Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte seconda, capitolo 6

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Coriolano della Floresta quella sera era andato a Palazzo Reale, giacchè sua maestà il re Vittorio Amedeo, ricorrendo la festa dell'Annunziata, protettrice del Supremo Ordine, si degnava ammettere i signori della città a baciargli l'augusta mano.

C'era dunque un ricevimento al Palazzo Reale ed era l'unico dato dal re in circa sei mesi di dimora a Palermo, giacchè Vittorio Amedeo pareva poco propenso ai divertimenti e alle galanterie; e inoltre affettava una certa sostenutezza, natagli, forse, dalla nuova dignità regale e questa sostenutezza, accompagnata da una quasi austerità, aveva tenuto lontani dalla Corte i signori, che, invece, non avrebbero desiderato di meglio che circondare il trono di tutto lo splendore del loro lusso e della magnificenza.

La grande galleria fatta costruire dal Vicerè duca di Maqueda, le sale contigue erano illuminate da migliaia di candele, che facevano brillare i marmi e le dorature, e si moltiplicavano nello sfondo cupo degli specchi; tuttavia la nobiltà che vi si affollava, abituata alla pompa spagnola, trovava che sotto i vicerè quella sala aveva avuto un aspetto più magnifico.

Quella sera a Palazzo Reale v'era quasi tutto il patriziato feudale del regno che aveva dimora a Palermo: v'era l'alta magistratura, le alte cariche, gli ufficiali superiori dell'esercito piemontese. Più scarso era il numero delle dame. La prammatica reale che vietava il lusso e non permetteva alle dame l'uso di trine di Venezia o d'altri paesi, galloni e ricami d'oro e d'argento, lo avere più di due paggi e un bracciere; che vietava ancora servirsi di quei magnifici cavalli frisoni, che facevano con le zampe tanto fracasso da restare proverbiali, di spendere per ornare gli abbigliamenti più di trenta doble, di dorare le carrozze, le sedie volanti, le portantine, gli sterzini, tutto ciò ferendo la vanità femminile, e impedendo alle nobili dame di sfoggiare tutta la ricchezza delle loro gioie, veramente regali, le allontanava dalla Corte.

Le più maligne dicevano che Sua Maestà per paura che la sua Corte di piccoli signori della Savoia e delle valli alpine sfigurasse al paragone della magnifica nobiltà isolana, avesse finto di scandalizzarsi e di volere reprimere il lusso per un interesse morale.

Nondimeno v'era un ragguardevole numero di signori; le mogli dei dignitari del regno, le ambiziose che speravano di entrare in Corte, non avevano trascurato l'occasione di mostrarsi.

Donna Gabriella non mancava. S'era posta in piedi, appoggiata alla grossa lastra di marmo che reggeva uno dei due magnifici arieti di bronzo che ornavano la parete di sinistra dell'ampia sala.

Questi due arieti venuti da Bisanzio, portati da Maniace, generale dell'impero greco e posti a ornamento della fortezza da lui eretta a Siracusa espugnata, Alfonso il Magnanimo li donò al valorosissimo Giovanni Ventimiglia, marchese di Geraci, che a capo dello esercito aveva reso grandi servizi al re liberale e aveva domato Siracusa ribelle; Antonio Ventimiglia suo figlio, li pose sulla tomba del padre a Castelbuono. Condannato per fellonia, e confiscatigli i beni, i due arieti diventarono proprietà della corona che non volle più restituirli, quando i Geraci furono reintegrati nei loro feudi. Il duca di Maqueda, costruito il salone, vi collocò i due bronzi sopra mensole di marmo, illustrandoli con apposite iscrizioni; ed ivi stettero fino a Carlo III di Borbone, che se li portò a Napoli, ma li restituì subito per il malumore mostrato dai palermitani. Nel 1848, la plebe vittoriosa, assalito e preso il Palazzo Reale frantumava i due capolavori dell'arte greca; uno fu perduto per sempre; l'altro potè essere felicemente ricomposto ed oggi è uno dei migliori ornamenti del museo nazionale.

