Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte seconda, capitolo 11

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Quella mattina, a tavola, don Raimondo diede la notizia alla moglie: "Sapete che stanotte, all'uscire di casa Lungarini, hanno tentato di assassinare Blasco da Castiglione?"

La duchessa impallidì e balbettò; "Come?... Chi?..."

"Pare che l'abbiano appostato; quel giovane però deve avere il cuoio duro; si sono trovati per terra un morto e uno ferito gravemente. Lui no; il che vuol dire che l'avrà scampata: ci deve essere però qualche altro ferito, perché più in là si è trovata in terra una pozza di sangue."

La duchessa fece uno sforzo per vincere la commozione e domandò:

"Come si sa dunque che si trattava del signor Blasco?..."

"Lo ha confessato il ferito..."

"E... ha detto le ragioni?"

"No. Ma chi ha buon naso non avrà molta fatica a riconoscere donde viene la mano..."

"E voi sospettate?"

"Nulla" disse col suo freddo sorriso il duca della Motta, e parlò d'altro.

Donna Gabriella si contenne; ma quando, dopo desinato, rientrò nelle sue stanze, si abbandonò a una viva agitazione. Le mezze frasi, le velate minacce del principe di Iraci non le lasciavano dubbio alcuno che il colpo venisse da lui e cedendo a un primo sentimento di odio e di vendetta, non potè celare un certo dispetto che il colpo non fosse riuscito del tutto; ma altri ricordi più dolci, si sovrapposero ai cattivi; altri pensieri sorsero, un piccolo rimorso le addentò il cuore: il rimorso di avere prestato la sua complicità in quel delitto. L'idea che il bel giovane che ella amava ancora in fondo all'anima (e il suo odio non era fatto che di passione) poteva morire, la turbava.

Con la stessa leggerezza con cui aveva invitato il principe alla vendetta, ora faceva voti perché Blasco si salvasse. Si domandava dove era; forse in casa del cavaliere della Floresta. Se avesse mandato a domandare notizie? No, no! Notizie, perché? Tutto era finito fra loro: l'avevano colpito, peggio per lui, perché lei se ne dava pena?

Perché si accusava di complicità? Non aveva mai detto una parola al principe, tanto meno lo aveva incoraggiato... Qualche parola di sdegno, sì, 'L'aveva detta, ma... Del resto fra lui e il principe c'era della ruggine, alla quale lei era estranea e un giorno o l'altro doveva finire così... Confessava però che Blasco valeva assai di più del principe di Iraci. Era più bello, più valoroso, audace, aveva un certo non so che... Ah, come sarebbero stati felici!... e come era fuggita, come si era dileguata quella felicità, alla cui soglia ella era pervenuta!... Dileguata?

Stette un pezzo col capo appoggiato alla mano, la mente sprofondata in mille pensieri diversi e non si scosse che quando la cameriera venne a domandarle che vesti desiderava indossare per uscire. Si ricordò infatti che doveva recarsi al monastero di Montevergini a visitare la figliastra. Le sue visite non erano molto frequenti in verità; forse una alla settimana. Vi si recava non già per affetto verso quella fanciulla, cui non la legava neppure comunanza di vita, ma per convenienza e per abitudine.

Del resto la visita a un monastero entrava in quei tempi fra le occupazioni di una gran dama: vi si andava con tutta la pompa richiesta dal grado e dalla ricchezza, in portantina dorata e dipinta, e impennacchiata, con segui to di lacchè in ricche livree, e talvolta accompagnate da qualche cavaliere, che veniva allo sportello chiacchierando e sparlando per fare piacere alla dama. Si era sicuri di incontrare al parlatorio altre dame, il che tramutava la visita in un circolo mondano al quale non mancavano i rinfreschi, giacchè la madre badessa, ricordandosi di essere anche lei figlia di signori, non trascurava verso le nobili visitatrici quelle attenzioni che il loro grado e la reputazione del monastero richiedevano.

