Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte seconda, capitolo 12

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La mattina del 19 aprile, Vittorio Amedeo e Anna d'OrlÈans partirono per Messina. Il corteo reale uscì da Porta Nuova, percorrendo lo stradale che costeggia i fossati: il re a cavallo, preceduto, circondato, seguito dalle guardie, dai dignitari di corte,! dal Senato, dalla nobiltà: la regina in lettiga, accompagnata dalle sue dame.

Donna Gabriella non c'era: improvvisamente ammalatasi, aveva domandato alla Sovrana il permesso di aspettarla a Palermo o di raggiungerla a Messina fra qualche giorno; ciò che Anna d'OrlÈans le aveva concesso volentieri, gelosa com'era del re, e sospettosa della bellezza della duchessa. Ma Vittorio Amedeo ne era rimasto un po' stizzito e, supponendo che in quell'improvvisa assenza c'entrasse un po' la mano di don Raimondo, non aveva saputo celargli il suo malumore, nella freddezza con cui lo aveva accolto. Il re, per consiglio del San Tommaso, e anche un po' per interesse proprio, aveva investito don Raimondo dell'ufficio di Vicario generale del regno, per purgarlo di tutti i malfattori della città e delle campagne, dispensandolo dal seguirlo a Messina, come già aveva pensato. Ora non si pentiva di ciò, ma credeva che se avesse obbligato il duca ad accompagnarlo, la duchessa non avrebbe potuto esimersene.

Il corteo passava in mezzo a una calca di popolo accorso per godersi lo spettacolo. I bastioni di Porta Montalto e di Porta S. Agata, la cortina che si stendeva fra l'uno e l'altro, erano pieni di curiosi. Qua e là scoppiavano applausi, non molto espansivi, ma cortesi e spontanei.

Al ponte dell'Ammiraglio il re congedò il Senato e la nobiltà e non rimasero che i gentiluomini e i dignitari di corte. La prima tappa era Bagheria. Il principe di Butera vi aveva di recente edificato una sua villeggiatura, veramente magnifica, e aveva pregato il re di fermarsi per accettare una colazione. Egli e la principessa avevano per questo preceduto i sovrani, e sfoggiando un lusso regale degno della circostanza, li aspettavano. Il principe aveva pensato a tutto; oltre alla tavola del re e della regina, aveva in altre stanze, secondo il grado di nobiltà e l'ufficio, fatto apparecchiare altre tavole per i dignitari, i gentiluomini, gli ufficiali dello Stato, le dame della regina e via via fino alla servitù. Fuori della villa, sopra una spianata, aveva fatto preparare le tavole per le guardie. Dovunque si poteva vedere la ricchezza e la magnificenza del potente, ma la mensa regale, per la profusione e la bellezza delle argenterie, pregevoli opere d'arte, di cui alcune del Rinascimento, dava le vertigini.

Il viaggio fino a Bagheria non ebbe nulla di notevole; la vista di quelle campagne ubertose, ricche di una flora varia e rigogliosa e in quella stagione odorosa di tutti i profumi, aveva rallegrato il re, che, meravigliato di tanta bellezza, esprimeva le sue impressioni ai signori che lo circondavano.

"Dite un po': se queste campagne fossero nelle mani di contadini infaticabili e diligenti come i nostri piemontesi, non sarebbe questo il primo paese del mondo?"

"Bisognerebbe prima di tutto rendere sicure queste campagne; vi sono troppi malfattori. Vostra Maestà ha già saviamente dato i primi provvedimenti e con la sua paterna saggezza sarà veramente il redentore del regno."

"Peccato che sia troppo lontano da Torino!..."

Bagheria non era allora neppure un villaggio; era un luogo di delizie, dove alcuni signori innalzavano palazzine di villeggiatura in quello stile baroccamente prezioso che era in voga nei primi anni del Settecento. La popolazione era dunque formata di contadini e della servitù di quelle case e tutta questa gente, sebbene non numerosa, si era affollata sullo stradale in vicinanza delle ville, fra due o tre archi trionfali di fronde.

Dinanzi al primo arco c'erano il principe di Butera con la principessa e due file di milizie feudali, che spararono a salve i loro archibugi, mentre la folla applaudiva e le due campane della piccola parrocchia sonavano a distesa.

Ma non era il re ancora giunto sotto il primo arco, quando una giovinetta si buttò in ginocchio in mezzo alla strada, agitando un foglio di carta piegato, e gridando:

"Grazia! Maestà, grazia!.."

