Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte seconda, capitolo 4

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Matteo Lo Vecchio ritornò nella notte stessa dal duca della Motta, il quale aveva dato ordine che, in qualunque ora si fosse presentato, venisse introdotto il birro. Erano tempi in cui il governo aveva un gran da fare per cagione dell'interdetto. Vittorio Amedeo aveva nominato una giunta di governo che si era messa all'opera gagliardamente e anche violentemente, per impedire che il clero ubbidisse piuttosto al papa che al re; ed era cominciata la persecuzione contro i preti e i frati che si rifiutavano di compiere i doveri religiosi. Non poteva dunque sembrare strano che il duca, consultore di quella giunta, ricevesse un birro della levatura di Matteo Lo Vecchio, il più attivo, audace e violento dei birri della capitale.

Matteo Lo Vecchio veniva a dire al duca degli arresti operati quella sera dalle squadriglie di guardie e birri da lui spedite: il sagrestano era dentro, Zi' Rosario era dentro: soltanto don Girolamo Ammirata era sfuggito; certamente qualcuno l'aveva avvisato.

Il duca ne parve contrariato, ma il birro, sorridendo finemente, gli disse:

"Vostra Eccellenza non se ne dia pensiero; ci cascherà: ho il mio piano. Intanto abbiamo meglio di lui... Un pesce migliore, Eccellenza..."

"Andrea?."

"Quello sarà morto. Non si tratta di lui, ma di una donna."

"Una donna?"

"Che si chiama... Peppa."

"Peppa la Sarda?" esclamò don Raimondo impallidendo dalla commozione e non sapendosi dominare.

"Precisamente..."

"Dov'è?"

"Arrestata, per bacco!..."

"Ah!... Dove l'avete trovata? Come?"

"La briccona era nascosta in una stanza dietro la bottega di Zi' Rosario. Dopo l'arresto di questo pezzo da forca, io volli andare a rovistare la bottega, nel dubbio di trovarvi qualche cosa; e vi trovai più di quello che speravo. Quando io giunsi, la strega tentava di aprire la porta per fuggire. Vostra Eccellenza può immaginare lo stupore, anzi lo spavento, nel vedermi aprire la porta ed entrare. Tentò di chiudersi nella stanzetta dove era scappata, ma io la chiamai: "Peppa, è inutile che tu cerchi di fuggire, ti conosco...". Dissi così per impaurirla: in verità non sapevo chi fosse: ma non importava. A sentirsi chiamare per nome, a quel modo, le si piegarono i ginocchi, e cadde implorando pietà. Io l'arrestai, le posi i manichini e me la tirai dietro. Lei gridava, gemeva, si raccomandava e per evitare qualche guaio, fui costretto a far venire una portantina, per portarla alla Vicaria. Ero sicuro che questa notizia avrebbe recato piacere a vostra Eccellenza..."

"Infatti, se quella donna è veramente Peppa la Sarda, avete reso un grande servizio al regno. Si tratta di una scellerata, che ha commesso molti e orribili delitti, e che fino a oggi è sfuggita alle ricerche della giustizia."

Il birro sorrise sotto il naso, mostrando di prendere in buona lega le parole di don Raimondo, che, passata la prima commozione, aveva ripreso la sua maschera impenetrabile e fredda.

"Ora che l'abbiamo colta" disse Matteo Lo Vecchio "non sfuggirà di certo."

Il duca congedò Matteo Lo Vecchio; aveva bisogno di restare solo per coordinare tutti gli avvenimenti che si erano svolti in quel breve giro di mesi, e dei quali pareva avesse spezzato le fila. Spezzato? Giuseppico era morto, e non c'era nessun dubbio. Peppa la Sarda era in carcere, e non sarebbe più uscita viva. Andrea era scomparso. Quei tre erano, per gli effetti delle loro testimonianze, i personaggi più terribili, ma non i più temibili. Dietro a loro rimaneva qualche altro: don Girolamo Ammirata, forse; ma quale ragione avrebbe avuto il razionale di perseguitarlo? E per quale occulto disegno aveva cercato di servirsi di quei tre testimoni? E don Girolamo agiva di sua iniziativa, o a sua volta era lo strumento di quella misteriosa società, della quale egli finalmente aveva nelle mani alcuni adepti?

