Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte seconda, capitolo 5

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Blasco da Castiglione si annoiava: i suoi giorni trascorrevano in un ozio vacuo e senza prospettive, che logorava il suo spirito irrequieto e vago di avventure e di emozioni.

La sua speranza di trovare a Palermo una occupazione adatta alla sua indole e alle sue abitudini si era, per un cumulo di circostanze, dileguata. Padre Bonaventura non aveva saputo trovargli altro che alloggiarlo presso il duca della Motta, più come un protetto o un parassita, che come un impiegato; e tuttavia, in quella casa, nel servizio di donna Gabriella, la cui vita era regolata dalle piccole esigenze di una gran dama, aveva trovato una serie di occupazioni che, nuove per lui, sebbene insignificanti, l'avevano divertito. Ma ne era uscito - e non se ne rammaricava, - e anche quelle occupazioni frivole e più da bell'imbusto che da anima come la sua, erano finite.

Di entrare nella compagnia delle guardie reali del principe di Villafranca non era più da parlarne. Fino a che egli era stato il protetto del duca della Motta, e più della duchessa, che lo imponeva quasi alla società, poteva trovare dei volti che per convenienza lo accogliessero benevolmente, sapendo di fare piacere a donna Gabriella; ma dopo la rottura, Blasco si vide circondato da tanta ostentata freddezza, che stimò più decoroso appartarsi e affettare anche lui un profondo disprezzo per quella società infrollita, nella quale si era affacciato.

Il principe di Iraci aveva da parte sua aumentato e incrudelito le antipatie e le ostilità, rappresentando Blasco come un avventuriero piovuto chi sa donde: una specie di sgherro o di bravaccio, al quale bastava gettare uno scudo perché sguainasse la spada. Queste ciarle e i ma lanciati a tempo, che lasciavano l'adito aperto alle congetture più inverosimili, avevano chiuso tutte le porte in faccia al giovane, sbarrato la via, scavato un grande abisso intorno a lui. Egli se n'era accorto, ma aveva ricacciato dentro di sè la amarezza, pensando che fino a quel tempo non aveva avuto bisogno di nessuno.

Però si annoiava; e più della noia lo rodeva il pensiero di quella ospitalità veramente fraterna da lui chiesta per pochi giorni - secondo la sua 'idea - ma che si prolungava, senza vederne la fine, e gli pareva ormai un abuso, del quale arrossiva.

Una mattina si recò al convento di S. Francesco per parlare con padre Bonaventura; voleva uscire da quella morta gora nella quale si sentiva affogare e pensava che il buon frate gli avrebbe dato una mano.

Ma il frate si strinse nelle spalle, addolorato il volto, con l'espressione particolare di chi non sa o non può fare nulla.

"Siamo in tempi difficili, figlio mio; l'interdetto mi vieta di avere relazioni col governo. Incorrerei nella scomunica... Abbi pazienza: speriamo che le cose s'aggiustino... sebbene mi pare che non se ne veda il principio... Così non può durare certamente. Non vedi quello che accade? Cominciano già le persecuzioni, ed io stesso mi trovo con la minaccia sul capo, di un esilio o di una prigionia... Se hai bisogno intanto di qualche somma..."

"Grazie, padre."

Ricusò per orgoglio, per dispetto fors'anche, sebbene non possedesse più un grano.

Aggiunse poco dopo: "Lei, invece, potrebbe farmi un favore..."

"Di' pure."

"Darmi qualche sua lettera di raccomandazione per il padre guardiano del convento di Castiglione... C'è una casa del suo Ordine a Castiglione?..."

"No, non c'è una casa nostra... Ma che vuoi fare?..!"

"Nulla. Qui ho da fare meno ancora: voglio andare a visitare i luoghi della mia infanzia..."

"No, non c'è una nostra casa" ripetè il frate; "c'è a Randazzo..."

"Fa lo stesso. Conosco Randazzo. Allora lei mi farà questa lettera? Verrò a prenderla domani."

Che cosa intendeva fare, quale fosse lo scopo preciso di quel suo viaggio, egli stesso non lo sapeva: forse era la sua indole, che lo spingeva al vagabondaggio, o un presentimento oscuro e indefinito che avrebbe trovato qualche cosa di interessante. Lo stesso giorno egli ne parlò a Coriolano della Floresta. Anche a lui domandò un favore.