C'erano monasteri e monasteri. La casa di Dio non era uguale per tutti. Si pensava così: dal momento che il buon Dio aveva dato ad alcuni la nobiltà e la ricchezza, era ben naturale che anche per le nobili fanciulle che si ritiravano dal mondo ci fossero delle case religiose, dove potessero conservare immacolata da contatti plebei la purezza dei natali. I plebei c'erano, ma per servire, giacchè a questo il Signore li aveva destinati e di questo nessuno dubitava.

V'erano dunque monasteri per la nobiltà come ve n'erano per le persone civili: quanto al popolo minuto, dava il suo contingente ai conservatori delle traviate. Il monastero di Montevergini aveva una tradizione in fatto di educazione delle fanciulle e nel passato aveva contiguo a sè un vero e proprio educandato per le fanciulle nobili.

Violante Albamonte di Branciforti era educanda nel monastero di Montevergini. Donna Gabriella dimenticò o cercò di dimenticare quello che la conturbava e scelse a caso un vestito, alla vista del quale un vivo rossore le imporporò il volto: era un vestito che le ricordava uno dei momenti più dolci della sua vita; l'aveva scelto senza riflettere e pareva che il caso volesse richiamarla al passato.

Ella si affidò alle mani sapienti della cameriera la quale pareva avesse una gran voglia di parlare. ma la duchessa non le prestava attenzione, ed ella allora arrischiò timidamente:

"Vostra Eccellenza forse sa..."

Donna Gabriella si voltò rapidamente; capì che la cameriera voleva parlare di ciò che doveva essere l'argomento di tutti i discorsi di quel giorno, ma finse di non capire.

"Che cosa?" disse.

"Quello che è accaduto al signor cavaliere don Blasco..."

"Lo so, sbrigati."

Le tagliò la parola in bocca, temendo pettegolezzi, ma la curiosità la pungeva. La cameriera del resto non era per nulla figlia di Eva e, dal momento che aveva delle notizie, non poteva tenerle in serbo.

"Povero giovane!... Un signore così bravo, così valoroso!..."

"Non è mica morto," disse donna Gabriella, come per appurare altre notizie oltre quelle fornitele dal marito.

"Iersera no, grazie a Dio! Ma ora chi ne sa nulla?"

Donna Gabriella rabbrividì.

"Che vuol dire?"

"Dico che non si sa ora se sia vivo o morto, perché è sparito."

"Come, sparito?"

"Proprio, Eccellenza... L'hanno portato via, non si sa dove..."

"L'avranno portato al palazzo della Floresta..."

"Eccellenza, . no; al palazzo della Floresta non c'è..."

"Come puoi affermarlo?..."

"Eh, queste cose noi serve le sappiamo subito..."

La duchessa guardò stupita la cameriera, intanto che le agganciava il busto stretto sui fianchi e a punta sul seno.

"Pietro" continuò la cameriera, "si è informato. Il cavaliere don Blasco doveva partire, credo, stamane... e non l'hanno più visto da iersera. Dunque lo hanno portato via. Dove l'hanno portato e perché l'hanno portato?... Ecco quello che non si sa."

Donna Gabriella era rimasta come sopraffatta da questa notizia. Anche lei si rivolgeva le medesime domande, e trovava misteriosa quella sparizione; misteriosa e paurosa: ella pensava con raccapriccio che avevano dovuto essere gli assassini stessi a portarlo via, per non lasciare traccia del delitto e che a quell'ora Blasco era morto. Questi pensieri la fecero diventare nervosa. Ordinò alla cameriera di sbrigarsi e uscì. A piè dello scalone l'aspettava la portantina.

La via per andare al monastero di Montevergini non era lunga. Bastava percorrere la strada di S. Cosmo e della Guilla e svoltare per quella del Celso. Dinanzi alla porta del parlatorio v'erano ferme altre portantine e una folla di servi, una molteplicità e varietà di livree, che gettavano delle note vivaci di colori e dei bagliori d'oro e d'argento nella piazzetta dinanzi alla chiesa, grigia d'ombre.