Riconosceva che, anche dopo essersi sbarazzato di quei testimoni importantissimi, egli rimaneva ancora al buio, gli pareva anzi che il buio aumentasse forse poteva strappare ai due settari arrestati qualche parola, forse per loro mezzo poteva risalire alla fonte di quella guerra sorda e implacabile. Peppa la Sarda doveva anche lei sapere qualcosa... Ma un nuovo terrore gli gelò il sangue.

Se la strega, tra gli spasimi della tortura, avesse fatto delle rivelazioni contro di lui? Non erano forse la prigionia e il processo di Peppa una minaccia terribile sospesa sul suo capo? E non era necessario, indispensabile, almeno, impedire che le confessioni di Peppa la Sarda fossero raccolte da altri?

Tra questi pensieri don Raimondo trascorse la notte, e la gioia di sapere la morte o la cattura di quelle persone pericolose, gli fu avvelenata dalla paura. Non gli pareva l'ora che facesse giorno; appena il sole si levò, andò nello studio per mettere in esecuzione il suo piano: ma nel gettare lo sguardo sul tavolino, impallidì: vide una lettera, dalla forma riconobbe la provenienza.

L'aprì con mano febbrile e convulsa, e lesse: "Voi avete appena sprontato qual che chiodo; ma ne rimangono altri, e le capocchie son salde. Ricordatevi!"

Come e donde quella lettera era entrata nel suo studio? La sua casa era dunque sempre aperta alle insidie, per quanto egli si circondasse di precauzioni e rinnovasse la servitù appena gli veniva in sospetto? Ora più che mai si persuadeva che lo stesso don Girolamo Ammirata, che pareva l'organizzatore di quella guerra, non fosse che un braccio armato, ma che la mente direttiva era un'altra. Chi poteva essere questo nemico occulto che aveva posto contro di lui i Beati Paoli?

Con questi foschi pensieri egli si fece condurre alle carceri. In quel tempo, come non mancavano chiese e conventi, non mancavano neppure carceri: c'erano quelli del Senato, presso Santa Caterina, dette comunemente "Carbonera"; c'erano quelle del Sant'Offizio e quelle dell'arcivescovado; c'erano quelle di Castellamare per nobili e per i civili e infine quelle della Vicaria, le più vaste e popolate. Queste della Vicaria sorgevano nel Cassaro, presso piazza Marina, in un edifizio che il vicerè Marcantonio Colonna aveva cominciato a costruire come fondaco per la dogana e i suoi successori lo tramutarono in palazzo di giustizia, fino a che il secondo Ferdinando di Borbone, nel 1840, lo destinò ad accogliere gli uffici fiscali e lo battezzò Palazzo delle Finanze. Vi si entrava per un forte cancello di ferro, fiancheggiato da due fontane che di notte cantavano il fresco poema dell'acqua dinanzi a quel tristo luogo che risonava di gemiti, di urli e di bestemmie; a un angolo, fuori, si trovava il palo della berlina: dentro, nel cortile, sorgeva la forca a forma di p greco, con la carrucola e la corda pendenti dal trave orizzontale, le scale appoggiate ai due bracci verticali. Ivi abitava il boia; e la vista degli strumenti di giustizia e dell'esecutore, si offriva continuamente agli occhi di coloro che entravano nel tristo asilo, con la minaccia sul capo di finire su quei tre legni infami e per mano di quell'uomo vestito di giallo e di rosso.

Arrestati per debiti si ammassavano dentro le stesse sale o antri coi falsari, i ladri, gli assassini; e tutti vivevano nello stesso sudiciume, nelle stesse sozzure; nudi, affamati, oziosi. Appena erano divisi gli uomini dalle donne; non così, però, che talvolta non se ne superassero i confini. I rei più gravi, o quelli sui quali si esercitava la vendetta del custode, erano segregati in celle fetide, grommanti, o nelle orribili segrete; i più vivevano in comune inventando giuochi, per passare il tempo, insidiandosi spesso, spesso ancora litigando, e le armi non mancavano, e qualcuno non aspettava la morte per mano del carnefice, perché la trovava nel coltello di un compagno di sventura.

Peppa la Sarda era stata trasportata in seggetta nella Vicaria e le sue grida avevano fatto accorrere alle finestre e ai cancelli interni i detenuti, i quali trovando divertente lo spettacolo della sciagurata che si contorceva fra le braccia dei birri, per non entrare, si abbandonarono alla più schietta allegria, facendo piovere sulla strega le maggiori contumelie.