Vittorio Amedeo trattenne il cavallo; tutto il corteo si arrestò con un moto improvviso e scomposto: il capitano della guardia a un cenno del re si chinò a raccogliere dalle mani della fanciulla quel foglio di carta e lo porse al re; mentre il principe di Butera, sorpreso e adirato che persone estranee osassero entrare nei suoi possedimenti e turbare la solennità del ricevimento da lui preparato, si avvicinava alla fanciulla con l'evidente intenzione di farla bastonare dai suoi lacchè.

"Chi sei? Chi ti ha dato questo permesso? Prendetela e datele una lezione!"

E rivoltosi al re, che aveva dato la carta al suo elemosiniere, aggiunse con accento di profondo rammarico:

"Vostra Maestà perdoni l'audacia di questa fanciulla, che non è della contrada, nè so donde sia venuta. Saprò io insegnarle i doveri che si hanno..."

"Lasci, lasci andare; probabilmente sarà qualche infelice che ha bisogno della nostra protezione. La mia casa non ha mai respinto la povera gente..."

Ma la fanciulla, che si era levata in piedi, rossa in viso per la commozione, rispose con prontezza.

"Non è per me che vengo, Maestà; io non ho bisogno di nulla; imploro giustizia per altri... Mi perdoni, Vostra Maestà, e mi perdoni anche Vostra Eccellenza se sono stata ardita, ma..."

"Come ti chiami?" le domandò il re sorridendo e ammirando la graziosa vivacità della fanciulla abbastanza bella e resa più bella dalla commozione.

"Pellegra Bongiovanni," rispose, "sono la figlia del pittore e mio padre è là, eccolo..."

In un gruppo di popolani, infatti, si vedeva un uomo in abito cittadinesco, che sorrideva con aria da sciocco, e faceva grandi inchini, e pareva volesse accorrere anche lui, e che lo trattenessero a viva forza. Il principe lo riconobbe:

"Don Vincenzo Bongiovanni?"

Che cosa poteva essergli accaduto? Che grazia implorava e per chi? Sarebbe stato più conveniente, anzi più doveroso rivolgersi a lui, che era il padrone di casa, e forse egli avrebbe giudicato dell'opportunità di dare quella supplica al re... Si diceva che il pittore era un po' imbecillito, e questo solo poteva scusare la sua temerità. A ogni modo, poichè Vittorio Amedeo aveva accolto con benignità la fanciulla, il principe ricacciò dentro il dispetto e, senza curarsi d'altro, pronunciò le parole di benvenuto che aveva preparato per la circostanza, supplicando le loro Maestà di degnarsi di accettare l'ospitalità e di onorare della loro presenza la casa del principe e gradire la sua servitù.

Era uno di quei discorsetti plasmati sullo stesso stampo dalla cortigianeria dei tempi, che il re ascoltò col sussiego voluto dalla circostanza, in contrasto con la spontanea benevolenza mostrata poco innanzi verso Pellegra.

La fanciulla intanto s'era tirata indietro avvicinandosi al padre e a quel gruppo di uomini, i quali, approfittando della confusione di quel momento, nel quale tutti si affaccendavano per l'ingresso del re nella villa, si dileguarono fra gli aranceti che inselvavano la vallata.

Ben presto nessuno pensò alla fanciulla e all'incidente, la regalità di quel ricevimento avendo fatto dimenticare quell'episodio, che in fondo non aveva nulla di nuovo e di eccezionale.

L'elemosiniere intanto aveva dato una lettura alla supplica presentata da Pellegra e il suo volto aveva preso tutte le espressioni dello stupore. Avvicinatosi al marchese di San Tommaso, gli disse:

"Non è affare mio; mi pare che riguardi più vossignoria; ma davvero è una cosa strabiliante."

Bastò al marchese di San Tommaso dare un'occhiata al foglio di carta, per capire di che si trattasse:

"So che cos'è" disse; "è la seconda supplica questa; però..."

Qualche parola avendo attirato la sua attenzione, egli si mise a leggere con attenzione, e anche il suo volto manifestò un grande stupore...

"Diamine! diamine! diamine!... Qui si dicono cose che parrebbero incredibili!..."

Quando si riprese il viaggio e nella aperta campagna solitaria e selvaggia, il re, deposta l'etichetta, si pose a discorrere familiarmente coi dignitari della sua corte, domandò al suo elemosiniere:

"Ebbene, monsignore, che cosa implora quella fanciulla?"

"Maestà, quello che contiene la supplica entra nelle mansioni del signor marchese di San Tommaso, piuttosto che nelle mie; non si tratterebbe di carità, ma di cose che interessano la giustizia di vostra Maestà... se sono vere..."

"E il marchese di San Tommaso che ne dice?"

"Dico, Maestà, che se le cose che vi si dicono fossero credibili, non bisognerebbe più aver fiducia in persone sul cui zelo e sulla cui rettitudine vostra Maestà ha fatto assegnamento."