"Sono ai vostri ordini."

"Domani o doman l'altro vorrei partire..."

"Partire? Per dove?"

"Non è un segreto. Per Randazzo, Castiglione."

"Perdonate se sono indiscreto, ma attribuite la mia domanda all'interesse che mi ispirano tutte le cose vostre. Ditemi piuttosto che cosa vi occorre da me."

"Un buon cavallo capace di compiere questo viaggio."

"Non è molto. L'avrete."

"Ignoro quanto tempo mancherò; ma potete supporre che non strapazzerò l'animale."

"Quand'anche doveste farlo crepare, se ciò potesse tornarvi utile, non me ne dorrei."

"Grazie, vi sono sempre più obbligato. Vi terrò informato delle mie tappe e di tutto quanto mi accadrà."

"Mi farete un vero piacere."

Blasco respirò a pieni polmoni, come uno che da un luogo chiuso esce allo aperto e si sente battere in viso l'aria fresca della campagna; e quel pomeriggio volle uscire davvero in campagna, a piedi, solo, fuori Porta Termini, avviandosi per lo stradale che mena al fiume Oreto.

Non aveva alcuna meta prefissa: pure andava innanzi e oltrepassato il ponte dell'Ammiraglio s'avviava verso i villaggi. Egli era così immerso nelle sue idee, che non s'accorgeva del cammino.

Erano gli ultimi di marzo; un pomeriggio tiepido e roseo, come ce n'è soltanto in Sicilia, e tutte le campagne verdi e i mandorli bianchi; nell'aria un odore di cose ignote che infondeva nel sangue una mollezza, una specie di lassitudine piena di desideri, una malinconia dolce e sognatrice.

Le anime che vivono nella solitudine sentono in queste giornate primaverili l'orrore del vuoto che le circonda, e sentono nel cuore una felicità a ricevere le impressioni e a schiudersi alla commozione e alla tenerezza.

Blasco si sentiva in queste condizioni. Egli era una coscienza troppo diritta per rammaricarsi di avere spezzato ogni relazione con donna Gabriella, ma certo non poteva pensare senza malinconia a quella donna, la cui immagine gli si era infiltrata nella carne. Non sentiva di amarla, nè l'amava: ma sapeva che lei era bella e piacente e che le sue labbra avevano fremiti che davano spasimi.

Non aveva superato l'antica chiesa di S. Giovanni dei Lebbrosi, che un rumore di sonagli, uno schioccare di fruste, un cinguettio di voci argentine, lo scossero dalle sue meditazioni; guardò: una teoria di lettighe, trasportate da mule bardate e piumate, veniva alla sua volta. Erano forse una ventina, grandi abbastanza per contenere, un po' strette e pigiate, quattro persone, ciascuna guidata da due lettighieri, che schioccando la frusta e con la voce incitavano le bestie.

Blasco si fermò per vederle passare.

Le lettighe erano piene di educande delle quali non conobbe che l'abito: fanciulle dagli otto ai sedici anni, fresche, vivaci e graziose nel loro vestito monacale. Ve ne erano tre per ogni lettiga, custodite da una suora professa, che non pareva desse molta soggezione, giacchè quelle nidiate, dondolanti al passo delle mule, empivano l'aria delle loro grida giulive. Blasco dapprima guardò con curiosità, poi con interesse e stupore; tutti quei visi ignoti, sui quali sorrideva la primavera, si rivolgevano verso di lui con una curiosità biricchina e quasi impertinente, come maravigliati di vedere un cavaliere, giovane e bello, in quella viuzza di campagna, fermo al loro passaggio. Le più grandi lo guardavano con lunghi sguardi, velati dall'ombra misteriosa delle ciglia.

Man mano che passavano, Blasco contava le lettighe: alla quindicesima, una fanciulla, vedendolo, mandò un piccolo grido di sorpresa, come se lo avesse riconosciuto; e il grido sorprese a sua volta Blasco, che non ricordava di aver mai veduto quella fanciulla. Probabilmente ella era caduta nell'equivoco di una rassomiglianza ma intanto aveva fissato l'attenzione del giovane sopra di sè e i loro sguardi si erano incontrati con maggiore intensità.