"Nella segreta... bisogna chiuderla nella segreta, questa qui!" diceva l'algozino al custode.

A un cancello di legno si erano aggrappati Zi' Rosario e il sagrestano per assistere all'ingresso della nuova inquilina. Zi' Rosario la riconobbe e impallidì.

"Anche lei?..." esclamò: "ma c'è dunque una spia fra noi?"

Temendo che Peppa lo scorgesse, si tirò indietro, ma soprappensiero: nè soltanto per quel sospetto della spia, ma ancora e più, perché temeva che quella donna, sottoposta alla tortura, avrebbe fatto qualche rivelazione. Essi non avevano ancora subito alcun interrogatorio, e non sapevano veramente quale imputazione pesasse a loro carico; naturalmente, erano portati a sospettare che qualcuno li avesse denunziati come Beati Paoli; ma era difficile darne le prove, e fidavano nelle loro forze, per difendersi; ma la vista di quella donna li sconcertò. Bisognava stare in guardia, e soprattutto sorvegliare Peppa la Sarda: ciò che non sarebbe stato difficile per le condizioni stesse del carcere e della vita che vi conducevano i carcerati, ai quali i custodi stessi fornivano notizie di quanto accadeva nei tribunali e dell'andamento dei processi.

Sebbene non fossero rare le visite di signori - v'era una deputazione che aveva, almeno come statuto, il pio ufficio di proteggere i carcerati - tutte le volte che veniva qualcuno era un vero avvenimento; giacchè offriva un diversivo alla vita monotona e vuota dei reclusi e dava loro agio di sfogare il malcontento: la lunghezza dei processi, che spesso giacevano per anni sopra un tavolo, la mancanza di nutrimento, l'abbandono. Oh, non mancavano certo le ragioni di dolersi e con modi più che vivaci!

Il rumore della carrozza che entrò fragorosamente nel cortile fece dunque accorrere alle finestre e ai cancelli molti detenuti, che visto scendere don Raimondo, ex magistrato e ora uomo di governo, si affollarono nei corridoi per i quali si supponeva che egli sarebbe passato, ma con delusione di tutti, il duca si diresse dalla parte delle donne.

Zi' Rosario in quel momento stava giocando con alcuni reclusi al giuoco dei carcerati, uno dei tanti passatempi escogitati dalla mente oziosa, che nella penuria di mezzi più atti allo svago e anche al guadagno, ricorre all'impensabile. Il giuoco dei carcerati, assai in voga in quel tempo nella Vicaria, consisteva nel lasciar correre una mosca privata delle ali, o qualcuno degli insetti che la sporcizia e l'assoluta mancanza di pettini producevano, sopra le poste: vinceva quelli sulla cui moneta era andata la mosca o l'altro schifoso insetto. Il giuoco, affidato interamente al caso, e perciò privo di inganni, allettava anche perché non richiedeva nessuna attenzione, nessun lavorio dell'intelletto.

La notizia che il duca della Motta era andato nel corridoio delle donne, se per tutti fu oggetto di curiosità e di chiacchiere, per Zi' Rosario invece fu cagione di non lieve apprensione. Egli intravedeva in quella visita una ragione della quale aveva tutto a temere.

Che cosa avrebbe detto Peppa la Sarda, poichè non c'era dubbio che fosse lei appunto la persona cercata da don Raimondo?

Avvertì il suo compagno di sventura, il sagrestano di San Matteo, con uno di quei segni e di quei vocaboli convenzionali, di cui essi conoscevano il valore, e lasciarono lo strano giuoco, per tentare di appurare quello che avveniva nel corridoio delle donne.

Don Raimondo appena entrato, come un pio visitatore, s'era veduto assalire da una folla di sciagurate, la maggior parte donne di malaffare, arrestate o per contravvenzione ai bandi viceregi, o di notte nei vicoli e nel Cassaro stesso, che esse tramutavano in teatro delle loro cacce oscene, o per reati comuni: ve n'erano giovani e forse anche belle ancora, di quella bellezza montanina, così forte e sana quando non è corrotta, ma sfiorite, luride, con le vesti a brandelli, i capelli arruffati, trasfigurate dal digiuno, dall'ozio, dalle febbri, dall'ira covata dentro l'anima; tutte supplicavano con le mani giunte gridando tutte insieme, sospingendosi a colpi di gomito l'una contro l'altra, per passare innanzi chiamando il duca coi nomi più dolci, qualcuna per abito o per una inverosimile fiducia nei propri supposti vezzi, ricorreva a qualche artificio di lubrica civetteria.