"Voi destate la mia curiosità: di che si tratta dunque?" "Si accusa il duca della Motta di delitti neri..."

"Il duca?"

"Maestà sì; egli sarebbe l'usurpatore del patrimonio a danno del legittimo erede... e di più sarebbe colpevole della morte della duchessa, della sparizione del legittimo erede, della morte di una cameriera della duchessa e di altri delitti, per coprire i quali egli avrebbe fatto imprigionare e condannare varie persone, e ieri mattina, in virtù dei pieni poteri concessigli da vostra Maestà, fece arrestare la moglie e il nipote di un tale Ammirata, ricercato anche lui dalla polizia, o, secondo la supplica, dalla persecuzione del duca della Motta. Questo si dice nella supplica; ma..."

"E una cosa da sbalordire!... C'è dunque dell'altro?..."

"Ma devo confessare a vostra Maestà che io avevo ricevuto altra volta un'istanza della moglie di questo Ammirata, la quale supplicava per una udienza. Non ho creduto di doverne parlare a vostra Maestà, perché mi consta che il detto Ammirata è uno dei capi di quella associazione segreta dei Beati Paoli, che tante scelleratezze ha commesso e commette... e contro la quale appunto il duca della Motta ha rivolto le sue forze..."

"E voi credete?"

"Credo, Sire, che il duca della Motta sia un uomo abile e che può rendere a vostra Maestà grandi servizi, specialmente ora che abbiamo sulle braccia la questione con Roma e credo che, per la sua inflessibilità, abbia molti nemici..."

"Cosicchè credereste che si tratti di calunnie..."

"Contro i ministri di solito se ne inventano, e per lo meno si può ritenere che nelle accuse contro il duca ci devono essere delle fantasie e delle esagerazioni; ma non sarebbe male, forse, indagare un po'..."

Il re stette un minuto in silenzio; poi domandò:

"Da chi è sottoscritta la supplica?"

"Francesca Ammirata..."

"E quella fanciulla, quella figlia del pittore, è parente di questa Ammirata?"

"Non saprei..."

"Ebbene, marchese, voi v'informerete di tutto."

"Appena giungeremo a Termini, darò gli ordini opportuni..."

"E farete prima di tutto interrogare quell'Ammirata..."

"Vostra Maestà sarà obbedita."

Francesca Ammirata ed Emanuele erano stati arrestati, come aveva riferito il marchese di S. Tommaso, il giorno innanzi, per ordine di don Raimondo e condotti nelle segrete>di Castellamare, come in un luogo più sicuro. Il duca pensava che quella era la maniera più sicura per avere nelle mani don Girolamo e Andrea, special mente quest'ultimo, del quale egli aveva una tremenda paura. L'arresto aveva messo sossopra tutto il quartiere del Capo, ma più che l'arresto in se stesso, il luogo dove avevano condotto gli arrestati; giacchè oltre i nobili, che vi avevano quartieri privilegiati, al Castello non si conducevano che i rei di delitti gravissimi e per i quali era necessaria una speciale sorveglianza. Ma chi ne parve desolata fu Pellegra. La povera fanciulla, al vedere Emanuele coi polsi legati, fra i birri, scoppiò in lacrime; ma il giovanotto la rimproverò:

"Che cos'è cotesto pianto?... Non sono mica un fanciullo, e non ho paura di nulla io!"

Egli se ne andò fieramente, col capo eretto, con un'aria spavalda, sdegnoso, confortando la signora Francesca, che, pallida, con le labbra serrate, frenava a stento la propria commozione; soltanto quando si vide solo, chiuso in una stanza buia, umida, fetida, soltanto allora ebbe quasi paura e si sentì stringere il cuore.

La stessa giornata la notizia di quell'arresto giunse a don Girolamo. Egli ne fu atterrito. Si diede un pugno sulla fronte per la disperazione, gridando:

"Per cagione mia!... Avrei dovuto aspettarmela!... Dovevo metterli al sicuro!... E ora? E ora? Che accadrà?... Bisogna agire! bisogna agire!..."

Andrea non era meno costernato: coi pugni serrati, pallido ma torbido e minaccioso, passeggiava su e giù senza dire una parola.

Quella notte i vicoli adiacenti alla chiesa di Santa Maruzza videro delle ombre misteriose strisciare lungo i muri delle case e sparire a un tratto. V'era seduta straordinaria, alla quale non mancarono nè don Girolamo, nè Andrea. Che cosa si disse? Che cosa deliberò il misterioso tribunale?

La dimane Pellegra andava ad aspettare il re a Bagheria. Ma intanto che ella gridava: "grazia! grazia!", don Raimondo, accompagnato dall'uditore fiscale si recava al Castello, nella sala dei giudici e ordinava che gli conducessero innanzi la signora Francesca.