Allora, quei bronzi, testimoni di guerre e affermazioni di vittorie, parevano nella gran sala, oggetto di ammirazione e di orgoglio cittadino.

La piccola e nervosa figura di donna Gabriella, col busto serrato nel vestito di seta amaranto, coi fianchi gonfi dagli sbuffi della sopravveste contrastava con la composta serietà di quel bronzo: pure nel contempo v'era un sapore di bellezza. Intorno a lei s'era formato un circolo di gentiluomini piemontesi e palermitani ai quali lei teneva testa col suo spirito, e la sua aria di dominio, con la sua sicurezza di vittoriosa. In tutti quegli uomini leggeva il tormento del desiderio e la reciproca gelosia, v'era l'istinto della lotta per il possesso sotto le belle parole e le frasi preziose che erano di moda in quei tempi, sentiva le sollecitazioni sensuali. E pareva che una sua parola poteva far portare carponi, dinanzi ai suoi piedi, tutti gli uomini, che, fra loro, pur sembrando cerimoniosi e galanti, si guardavano con altezzosità e con sfida; poteva anche gettare il pomo della discordia e vedere scintillare in loro quegli spadini dal fodero di veli e dall'impugnatura di avorio o di madreperla e d'oro.

Non aveva qualche bel cavaliere veduto la spada per lei?

Aveva infatti veduto passare il principe di Iraci che da quella notte facinorosa non si era più fatto vedere da lei e forse per vergogna. Anche ora, passando tra la folla, il principe aveva ostentato di non vederla, per celare la fiamma che gli era salita in volto. Donna Gabriella lo aveva seguito un po' con gli occhi, sentendo dentro di sè una certa pietà per quel giovane innamorato e orgoglioso, che aveva patito due acerbe e indimenticabili sconfitte in un tempo. La vergogna che intuiva in lui la fece sorridere, e chi sorride non è in collera. Stava quasi per incaricare uno dei cavalieri di chiamarle il principe, quando in capo alla sala si notò un movimento e un sussurro corse per tutte le bocche.

"Il Re! il Re!..."

Da una delle grandi porte in fondo alla sala erano usciti infatti due valletti, che avevano sollevato di qua e di là le pesanti tende di velluto cremisi, e il gran maestro di cerimonie, venuto fuori, aveva gridato:

"Sua maestà il Re; sua maestà la Regina!"

Dodici paggi in livrea rossa, con lo scudo di Savoia, vennero fuori con le torce accese e dietro a essi il grande scudiero e l'elemosiniere del re; indi Vittorio Amedeo e Anna di OrlÈans, seguiti dai gentiluomini e dalle dame di servizio.

Vittorio Amedeo nell'andatura e nel breve gesto col quale rispondeva al saluto e agli inchini profondi dei signori che gli facevano ala aveva qualcosa della rigidezza rude del soldato, che contrastava con la grazia tutta francese della regina. Egli era vestito di raso bianco e portava il collare dell'Annunziata. Sedettero entrambi sul trono, eretto fra le due porte, sotto un baldacchino di velluto cremisi, sparso di piccole aquile nere con lo scudo di Savoia in petto, insegna del nuovo re di Sicilia, adottata da Vittorio Amedeo e poi divenuta arme propria, anche quando non fu più re di Sicilia. Cominciò il baciamano secondo l'etichetta e gli innumerevoli privilegi e preminenze. I sovrani avevano una parola cortese per tutti, senza dare segni di stanchezza e di noia, con quel supremo dominio di sè che riduce spesso la regalità a un automatismo impassibile, nel quale sembra soppresso ogni sentimento umano. Quella parte ufficiale durò a lungo: a mano a mano si andavano ricomponendo i gruppi: intorno al re e alla regina si andavano formando i circoli; dei valletti entrarono con grandi vassoi e bacili d'argento pieni di confetture e di rinfreschi. Allora il re cominciò a girare per l'ampio salone, soffermandosi qua e là.

