Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte seconda, capitolo 8

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Gli ortolani che all'alba venivano dalla Porta Nuova e da Porta S. Antonino al mercato della foglia, furono i primi a vedere quell'uomo sospeso alla forca per le ascelle e imbavagliato, che non si capiva più se fosse vivo o morto e si fermarono stupiti di quella nuova specie di impiccagione. Portarono la notizia al vicino mercato che già si ridestava e allora una folla di curiosi, bottegai, facchini, monelli, corsero ai Quattro Canti per vedere il nuovo spettacolo.

Qualcuno lo riconobbe.

"È Matteo Lo Vecchio."

Ma non l'avesse mai detto! Coloro che conoscevano il birro, che avevano avuto da dire con lui e non lo avevano riconosciuto, adesso lo raffiguravano; se ne meravigliavano, se ne rallegravano sghignazzando. Domandavano se era vivo o morto. Pareva morto, giacchè aveva perduto i sensi e teneva il capo recline sul petto. Ma qualcuno si accorse che respirava.

"È vivo! È vivo!"

Chi dunque l'aveva conciato a quel modo? Oh, che trovata magnifica! ... Qualcuno lanciò un grido di feroce scherno:

"Ci si sta bene costassù, don Matteo?"

E allora venti, cinquanta voci si abbandonarono ai lazzi più ingiuriosi, alle facezie più grossolane e più crudeli: il chiasso chiamava altra gente; in breve i Quattro Canti si empirono di una folla allegra: caprai, carrettieri, facchini, contadini; il nome del sospeso passava per tutte le bocche, tutti si domandavano se era vivo e chi aveva potuto compiere quella feroce burla o vendetta e ognuno lanciava una parola, un motto, una facezia, un ingiuria. Sopra il chiasso squillò una voce più chiara delle altre:

"Don Matteo, avete fatto colazione? No? E allora pigliatevi questa pagnotta."

Volò un torsolo di cavolo e colpì in pieno petto il povero birro, che parve si riscotesse. Ora egli aveva riaperto gli occhi con una espressione di angoscia, di spavento, di sfinimento. Quel proiettile gli fece dare un guizzo. L'urlo di gioia della folla lo terrificò; due, tre altri torsoli volarono e dopo di essi, fra gli urli, le risa, le ingiurie, arance fradice, radici, zolle di fango, tutto ciò che capitava tra le mani di quella moltitudine, inferocita dalla gioia di potersi sfogare contro un birro.

Matteo Lo Vecchio faceva sforzi per liberarsi la bocca dal fazzoletto, rodendolo coi denti in uno spasimo di dolore, di collera, di terrore; nello sforzo che egli faceva il suo volto si gonfiava. si trasformava, perdeva ogni espressione umana: diventava spaventevole. La pioggia infittiva; il volto, i capelli, i vestiti si coprivano di fango, di terra, di succhi, di lordure: ogni colpo che andava al segno sollevava risate, urli ed evviva che facevano tremare la forca.

Matteo Lo Vecchio perdette nuovamente i sensi e non udì l'infame proposta che qualcuno più feroce aveva lanciato: "Bruciamogli i piedi!..."

Non udì e non vide: ma il chiasso aveva richiamato le guardie del vicino Palazzo del Pretore, che accorsero con le picche gridando; fermarono quegli sciagurati e ne impedirono la crudeltà. Accorsero birri e soldati, come se fosse scoppiato un tumulto. Col calcio dei fucili, delle alabarde, coi randelli, respinsero la folla indietro, liberarono l'impiccato da quella turba feroce e, snodata la corda, lo calarono giù, gli tolsero il bavaglio, gli slegarono le braccia e le gambe. La folla respinta, tenuta indietro, scontenta di quella liberazione, schiamazzava:

"Lasciatelo crepare! Birro è!... Infame è!..."

Una guardia inzuppò una pezzuola nella fontana e deterse il volto di Matteo Lo Vecchio, che a quella frescura si riscosse, aprì gli occhi e lasciò sfuggire un gemito.

"Portiamolo all'ospedale."