Blasco seguì con lo sguardo la lettiga senza prestare attenzione alle altre e vide il volto della fanciulla, e poi un altro e infine quello della suora. Nessun dubbio che egli era l'oggetto della loro curiosità, e che la prima fanciulla aveva parlato di lui alle sue compagne di lettiga.

Blasco stette fermo e pensoso, seguendo con gli occhi quella lettiga, fino a che si confuse fra le altre, e tutte, allontanandosi, formarono una massa più indistinta, e dileguarono.

Allora riprese il cammino, pensieroso, col volto di quella fanciulla dinanzi agli occhi, domandandosi chi fosse; poi a un tratto tornò indietro fino al bivio formato dalla strada di Brancaccio, dove c'era un'osteria e lì si fermò, domandandosi perché mai era tornato indietro.

"Ma guarda un po' che imbecille sono io! Volevo forse seguire le lettighe? Per fare che? Però sono curioso di sapere chi è quella monachella".

Dinanzi all'osteria erano due tavolini macchiati di vino, con delle panche sbilenche. Blasco sedette sopra una di quelle panchette, presso la quale un grande olmo stendeva le sue braccia verdeggianti.

L'oste si affacciò al rumore, e visto un cavaliere si sberrettò rispettosamente con un: "Vostra eccellenza mi comanda? Ce n'è dei Ciaculli, ma del sopraffino!..."

Blasco fece un gesto di assentimento, e l'oste gli portò un bicchiere e uno di quei boccali di terracotta smaltata che diventano ormai una rarità dei piccoli paesi di provincia. Mescè ed aspettò che Blasco assaggiasse per giudicare ed elogiare; ma Blasco aveva appoggiato i gomiti sul tavolo e col capo fra le palme guardava dinanzi a sè. Allora non c'erano le case che vi si vedono ora; lo stradale correva fra campi e giardini aperti, fino al mare, e l'occhio poteva spaziare per un lungo e vasto tratto della riviera e vedere il bel promontorio di capo Zafferano, in quel momento nuotante in un'onda di rosa e di viola per gli ultimi raggi del tramonto. Quello spettacolo pareva attirasse lo spirito di Blasco, ma in realtà egli seguiva ben altri pensieri perché gli rimanesse tanto da godere il magnifico spettacolo che gli si offriva dinanzi.

L'oste aspettò un minuto, poi fece' un moto con le spalle e rientrò pian piano; ma bastò che la sua ombra uscisse dal campo visivo di Blasco, perché questi si riscuotesse. Prese il bicchiere, lo guardò attraverso la luce e centellinò quel vinetto chiaro e fragrante, che aveva in quei giorni tanta rinomanza da essere immortalato da Giovanni Meli.

Un chiacchierio che veniva dall'in terno della bettola, portandogli qualche parola, richiamò a un tratto la sua attenzione. Tese l'orecchio. Erano tre voci maschili, il cui linguaggio era frammisto di parole strane e incomprensibili.

Una diceva:

"Dunque domani?"

"Domani" rispondeva l'altra.

"Siamo sicuri che non hanno cantato?"

"Sicurissimi..."

"Occhio a Caifasso..."

"Ci sono gli apostoli che tengono badetta."

"State attenti però.."

La voce si fece più bassa: Blasco sentì per un istante le tre voci bisbigliare insieme; due volte esse si fecero distinte, ed egli udì chiaramente un "chi" e "duca della Motta". Allora sporse il capo nel vano della porta, ma la sua ombra parve insospettisse i tre confabulatori, che egli non vedeva.

Una delle voci però disse:

"Baccaglio cubo."

E ammutolirono. Blasco riprese la sua posizione, chiamò l'oste, pagò il conto e si allontanò, ma non così da perdere di vista la bettola e spiarne chi entrava o usciva. Vide poco dopo affacciarsi una testa e guardare a destra e a sinistra e rientrare: poi vennero fuori uno dopo l'altro, con un lieve intervallo, tre uomini, che sulla porta si separarono; due di essi s'avviarono per il sentiero che conduceva a Maredolce e a S. Maria di Gesù, l'altro, all'opposto, prese la via della città.