Nel parlatorio v'erano dame; nomi quasi di semidei, che significavano la grandezza, la potenza, la magnificenza; la grande sala col grande Cristo sulla parete, le immagini di cera dell'Addolorata e della Immacolata dentro le bacheche a vetri, circondate di lampade accese e di fiori di cera; i quadri sacri, un po' grigi nelle pesanti cornici dorate. Questa grande sala così severa, in quell'ora si ravvivava del luccichio delle sete e dei rasi dalle tinte tenui e delicate; del candore dei pizzi e delle penne che ondeggiavano sui grandi cappelli, del roseo nitore dei colli e delle braccia nude. Tutto un soffio di mondanità invadeva l'austera semplicità del parlatorio e faceva un curioso contrasto con l'abito nero delle maestre e delle educande: le maestre, coi capelli corti, il capo chiuso nel soggolo, il volto dal pallore claustrale sorvegliavano, apparentemente, le conversazioni; in realtà tendevano l'orecchio con avida curiosità a tutti i discorsi e si informavano della vita mondana.

Il tema dei discorsi era in fondo frivolo e leggero, ma la convenienza suggeriva ammonimenti e savie sentenze, che le educande giovinette, pronte a spiccare il volo, accoglievano con lievi sorrisi. Ve n'erano già grandi, fiori di ragazze, nel cuore delle quali l'amore forgiava le sue frecce; ve n'erano destinate già dalla crudeltà delle usanze alla vita del chiostro, e avevano acquistata anticipatamente la fredda serietà della suora, almeno esteriormente.

Ve n'erano delle piccine, piccole allodolette ingabbiate, che non perdevano per questo la vivacità dei movimenti e non stavano ferme un momento, nonostante il cerimoniale domestico le obbligasse a stare contegnose e rispettose al cospetto delle madri. Le signore qualche volta dimenticavano di parlare con le educande e parlavano fra loro, come in una sala di conversazione; le madri maestre prendevano parte ai discorsi. e il parlatorio s'empiva di un cicaleccio grazioso, di risa argentine. Dai confessori e dall'ultimo miracolo si passava ai prossimi matrimoni, o anche al piccolo scandalo del giorno, sussurrato dietro i ventagli, con metafore che le fanciulle non dovevano capire, tra ammiccare di occhi e sorrisi ambigui.

L'ingresso di donna Gabriella recò un diversivo; le dame si alzarono; una dopo l'altra rispondevano con una graziosa riverenza alle riverenze di donna Gabriella, saluti cerimoniosi, prescritti dalle buone usanze, anche fra coniugi e amici intimi, quando si trovavano in pubblico. Poi qualcuna domandò:

"Ebbene, vostra Eccellenza ha notizie di quel giovane?"

Lo chiamavano "quel giovane" dal momento che Blasco non aveva un titolo. Ella rispose con l'aria di chi intende non essere seccata da domande importune, ma con maniere cerimoniose:

"Mio Dio! mi rincresce proprio di non poter dare nessuna notizia alle signorie loro, perché in verità non so niente."

Violante venne in quel punto a levarla d'imbarazzo; la fanciulla le si avvicinò timidamente, e dopo aver fatta la sua riverenza, strisciando indietro il piede destro e piegandosi sulle ginocchia, baciò la mano che donna Gabriella le porgeva.

"Ebbene," le domandò la duchessa, "come stai, piccina?"

"Bene, Eccellenza, per servirla."

Era la risposta voluta dalle buone regole. Violante aveva circa tredici anni ed era abbastanza sviluppata, sebbene il rigido abito di educanda pareva volesse cancellare o occultare ogni vestigio della donna che già cominciava a sbocciare dal tenero involucro della bambina. Il volto di un ovale purissimo aveva quel colore d'avorio, che è così comune in Sicilia, e che rendeva più cupo e vellutato l'occhio nero, sotto l'ombra delle lunghe ciglia. I capelli bruni, abbondanti, ondulati, lucidi, incorniciavano meravigliosamente quel volto nel quale la giocondità infantile contrastava con la serietà misteriosa e indefinibile della pubertà; la vivacità ribelle a ogni freno con la soggezione che le incuteva quella gran dama, e con le regole imposte dal rigore della madre maestra. V'erano ancora due nature che si contendevano il possesso di quella personcina svelta, ben formata, graziosa, piena di fascini e di ingenue seduzioni.