Andarono a prendere una portantina, ve lo adagiarono dentro assicurandolo con una cinghia, come si faceva con i cadaveri, e lo portarono via.

Tutta la città poco dopo seppe quel singolare avvenimento: che due cada veri di giustiziati erano stati sottratti dalle forche, e in loro vece era stato sospeso Matteo Lo Vecchio; e lo stupore, i commenti sguaiati o allegri occuparono una popolazione che non aveva nulla da fare. Si facevano mille supposizioni: qualcuno attribuì il colpo ai Beati Paoli.

Don Raimondo ne fu sgomento, ma più ancora quando sul suo tavolino, nello studio, trovò un'altra di quelle lettere misteriose che lo empivano di terrore e che gli dimostravano la sua impotenza di fronte alla tenebrosa setta.

"Potrai aumentare il numero dei tuoi delitti, non già allontanare la scure che ti pende sul ceppo. Altre quattro vittime domandano vendetta. Guai a te!".

Egli si strinse le mani disperatamente ed esclamò con collera angosciosa:

"Ma dunque non potrò io con un colpo solo annientare questo oscuro e terribile nemico?".

E il suo pensiero si concentrò sopra don Girolamo Ammirata e Andrea, liberi e dominatori dall'ombra. "Dov'erano? A S. Ciro? Ma quella contrada, alle falde del monte Grifone, offre nascondigli impenetrabili. Bisogna avere sottomano una forza poderosa per invadere tutte quelle campagne, dal ponte dell'Ammiraglio sino a Misilmeri, sino a Bagheria".

Le rivelazioni di Matteo Lo Vecchio gli ritornarono alla mente. Certo, la chiave del mistero si trovava in casa dell'Ammirata e bisognava andarvela a cercare. Forse aveva fatto male a sbarazzarsi così presto di quelle figure secondarie che lo avevano adombrato, e che avrebbero potuto essere strumenti preziosi. Purtroppo la paura lo aveva consigliato male e chi sa quali segreti erano discesi nel silenzio della tomba con Zi' Rosario e col sagrestano, con Giuseppico e con Peppa la Sarda. Troppa fretta! troppa fretta!... Cominciò a cercare una via da seguire; il bisogno di difendersi gli pareva ora più urgente, giacchè il chiasso sollevato dall'impiccagione di Matteo Lo Vecchio e dalla sparizione dei due giustiziati, avrebbe potuto portare alla scoperta di ciò che don Raimondo temeva di più.

Vivendo in sospetto non gli pareva l'ora, ogni giorno, di recarsi alla segreteria reale, per prendere gli ordini di sua Maestà o per conferire col re; ma nel tempo stesso, al mettere piede sul portone del Palazzo era invaso da una gran paura che gli faceva tremare le gambe e lo respingeva indietro. Quella mattina si affrettò più presto per essere se non il primo, almeno fra i primi a recare notizia dell'avvenimento; ma più del solito la paura lo fermò dinanzi alla porta e ci volle un violento sforzo per mantenere sul volto la sua maschera fredda e impenetrabile ed entrare con sufficiente disinvoltura.

Il marchese di S. Tommaso stava appunto radunando carte e documenti per la consueta relazione al re, aspettando che questi lo facesse chiamare. Appena vide il duca:

"Oh!" disse "vostra Signoria Illustrissima giunge a proposito. Ho qui fra le altre una supplica a sua Maestà di una donna, la quale prega la benignità del sovrano di concederle una udienza... Fin qui non c'è nulla di straordinario; tutte le suppliche si rassomigliano, ma questa qui aggiunge qualche altra cosa: dice che invoca la giustizia e la protezione del Re, Nostro Signore, sopra un orfano, al quale un parente, nobile, ricco, che ha entratura in Corte e riveste pubblici uffici, ha tolto con vari delitti non solo la ricchezza, ma anche il nome... Non dice nulla di più preciso, riservandosi di manifestare e rivelare ogni cosa, verbalmente al re... Vostra Signoria conosce tutta la nobiltà e tutta la magistratura del regno... e forse potrebbe favorirmi qualche chiarimento a proposito."