Il duca fingeva di raccogliere quei lamenti, tentando di allontanare da sè quelle mani, di impedire il contatto di quelle vesti; i suoi occhi cercavano fra tanti un volto noto e lo scorsero, o meglio l'indovinarono, sotto la maschera dei patimenti e degli anni.

Peppa la Sarda aveva riconosciuto anche lei don Raimondo, e pallida e fremente non osava avvicinarsi: forse indovinava che il duca veniva a cercare lei, dopo averla fatta arrestare e se ne stava tra paurosa e sospetta, senza parlare.

"Oh, voi!" l'apostrofò il duca fingendo di non conoscerla, e come per chiederle perché non faceva ressa come le altre.

Peppa lo guardò cupamente, e mormorò: "Io?... Non ho niente: vostra Eccellenza ne sa più di me."

Pronunciò le ultime parole con intenzione che fece trasalire don Raimondo.

"Poveretta!" si affrettò a rispondere; "mi racconterete il caso vostro. Chi sa forse potrei aiutarvi."

Accentuò questa vaga promessa, in modo da far capire a Peppa la Sarda che l'avrebbe aiutata, se ella si fosse conformata ai suoi voleri. La strega comprese e pensò a sua volta che forse il nobile signore aveva paura, paura di lei, e le balenò l'idea di approfittarne. In fondo ella poteva rovinarlo con una sua denunzia: vero che quella denunzia le sarebbe costata la vita, ma alle strette, muoia Sansone con tutti i filistei!

Poco dopo don Raimondo fece chiamare Peppa la Sarda nella sala dove l'Auditore criminale soleva interrogare i detenuti.

Erano soli: la loro conversazione non fu lunga; alla fine il duca chiamò il custode, gli diede una somma e, indicando la strega, gli disse: "Mi interesso di quella donna. Eccovi del denaro. Provvedetela di cibo e separatela da tutte quelle sciagurate. Desidero che sia trattata bene."

Il custode s'inchinò, rispondendo: "Vostra Eccellenza non dubiti."

Questo, che ai nostri giorni, ispidi di leggi e di regolamenti rigidamente osservati, parrebbe una cosa impossibile, era in quei tempi una faccenda ordinaria; la soglia delle carceri non era vietata che ai carcerati e ai poveri, ma i signori potevano entrare col pretesto delle opere di misericordia e il denaro rendeva meno rigorosa, triste e miserabile la vita del carcere: qualche volta - quando si trattava di signori, - la rendeva anche una gradevole villeggiatura.

A mezzodì Peppa la Sarda alloggiava in una stanza meno orribile delle altre fra l'invidia delle compagne e desinava "come una signora"; ma nel la notte fu presa da una violenta colica, e prima dell'alba morì, senza poter proferire parola. Don Raimondo, recatosi alle carceri, ne ricevette la notizia dal custode, che pareva desolatissimo di quel fatto: "Ha mangiato troppo, Eccellenza, ha mangiato troppo! ..."

Egli era assai preoccupato per accorgersi del sorriso di soddisfazione che errava sulle labbra del duca della Motta e quando questi, fingendosi addolorato, uscì dalla Vicaria, il custode, col berretto in mano, gli domandò imbarazzato:

"Debbo restituire a vostra Eccellenza la somma datami per quella donna?"

"Tenetela per voi."

"Oh, grazie, E che Dio la benedica del bene che fa!... Quella povera La Sarda doveva essere ben disgraziata! Quando aveva trovato un cuore grande e generoso come quello di vostra Eccellenza, è morta! ... Ma sia fatta la volontà di Dio! ..."

Nel pomeriggio l'avvocato fiscale sottopose a interrogatorio Zi' Rosario e il sagrestano: uno dei fogli che formavano l'incartamento del processo, aveva questa intitolazione:

Deposto della detenuta Peppa la Sarda, raccolto da sua Eccellenza il duca della Motta.