erano sentiti prendere Pellegra ed Emanuele nello studio del pittore, la prima volta che si erano veduti.
Non si erano incontrati prima di allora, perché don Girolamo Ammirata aveva tenuto Emanuele, come orfano, nel collegio dei Turchini, - come era no detti dal colore dell'abito, i collegiali, e si era finalmente risoluto a ritirarlo, oltre che per lo sviluppo del ragazzo, che a quattordici anni pareva un uomo, anche per le vive premure della signora Francesca, che, non avendo figli, sentiva tutto il peso della sua solitudine. Nulla vi era di più tranquillo e di più commovente delle serate che si trascorrevano in quella casa semplice e quasi patriarcale. Don Girolamo faceva la sua partita a carte col pittore e con qualche amico, quando capitava; la signora Francesca lavorava una tovaglia di altare, che voleva offrire in dono all'Immacolata, e raccontava una delle tante storie meravigliose, che formavano il suo patrimonio intellettuale, che Emanuele e Pellegra ascoltavano con un certo rapimento, dandosi di soppiatto qualche dolce stretta di mano, e sorridendosi. Le due lucerne di ottone, a due becchi, diffondevano su quei gruppi una luce rosea e blanda, nella quale i contorni illanguidivano, e le cose si confondevano.
Le stesse risate brevi e frequenti di don Vincenzo Bongiovanni, la sua fatuità loquace non turbava l'armonia di quella casa, nella quale pareva che i mobili stessi e il colore delle pareti fossero stati scelti a somiglianza delle persone.
Le pareti avevano tinte tenui: o un celeste chiaro di pervinca, o un verde tenero di pisello: i mobili erano semplici, delle sedie impagliate, un comò a petto d'oca, dei quadri dipinti grossolanamente su vetro e chiusi in cornici di legno scuro, un tavolino. La tranquillità della casa era stata turbata una volta dall'arresto di don Girolamo Ammirata, provocato dal duca della Motta, ma pochi giorni dopo, ritornato don Girolamo in famiglia, la vita vi aveva ripreso il suo corso monotono, uguale, sereno.
La stessa sera in cui Matteo Lo Vecchio giungeva a Palermo col cadavere di Giuseppico, don Girolamo Ammirata e don Vincenzo Bongiovanni facevano la loro partita, mentre la signora Francesca lavorava alla sua tovaglia, e i due ragazzi leggevano, o meglio Pellegra leggeva ed Emanuele ascoltava, gravemente pensieroso. Nella mattina, a tavola, egli aveva detto che la sua intenzione sarebbe stata di sposare Pellegra. E l'aveva detto seriamente come una cosa pensata da lungo tempo; e tuttavia don Girolamo s'era messo a ridere rumorosamente, contro il suo solito.
"Tu?... sposo di... Ma è una cosa buffa!"
Emanuele, arrossendo sconcertato, aveva balbettato:
"Perché? Che cosa ci sarebbe di male?"
"Nulla... ma sono cose che fanno ridere;" aveva risposto don Girolamo, e, facendosi serio, aveva aggiunto: "aspetta almeno di diventare uomo per parlare di codeste cose."
Quel breve dialogo aveva però rivelato a don Girolamo e alla signora Francesca di quale natura fossero i sentimenti che già si manifestavano nel cuore di Emanuele e li aveva avvertiti che bisognava d'ora in poi aprire bene gli occhi. Fino allora avevano considerato Emanuele come un fanciullo incapace ancora di certi sentimenti; ora ad un tratto, il fanciullo manifestava appetiti da uomo; e parve che ora, per la prima volta, si accorgessero dello sviluppo fisico del fanciullo.
Ecco perché quella sera Emanuele era più grave e pensieroso, mentre don Girolamo sembrava dì umore più giocondo e punzecchiava il loquace pittore, che rideva e si dimenava come un fanciullo.
La sera trascorreva così, quando giù dalla strada s'intese un fischio, simile al verso di un merlo, ripetuto tre volte in tono diverso. Don Girolamo aggrottò le sopracciglia e non lasciò trapelare nessuna impressione: ma appena chiuse la partita, gettò le carte e si alzò.
"Adesso basta," disse: "vado a fare un giretto per sgranchire le gambe."
"Vengo anch'io con voi?" domandò il pittore.
"No, restate a tenere compagnia alle donne, voi. Sapete che mi piace andare solo..."
Non era un fatto nuovo e non sorprese nessuno; molto spesso don Girolamo sospendeva la partita e usciva, respingendo la compagnia che invariabilmente gli offriva il Bongiovanni. Prese la spada, il cappello e il mantello e uscì. Giù all'angolo della strada lo aspettava un uomo.
"Voi! Siete già di ritorno?" esclamò a voce bassa il razionale, riconoscendo Andrea.
"Io proprio... che non mi reggo!..."
"Ebbene?..."