Don Raimondo si sentì impallidire ma rispose con voce ferma:

"Che io mi sappia, di nessuno della nobiltà ho mai udito raccontare una simile cosa: sarà una delle tante calunnie che si diffondono per vendetta. Chi è la supplicante, se non è indiscreto saperlo? Forse il nome potrebbe dare qualche lume sulla veridicità e sul fine dell'accusa."

Il marchese di S. Tommaso diede una occhiata alle carte, ne scelse una, vi guardò in fondo e lesse:

"Francesca Ammirata; abita nel piano di S. Cosmo.

Il duca della Motta dovette raccogliere tutte le sue forze per non mandare un grido di spavento e serbare il suo aspetto calmo e riservato. Sentì darsi un tuffo di sangue al cervello, che per un attimo gli tolse la vista e la parola.

Il marchese di S. Tommaso guardava i fogli e non si avvide di quell'improvviso turbamento e interpretò il breve silenzio come il raccogliersi della memoria.

"Ebbene?" disse poco dopo sollevando il capo.

"Ebbene" rispose don Raimondo che aveva ripreso il dominio di sè: "so donde viene; quando avrò detto a Vostra Signoria Illustrissima chi è quella Francesca Ammirata, non farà bisogno di aggiungere altro."

"Chi è dunque costei?"

"La moglie di un tale Girolamo Ammirata, razionale dell'Ospedale grande, già arrestato altra volta e ora fuggiasco e ricercato dalla giustizia perché lo si crede con fondamento, e le testimonianze dell'ultimo processo lo confermano, uno dei capi della famosa setta dei Beati Paoli... Non ci vuole molto a capire che quella supplica sarà una manovra di quella tenebrosa congrega di scellerati, chi sa per quali fini: probabilmente per sviare la giustizia, o per assicurare col pretesto di rivelazioni e denunzie importanti, l'impunità al detto don Girolamo, reo di parecchi delitti."

Il marchese di S. Tommaso guardava con stupore.

"Ma possibile che il capitano giustiziere, il capitano di città, lo stesso S. Offizio, non abbiano potuto mettere le mani su questa setta? Quasi, quasi sarei tentato di credere che essa non esista..."

"Oh!... Ma se tutti noi siamo minacciati e qualche volta proviamo gli effetti delle minacce dei Beati Paoli!...

Ci vogliono mezzi straordinari, avere carta bianca da sua Maestà, che Dio guardi, delegare una persona di polso e di odorato fino."

Il marchese pensò un poco.

"Sta bene" disse poi; "a Messina se ne parlerà: per adesso questa supplica mettiamola a dormire."

"O piuttosto, col suo permesso, bisognerebbe darle altra provvisione..."

"Quale, per esempio?"

"Fare arrestare la signora Francesca Ammirata e tutta la famiglia; sarebbe l'unico mezzo per avere nelle mani il marito e col marito un altro pessimo soggetto, sfuggito anch'egli alla giustizia: un certo Andrea..."

"Il capitano giustiziere può farlo..."

"Non lo fa, per paura..."

"Paura dei Beati Paoli?"

"Forse: ma più perché teme che di quell'arresto si possano interessare persone di riguardo, che, assediando il re di suppliche, strapperebbero alla sua misericordia qualche concessione..."

"Il re parte per Messina."

"Oh! andrebbero a importunarlo fin là. Non è una cosa nuova, e conosco i miei concittadini. Certo ci sarà chi si è servito della setta per esercitare qualche sua vendetta ed è ben naturale che, per salvare sè, faccia di tutto per salvare la setta... Bisognerebbe impedire che il re fosse importunato e, come dissi un momento fa, dare carta bianca a qualcuno..."

"Vostra Signoria Illustrissima aveva già cominciato e pareva anzi di avere in potere suo i capi della setta. Ci sono state quelle condanne..."