Blasco lo lasciò passare, ostentando di non guardarlo, ma in realtà l'osservava: era un giovane ventenne, svelto e dall'aspetto bonario, che sembrava un artigiano. Passò accanto a Blasco guardandolo con indifferenza. Blasco si domandò se quei tre che erano usciti erano proprio quelli che aveva sentito parlare.

Ritornò alla bettola fingendo di ricercare qualche cosa che gli era caduta ed ebbe modo di dare un'occhiata dentro. Non v'era nessuno.

Il bettoliere accorse dicendogli: "Vostra eccellenza ha smarrito qualche cosa?"

"Sì... un anello... non so dove mi sia caduto... me ne sono accorto adesso."

"Diamine! diamine! ... Se le è caduto qui lo troviamo, non c'è stato nessun avventore nuovo..."

"Ce n'erano dei vecchi però... tre persone, se non sbaglio..."

"Oh! sono galantuomini..."

"Li conoscete? C'è da fidarsene?"

"Se li conosco! ... Sono avventori."

Blasco non insistette, per non avere l'aria di fare un interrogatorio di proposito. Salutò e riprese la strada verso la città, affrettando il passo per raggiungere il giovane artigiano.

Lo vide, da lontano, e lo seguì. L'accenno al duca della Motta, quel parlare misterioso, lo avevano messo in sospetto e destato la sua curiosità. Il caso, forse, lo aveva posto sulle tracce di uno di quei misteriosi complotti, dei quali don Raimondo si diceva vittima? Voleva persuadersene. Probabilmente quel giovane artigiano era un gregario; ma di quegli altri due, uno certamente doveva essere un capo; si sentiva dal tono di comando. Chi era?

La prudenza o l'astuzia gli aveva consigliato di seguire il giovane piuttosto che gli altri due, ma nondimeno la curiosità di sapere chi fosse quel capo e di vedere faccia a faccia forse l'uomo misterioso che incuteva terrore a tutta una regione, era vivissima e stuzzicava i suoi spiriti di avventura.

Preoccupato da questi nuovi pensieri, dimenticò l'educanda, dimenticò il suo viaggio, premendogli di non perdere di vista il giovane artigiano, che intanto entrava dalla Porta di Termini.

Allora, e fino al 1852, la Porta era formata da un arco voltato, che si prolungava come un andito e su di essa si innalzava un edificio, che fu prima un ospedale, sostituito nel 1657 dallo Oratorio della nobile Compagnia della Pace. La Porta, priva di ornamenti, piccola, oscura, pareva un passaggio coperto.

Come porta di dogana aveva battenti custodi e gabellieri. Dopo la rivoluzione del 1848, il governo regio fece abbattere il magnifico Oratorio e la Porta per ragioni strategiche.

In quell'ora - già suonava l'Avemaria - i gabellieri se ne stavano seduti, senza fare nulla, contentandosi di sorvegliare i pochi cittadini che dai vicini orti rientravano a Palermo: la Porta si poteva dunque dire sgombra e nonostante l'oscurità, non riusciva difficile tenere d'occhio qualcuno.

Tuttavia Blasco allungò il passo; appena oltrepassata la porta, cominciavano di qua e di là a ramificarsi strade e vicoletti, dove era agevole dileguarsi. Bastava scantonare alla prima voltata, per far perdere ogni traccia di sè: bisognava dunque stringere la distanza, ciò che a Blasco sembrò possibile, avendo veduto il giovane fermarsi a barattare qualche parola coi gabellieri.

Ma prima che egli fosse arrivato dinanzi alla porta il giovane era entrato e quando egli entrò, l'altro aveva già svoltato per la strada di Montesanto.

Blasco in due salti vi giunse, ma per quanto ficcasse gli occhi nelle due strade che gli si dilungavano dinanzi buie e tortuose, non vide alcuno.

"Bestia!" esclamò in collera contro se stesso; "bestia! Me lo sono lasciato scappare. Eppure ci scommetto che avrei avuto la chiave di quel mistero... Non dimentichiamo però le sue sembianze...".

E lentamente, di malumore, se ne tornò a casa.

Coriolano della Floresta non c'era ma il servo gli disse che il cavallo era bello e pronto nella stalla, e che il signore poteva partire, volendo, all'alba senza preoccupazione alcuna. Il signor cavaliere avrebbe pensato lui a dargli il buon viaggio.