Donna Gabriella aveva ripreso il suo posto accanto all'ariete di bronzo e intorno le si era radunata la corte degli adoratori. Il re si avvicinò, passando, e si fermò a guardare il grazioso gruppo che formava la bella dama con quell'animale di bronzo. Dinanzi al sovrano i cavalieri si scostarono.

Vittorio Amedeo le disse con galanteria: "In verità, madama, se vedessi belare quell'ariete di bronzo, non me ne stupirei. Voi infondete la vita."

Donna Gabriella arrossì di piacere e si inchinò senza rispondere; il re disse qualche altra parola e passò oltre, ma le sue parole sparsero un po' di freddezza sui cavalieri, ai quali parve che, col suo complimento, sua Maestà avesse quasi posto dinanzi alla dama il cartello di divieto di caccia. Nondimeno il circolo non si assottigliò e i più ardenti, prendendo a pretesto il complimento reale, gareggiarono per trovare altre frasi galanti dello stesso conio, che, però, non sembravano produrre molto effetto nell'animo della duchessa.

Donna Gabriella era diventata pensosa; al piacere era succeduta una segreta ambizione che non osava confessare, ma dalla quale si sentiva mordere. In quel punto Coriolano della Floresta, che dopo di aver compiuto il suo dovere girava per il salone, col suo aspetto impassibile e sorridente si avvicinò; fu allora che la duchessa trovò un diversivo.

Attraverso il cavaliere della Floresta ella vide Blasco da Castiglione e sentì ridestare la collera e i desideri della vendetta insoddisfatta.

"Ebbene, cavaliere, e il vostro protetto?"

"Il mio protetto? Ho io tanto potere da poter proteggere qualcuno?"

"Vi piace sottilizzare. Allora dirò del... del... Non vorrete certo che io lo chiami vostro amico."

"Ma se non mi dite a chi alludete..."

"Via, non fingete e non mi fate arrabbiare!"

"Oh, preferirei sprofondare sotto terra al vedervi in collera contro di me, sebbene confesso che anche in collera voi siete adorabile... Ma in verità non so di chi vogliate parlare..."

"Ma... di quell'avventuriero, del signor Blasco..."

"Ah! E perché non dovrei chiamarlo mio amico, se fu anche un vostro fedele cavaliere e servitore?"

Donna Gabriella guardò Coriolano con occhi sfavillanti di dispetto.

Coriolano aggiunse: "Il mio amico Blasco da Castiglione sta bene; è addolorato di non potere, prima di partire, riconfermarvi la sua buona servitù."

"Parte!" esclamò vivamente donna Gabriella: "Per dove? Parte col re?"

"Questo lo ignoro... ma non credo che possa seguire sua Maestà, dal momento che ha perduto la vostra grazia."

Mise in queste ultime parole una lievissima tinta di ironia, che non sfuggì a donna Gabriella, la quale rispose subito con lo stesso tono.

"Ha guadagnato la vostra..."

"Dio mio, non sarò forse io che ho guadagnato la sua? E un così eccellente giovane; prode, coraggioso... Voi già lo sapete: leale, onesto... Insomma è un uomo apprezzabile, la cui amicizia è da desiderare."

"Voi mi stupite, cavaliere: quale entusiasmo! Badate che non vi si muti in una amara delusione..."

"Lo supponete?"

"Gli uomini sono ingrati."

"Il rimprovero sulla vostra bocca è così grazioso, che non oso difendere il mio sesso..."

Donna Gabriella moriva dal desiderio di sapere dove andasse Blasco da Castiglione. Senza rispondere alle galanterie di Coriolano della Floresta, domandò con apparente indifferenza:

"E durerà molto questo viaggio?"

"Mi rincresce non potervi rispondere... perché non lo so..."

"Non sapete dunque nulla voi!" esclamò donna Gabriella indispettita.

"Se avessi potuto supporre che desideravate queste notizie, mi sarei affrettato a fornirmene per avere l'onore di recarvele..."

"Oh, no; ho domandato così, per dire... Non ho nessun interesse di conoscere i fatti di quel signore..."