"Sì, ma i capi sono ancora liberi. Ha visto fino a qual punto spingono la loro audacia? Essi impediscono alla giustizia il suo corso e maltrattano i fedeli servitori di sua Maestà... io sono stato costretto fino ad ora a suggerire e a passare gli ordini, non ad agire..."

"È vero. Bisogna darle pieni poteri..."

"Ma io debbo partire... debbo seguire il re a Messina..."

"Che vuol dire ciò? Intanto si potrebbero ordinare gli arresti che Vostra Signoria suggerisce... Più tardi ne parlerò al re. Lasci fare."

Don Raimondo uscì dal Palazzo Reale in parte soddisfatto e rallegrandosi con se medesimo, in parte con l'animo tormentato dal sospetto. Di rallegrarsi. aveva ben ragione perché aveva in tempo scongiurato il pericolo che la signora Francesca Ammirata fosse ricevuta dal re e aveva ottenuto quella pienezza di poteri di cui voleva avvalersi per schiacciare i suoi nemici: tuttavia dubitava che, se non faceva in tempo a sopprimerla, la signora Francesca, per mezzo di qualcuno dei governatori dell'ospedale, che appartenevano al fiore della nobiltà, sarebbe ben riuscita a fare giungere al re le sue istanze e le sue querele.

Giunto a casa, chiamò la cameriera di donna Gabriella:

"Dite a mia moglie che desidero parlarle; pregatela di favorire nel mio studio."

Donna Gabriella in quel momento assaporava la gioia ambiziosa di un dono da parte di Sua Maestà il re; nel nominarla dama della Regina, si degnava mandarle un piccolo fermaglio di diamanti con le armi reali, fregio e insegna della carica, da appuntare sulla spalla sinistra e il dono era accompagnato da un desiderio suggestivo. Il re, per mezzo del suo cameriere maggiore, aveva mandato a dirle queste precise parole: che sarebbe stato felice di appuntare con le sue mani l'emblema sulla bellissima spalla della signora duchessa.

Ella dunque si trovava in quella felice disposizione d'animo in cui si sente quasi il bisogno di irradiare intorno a sè la propria gioia, cosicchè il messaggio maritale, per quanto avesse l'aria di una novità e sapesse di grave, non la preoccupò e la fece arrendere all'invito di don Raimondo con una premura che stupì il duca.

Al vederla entrare nello studio, fresca e sorridente, piena di incanto, don Raimondo si rannuvolò! Oh, era troppo bella e affascinante! Parve che ricacciasse dentro un boccone molto amaro; nondimeno accennò alla moglie di sedere sul sofà, con un gesto pieno di premurosa cortesia, e le sedette dinanzi, sopra un seggiolone, con le spalle alla finestra, in modo da lasciare il proprio volto in ombra.

"Perdonatemi se vi ho fatto incomodare qui. Sarei venuto in camera vostra, ma... (e qui divenne galante) mi accorgo di aver fatto bene a non venire, perché oggi voi siete straordinariamente bella e seducente..."

Donna Gabriella sorrise.

"Del resto" continuò il duca "noi dobbiamo parlare di affari. anzi di un affare molto grave e questo mi sembra il luogo più adatto e meno esposto agli occhi indiscreti."

La duchessa guardò il marito con stupore: quel preambolo abbastanza lungo era indizio che veramente si trattava di cose molto serie; guardò attentamente il marito e, nonostante l'ombra, le parve che la ruga, una ruga che gli solcava abitualmente la fronte fra le due sopracciglia, fosse più profonda del solito.

"Che cosa e'è, dunque?"

Egli non rispose, ma alla sua volta domandò: "Non credete voi che sarebbe doveroso domandare un'udienza al re per ringraziarlo dell'onore che ci fa?"

Donna Gabriella sussultò e arrossì: sapeva forse il marito che lei aveva ricevuto un dono e un messaggio? Mormorò: "O Dio! parrebbe anche a me..."

"Sono contento che siamo d'accordo. Ora ascoltatemi bene."

E cominciò a parlare a voce bassa, calmo e freddo, tra lo stupore di donna Gabriella, in quello studio severo, cupo e silenzioso.