Il suo sguardo pareva pieno di pensieri e di parole e il suo sorriso irraggiava nell'anima uno splendore di sole.

Donna Gabriella la guardava con una ammirazione che non era scevra di dispetto. Anche lei era bella, ma presentiva nella figliastra una bellezza più nobile e nel tempo stesso più incantevole; col suo intuito di donna scopriva le forze ancora latenti, che avrebbero fatto di quella fanciulla la dominatrice dei cuori e ciò le dava una stretta, come se l'entrata di quella bella nel mondo dovesse gettare nell'ombra lei, che fino allora aveva pur signoreggiato. Ella vedeva già una rivale, di cui nessun vincolo di sangue poteva renderle tollerabile il trionfo.

Violante rimaneva in silenzio, aspettando che la matrigna le rivolgesse la parola; poi disse:

"Sa signora madre, chi ho veduto l'altro ieri, quando tornavo dalla Bagheria?"

La duchessa levò gli occhi per interrogarla.

"Chi?"

"Il signor don Blasco... quel cavaliere che accompagnava qui vostra Eccellenza..."

Donna Gabriella ebbe un tuffo di sangue al volto: anche quella piccina le richiamava alla mente il bel giovane, però il sentire pronunciare il nome da quelle labbra, le diede un rimescolio indefinibile. Le sue sopracciglia si aggrottarono. Ella era andata al monastero con Blasco forse un paio di volte e Blasco era rimasto fuori dal parlatorio; donde e come l'aveva veduto Violante? La sua mente corse con rapidità vertiginosa fra le supposizioni più opposte e disparate. Domandò:

"Dove l'hai veduto?"

"Non saprei indicarlo... in campagna... Ma sì; poco prima di entrare in città... prima di arrivare al ponte... sa bene, vostra Eccellenza, quel ponte antico... Egli era fermo; io l'ho riconosciuto bene, ma lui no..."

"Non ti ha riconosciuto?..."

"Ma non m'ha visto mai!..."

"E tu come lo conosci?"

"L'ho veduto quando è venuto con vostra Eccellenza..."

"Non è entrato qui..."

Violante si fece rossa per la vergogna.

"L'ho veduto dalla grata... è for se una cosa cattiva?... Guardiamo sempre di fra le grate... anche la madre maestra..."

"Non è una cosa ben fatta" osservò con una certa asprezza donna Gabriella e dopo un minuto di silenzio, con uno sguardo pieno di malignità, aggiunse: "Ma non accadrà più: il signor Blasco è morto.

Violante impallidì.

"Morto!" esclamò con accento di profondo rammarico; "morto!"

"Ammazzato" continuò donna Gabriella sempre più maligna; "era, a quanto pare, un uomo tristo... Io non lo conoscevo... mi accompagnava, perché così voleva tuo padre..."

"Pover'uomo!... Che peccato! era così bello!"

"Ehm!" rimproverò donna Gabriella; "che cos'è cotesto discorso?"

Violante abbassò il capo arrossendo, e balbettò: "Perdono."

Si sentiva una voglia di piangere, ma non sapeva bene se per il rimprovero ricevuto o per la notizia così crudamente datale. Certo l'immagine di Blasco ora le appariva circonfusa di pietà, giacchè nell'anima sua non capiva l'idea che un uomo così bello, e che era amico di suo padre, potesse essere un tristo, come aveva detto la matrigna.

Donna Gabriella scambiò qualche parola con la monaca, chiacchierò un pochino con le altre dame, poi si congedò.