"Andiamo via; mettiamoci al sicuro prima di tutto, perché sono certo di avere qualcuno alle calcagna... Ci deve essere una spia, un traditore!..."
Don Girolamo lo guardò stupefatto.
"Una spia?... Un traditore?... Che significa ciò?"
"Significa che siamo stati scoperti, che qualcuno ci ha teso un tranello sulla strada, che io sono scampato per miracolo..."
"E Giuseppico?"
"Non ne so nulla: o preso o morto. Io mi sono buttato da un'altezza di quindici canne..."
Cacciandosi per i vicoletti bui e tortuosi, Andrea raccontò rapidamente quello che gli era occorso al fondaco della Milicia col falso abate.
"Bisogna avvertire subito Zi' Rosario!" disse don Girolamo. E si avvicinò a un giovane che, apparentemente, dormiva ravvolto in un cuccio, dietro il vano di una porta.
"Amico" gli disse toccandogli la fronte "che c'è 'nto portu?"
"Ceci tostati."
"E dove siete nato?"
"Alla Cuncuma."
"Sta bene. Corri alla cuba del "Masticoso" e digli che l'aspetta il guardiano."
Il giovane fece per partire, ma fatti pochi passi si fermò e si unì con un altro giovane che gli veniva frettolosamente incontro e col quale scambiò qualche rapida parola. Tutti e due tornarono e raggiunsero don Girolamo che con Andrea si avviava verso la chiesa di Santa Maria. Al loro aspetto, il razionale capì che qualche grave cosa era avvenuta.
"I preti selvaggi attapaccarono il "Masticoso"."
Don Girolamo mandò un grido di stupore, di dolore e di collera.
"Qualcuno s'è dovuto mangiare la zucca..."
Andrea era piombato in un cupo dolore; capiva che tutto questo era effetto della sua imprudenza, spiegabile e scusabile, ma in quel momento, per lui, grave e disperata. Egli vide don Girolamo piantargli addosso gli occhi, come preso da un dubbio, e arrossì: sospettavano di lui dunque?
Alzò il suo sguardo verso il razionale, limpido e sicuro, e con voce commossa gli disse: "Don Girolamo, se vossignoria crede che io abbia mancato, mi chiami in giudizio e mi faccia dare la morte dei traditori; ma vossignoria sa quello che ho fatto per la santa giustizia... e non credo di meritare..."
Il razionale non rispose. Perché mai Andrea avrebbe tradito, se in fondo egli aveva fornito alla Società le prove che dovevano schiacciare don Raimondo Albamonte? Ma tuttavia i birri non potevano essere stati spediti al fondaco della Milicia per tagliare la via ad Andrea e a Giuseppico, nè potevano andare ad arrestare Zi' Rosario, senza una spia che li avesse posto sulla strada. E la spia doveva essere tra i pochi personaggi che possedevano quel segreto: il capo, occulto e misterioso, che soltanto don Girolamo conosceva personalmente in viso; il sagrestano di S. Matteo, Zi Rosario, Andrea e lui, don Girolamo. Se non era Andrea, uno dei più attivi artefici di quella cospirazione; se non era ,Zi Rosario, arrestato; se non era lui, chi dunque aveva potuto consegnarli alla giustizia? Non c'era che il sagrestano: sarebbe stato lui il traditore?
Bisognava assicurarsene.
"Andiamo" disse.
Non aveva fatto pochi passi che un altro giovane, che all'apparenza sembrava un commesso di bottega, fermava don Girolamo, ansando per avere corso.
"I cani" disse "hanno portato il corvo alla locanda nuova."
Il "corvo" era appunto il sagrestano di S. Matteo. Don Girolamo impallidì: il sagrestano era tutt'altro che la spia: era anche lui una vittima. Temette allora anche per sè, giacchè era evidente che la polizia teneva nelle mani le fila della cospirazione preparata nella sagrestia di S. Matteo e nel sotterraneo dei Beati Paoli.
Disse al giovane che aveva destato: "Va' a casa mia, a vedere che quaglie passano; ti aspetteremo dietro la chiesa di Santa Maria."
E voltosi ad Andrea, aggiunse con voce cupa: "Voi venite. La cosa non è chiara, e bisogna vederci dentro."
Quindici minuti dopo il giovane ritornò pallido e commosso: "I cani sporcano la cuba!"
"N'ero certo. Sta bene... Ma non mi ci coglieranno. Avverti mia moglie che stasera vado a respirare aria in campagna e le manderò notizie domani: e tu... t'aspetto domani all'alba alla "Torre dei diavoli". Andiamo Andrea."
Era già notte, le strade deserte: don Girolamo e Andrea per viuzze di traverso risalirono fino a Porta Carini, presero la via dei bastoni e dileguarono nell'ombra degli orti che circondono la città da tramontana, dirigendosi verso il vecchio castello della Zisa.
Nel vicino convento dell'Annunziata vi era frate ortolano che sarebbe stato lieto di dar loro sicura per quella notte.