Coriolano s'inchinò. La conversazione era finita, ed egli dopo aver detto qualche frase galante si allontanò, con la stessa pacatezza signorile, lasciandola più indispettita.

In quel momento, voltandosi, gli occhi della duchessa della Motta s'incontrarono con quelli del principe di Iraci, che si era fermato a udire il breve dialogo, senza che lei se ne accorgesse. Il loro sguardo ebbe come un lampo di intelligenza. L'odio li accomunò in uno stesso desiderio.

Ella sorrise e gli stese la mano mollemente; e allora il principe, superato quel primo momento di titubanza, le si avvicinò. In quel momento i sovrani con lo stesso cerimoniale lasciarono la sala fra gli inchini dei signori, che si schierarono al loro passaggio. Donna Gabriella trascinò dietro a sè il principe di Iraci, a salutare i reali.

Quando Vittorio Amedeo passò dinanzi alla duchessa, le sorrise guardandola. Ella arrossì.

Scendendo le scale per andarsene, appoggiandosi al bracciere, don Raimondo che le andava a fianco le disse a voce bassissima:

"Sua maestà il re mi ha fatto sapere che vi vedrebbe con piacere al seguito della regina nel prossimo viaggio."

Un'onda di piacere imporporò il volto di donna Gabriella e le sue narici si dilatarono.

"Che cosa avete risposto?" domandò al marito.

"Che i desideri del re sono ordini che onorano i sudditi, diamine!...

Del resto, una duchessa della Motta può ben essere dama della regina di Sicilia."

"Specialmente se è una La Grua" aggiunse la duchessa con un sorriso; e forse il suo cervello concepì un pensiero ambizioso che mirava più in là.

Per tutto il tragitto dal Palazzo Reale alla "torre di Montalbano" non si dissero più nulla: ciascuno seguiva il corso dei suoi pensieri.

Dinanzi al portone del palazzo un uomo aspettava; appena la carrozza si fermò, egli si staccò dal pilastrino sul quale era seduto e si tolse il cappello.

"Siete voi, Matteo?" domandò il duca, riconoscendo il birro.

"Ho qualche notizia da comuni care a vostra Eccellenza... servizio del re..."

Mentre la duchessa, accompagnata da due staffieri con le torce saliva le scale, don Raimondo disse a Matteo Lo Vecchio: "Ebbene?"

"Tutto fatto, Eccellenza."

"Quando?"

"Un'ora fa: prima si sono confessati e comunicati devotamente, non si può dire quindi che non abbiano finito da buoni cristiani... Nonostante i tempi che corrono..."

"Chi li ha confessati?"

"Io..."

Don Raimondo lo guardò con sorpresa e non senza una certa ripugnanza.

"Voi?... Un sacrilegio? ..."

"Ma intanto..."

Il suo volto espresse questa idea: "Quali cose non ho saputo, e che servizi posso rendervi!".

Sebbene l'ora fosse tarda, don Raimondo gli disse: "Venite... Domani forse non avrò tempo."

In quell'ora stessa Coriolano della Floresta, uscito dal Palazzo Reale, percorreva il Cassaro per recarsi a casa sua. Giunto ai Quattro Canti, un rumore di gente e un improvviso balenio di torce a vento richiamò la sua attenzione. Sporse il capo dalla portantina, vide che dinanzi a una delle fontane, e precisamente a quella dell'Autunno, avevano rizzato una forca alla quale il boia e i suoi aiutanti, custoditi da guardie, sospendevano per un piede due cadaveri quasi nudi, dal cui collo pendeva un cartello.

"Chi sono quei disgraziati?" domandò.

"Due bricconi matricolati, due della setta dei Beati Paoli, Eccellenza. Sono stati strangolati in prigione e ora li espongono."

Coriolano si avvicinò alla forca e una strana commozione alterò il suo viso. Uno degli staffieri che gli faceva lume, dopo aver guardato bene quei volti enfiati e contraffatti, esclamò:

"Guardi, si direbbe che quello lì sia il sagrestano di San Matteo!"