Aveva il cuore gonfio di dispetto, di dolore, di mille sentimenti indefinibili, ma soprattutto di una specie di sgomento di qualche cosa che non giungeva ancora a precisare. Aveva bisogno di aria, e ordinò ai portantini che la portassero a mare.

Quelli uscirono sul Cassaro e calarono in giù, tra gli inchini dei cavalieri che riconoscevano la bella e nobile dama, ai quali donna Gabriella rispondeva appena con un cenno del capo, tanto era occupata nei suoi pensieri...

Presso la piazza Marina vide il principe di Iraci a cavallo; sporse il capo per farsi vedere, sperando che egli si avvicinasse alla portantina, ma il principe, appena sbirciatala, si allontanò. La sfuggiva? Perché? Rimorso? Paura? Ella si rigettò indietro, stringendo i denti, col volto contratto dal dolore e dalla collera. Si era affacciata e aveva cercato d'essere veduta soltanto per indagare, giacchè se, come era certa, l'assassinio era stato disposto dal principe, egli doveva essere in grado di darle notizie più esatte; invece egli si allontanava. L'avversione, il disprezzo che aveva sempre sentito per quel giovane leggero, incapace di un nobile sentimento, vero ramo degenere di una nobile stirpe esauritasi nei secoli, le salì dal fondo del cuore.

Diede ordine di ritornare indietro, e si fece riportare a casa. Per la strada altri nuovi pensieri la torturarono, e sopra di essi vedeva l'immagine bella e seducente di Violante, le cui labbra pronunciavano con una grazia incantevole, e quasi con un tenue tremore (così ella li sentiva dentro di sè) un nome, il nome di lui "il signor Blasco". Ricordava certe parole del cavaliere della Floresta, la notte di Natale, in casa Trabia che a lei erano parse piene di misteriose allusioni a un amore.

La figliastra e l'educanda si dileguavano dalla sua visione e vi rimaneva una donna, una rivale temibile e invincibile.

"Bisogna che quella fanciulla non esca mai più dal monastero - pensò; - no, no!".

A cena don Raimondo le portò altre notizie: il ferito, raccolto sulla via Lattarini, aveva fatto la sua deposizione che, evidentemente, come affermava il duca per la sua esperienza, era un sacco di menzogne. Egli e il compagno morto erano due di quei miserabili noti alla giustizia, che al mercato vivevano di furti e di scrocchi. Nella sua deposizione narrò che quella sera andava col suo compagno, per racimolare cenci nella spazzatura, quando, per caso entrambi si imbatterono in una comitiva di signori o di civili, non sapeva bene, perché era buio. Uno di essi gli diede un ceffone; il suo compagno allora rispose con una coltellata; quello cadde ma gli altri per vendicarlo si gettarono tosto addosso a loro due con spade e pistole e li conciarono a quel modo e portarono via il signore ferito. Non sapeva chi fossero, nè dove fossero andati.

"È tutta una bugia" disse don Raimondo; "perché se è vero che andavano cercando cenci, avrebbero dovuto avere un sacco per riporveli. E di sacchi non se ne vide traccia. Di vero c'è soltanto che il signor Blasco fu portato via da qualcuno... E qui è il mistero. Dal palazzo Lungarini egli uscì solo, e solo passò dinanzi la fila delle carrozze e delle portantine. Ma... se si avesse buon naso... Basta."

Si strinse nelle spalle, come per dire "non me ne importa" e concluse:

"Ricordatevi, cara mia, che fra due giorni partirete con la regina: me l'ha detto il re stamattina, degnandosi di darmi questa anticipazione..."

Le porse una carta che la duchessa aprì macchinalmente, mentre il duca continuava con galanteria:

"E che debbo in parte al vostro grazioso concorso..."

Ella arrossì, ebbe un moto di sdegno, e gli restituì la carta, dicendo seccamente: "Non partirò..."

"Come?" gridò stupefatto don Raimondo, impallidendo.

"Non partirò, vi dico. Andrò a ringraziare il re, ma lo pregherò di dispensarmi dal servizio di corte. Non ho questa ambizione..."

"Voi non ragionate sul serio" disse il duca, procurando di prendere la cosa a scherzo.

"V'ingannate. Parlo seriamente. Non partirò."

Don Raimondo strinse le mascelle come soleva fare quando la collera gli ruggiva dentro, e le sue labbra sottili impallidirono. La sua voce divenne cupa e minacciosa:

"Donna Gabriella," disse "voi dimenticate che una donna del vostro rango non manca ai suoi doveri verso il re, e che quando si accetta una carica, bisogna adempiere a tutti gli obblighi che impone... e dimenticate che in questa casa il padrone sono io..."

"Voi non potete obbligarmi a diventare la favorita del re!..."

"Perché voi, naturalmente, preferireste essere l'amante di un bastardo!"

"Don Raimondo!" gridò la duchessa levandosi in piedi sfavillante di sdegno.

"Ah!" continuò il duca cieco di rabbia "ah, credete dunque che io ignori tutto? Credete che io non conosca? Che non vi abbia tanto in potere mio da farvi chiudere in un ritiro come una moglie adultera?..."

"Perché non lo fate?" gli gridò sul volto donna Gabriella con aria di sfida; "Perché non lo fate?"

"Per non fare uno scandalo!"

"Ah!... avete paura!"

"Non mi obbligate a un passo dal quale rifuggo! Donna Gabriella, badate a voi! Voi non mi conoscete!..."

"Oh, vi conosco anche troppo!..."

"E allora guardatevi!... e finiamola. Questi sono discorsi inutili. Voi ubbidirete al re..."

"No!.."

"Ma dunque volete rovinare ogni cosa?"

"Io non vi rovino nulla. Quello che volevate, l'avete ottenuto; avete ora nelle mani quell'ordine che desideravate, e non avete più nulla a temere dai vostri nemici: voi potete mandarli sulle forche, senza dare conto a nessuno; potete circondare la vostra casa di guardie, farvi accompagnare, seguire dai granatieri, dalla cavalleria, da chi vi piace... Che volete dunque da me che paghi io il favore che il re vi ha. accordato? è questo che voi volete? Ebbene, abbiate dunque il coraggio di accompagnarmi voi nel letto di sua maestà!..."

"Duchessa!..."

"Perché vi offendete?

"Tacete! Voi perdete perfino il rispetto di voi stessa!..."

"Ah! lasciate coteste frasi! In breve: io non sono disposta a diventare la favorita del. re, per farvi piacere..."

"Tuttavia..." insinuò con ironia don Raimondo.

"Tuttavia ho concesso al re un colloquio che è rimasto nei limiti di una tenera amicizia... è così. Ho trovato il re più cavaliere di quel che voi immaginate... Ecco tutto. E non intendo andare oltre: mettetevelo in testa."

"Ma chi vi dice il contrario?... Voi interpretate ingiuriosamente il mio pensiero..."

"No; no: vi ho letto e vi leggo benissimo. Ed ecco perché rifiuto...

"E credete che io sia così sciocco da attribuire a un sentimento decoroso cotesto vostro mutamento repentino? Voi nascondete qualche cosa, che io saprò; ma guai a voi!..."

"Non mi spaventate!..."

"Sfidate?"

"Sì!..."

Don Raimondo strinse i pugni in un impeto di collera e mosse contro donna Gabriella che, senza scomporsi, stese il braccio al cordone del campanello e suonò... Il duca impallidì e si fermò di botto. Un lacchè si presentò alla porta.

"La mia carrozza," ordinò donna Gabriella tranquillamente.

"Dove andate?

Voi non uscirete!"

"Stanotte la regina tiene circolo; vado a ringraziarla e a pregarla di dispensarmi dal servizio di corte..."

E rapidamente attraversò la stanza, entrò nella sua camera, chiudendo dietro di sè la porta.

Don Raimondo la seguì con gli occhi ardenti d'odio e di collera e, steso il pugno minaccioso, mormorò fra i denti:

"Ah! tu pure, tu pure?... ma ti calpesterò!"