Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte seconda, capitolo 14

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Il principino di Iraci s'era trattenuto fino a mezzanotte nel palazzo Pietraperzia, dietro la chiesa di S. Cita e si avviava a casa sua, in portantina. Aveva giocato e perduto ed era di pessimo umore, ma non già per le perdite. Era troppo gran signore per preoccuparsi di una somma buttata via sopra un tappeto. Il suo malumore aveva altre ragioni. Prima di tutto la sparizione di Blasco avvenuta in un modo così inesplicabile e straordinario, e perciò l'incertezza della sua sorte e la preoccupazione che si sapesse chi aveva ordinato e disposto l'aggressione notturna. Veramente nessuno degli aggressori lo conosceva, nessuno poteva dire di avere ricevuto da lui un incarico di quel genere.

Il colpo era stato tentato da alcuni malandrini, raccolti tra i bassifondi della città da un suo vassallo, un vecchio avanzo di forca, che egli teneva in palazzo come esecutore delle sue vendette private o dei suoi capricci. Questo bravaccio lo accompagnava sempre di notte, armato di carabina, e la sera dello spettacolo in casa Lungarini stava ad aspettare accanto alla portantina.

Gli era bastata mezza parola per correre al vecchio mercato, non molto lontano di là, ritrovo di quei banditi cittadini e reclutarne quattro con pochi tarì. Dopo il colpo, il principe aveva stimato prudente mandare nei suoi feudi il bravaccio. Era dunque tranquillo da questo lato. Ma l'inaspettato soccorso e la sparizione di Blasco gli facevano sospettare che qualcuno avesse prevenuto il suo disegno per impedirne l'esecuzione. Chi avrebbe potuto essere costui? E Blasco era vivo o morto?

Il non aver potuto sapere nulla, il mistero che regnava intorno al giovane cavaliere lo teneva in una apprensione che lo rendeva nervoso e irascibile.

L'altra ragione di malumore era la partenza di donna Gabriella che, dal La notte dello spettacolo, non s'era più fatta vedere da lui, ed era partita senza farlo sapere. In fondo, da donna Gabriella non aveva potuto ottenere mai nulla; la sua relazione passava da speranze improvvise e illusioni a sconfitte senza ragione; la sua vanità passava da lusinghe a ripulse che lo facevano piangere di dispetto, ma non si persuadeva ancora che egli era un trastullo nelle mani di donna Gabriella: un trastullo del quale lei si serviva in date occasioni e per dati fini, e che buttava via quando diventava inutile. Riconoscere questo, la sua vanità non glielo concedeva, ed ecco perché si arrabbiava di quella partenza; tanto più che qualche giovane patrizio, al quale egli ostentatamente aveva fatto credere di avere conquistato la duchessa, gli domandava canzonandolo in quale fase fosse entrata la sua luna di miele.

E quella notte appunto, a proposito della sua disdetta al gioco, qualcuno lo aveva punzecchiato per le sue fortune in amore, e le allusioni frizzanti avevano ridestato il suo malumore e il suo dispetto.

Egli dunque ritornava a casa sua, in portantina, accompagnato da due staffieri con le torce accese e da due schiavi armati e, attraversata la piazza San Domenico, imboccava la strada della Bandiera, quando, poco prima di giungere all'angolo della viuzza di S. Basilio, un accattone, forse attirato dal lume della fiaccola, si parò dinanzi alla portantina, dicendo con voce piagnucolosa:

"La carità, Eccellenza; un grano che mi muoio di fame."

Il portantino di testa cercò di scansarlo, ma l'accattone gli si gettò dinanzi, come per fermarlo, ripetendo il suo verso lamentevole:

"Un grano, Eccellenza ..." "Buttate via cotesto poltrone!" gridò il principe adirato.

I due schiavi si lanciarono addosso all'accattone, ma prima ancora che avessero potuto mettergli le mani addosso, si sentirono le gambe impastoiate e precipitarono per terra, mentre dalla via di S. Basilio, da un vicoletto di fronte, dal vano buio di alcune porte, una folla misteriosa si slanciava sui portantini, sugli staffieri, atterrandoli, imbavagliandoli, legandoli, minacciandoli di morte.

Le torce si spensero e le tenebre ravvolsero ogni cosa.

Il principe era balzato anche lui fuori dalla portantina tentando di sguainare la spada, ma altre braccia lo avevano preso stretto, disarmato.

"E inutile, signore," disse a voce bassa un uomo del quale il principe non potè ravvisare il volto; "è inutile ogni resistenza. Guardatevi bene attorno..."

Egli volse lo sguardo in giro; era caduto in mezzo a una vera banda e i suoi uomini ridotti all'impotenza.

"Chi siete? Che cosa volete? Dei denari?"

"Oibò, signore, non siamo ladri!" rispose l'uomo che aveva parlato. "Soltanto abbiamo un incarico da compiere; darle un piccolo avvertimento..."

E chinatoglisi all'orecchio aggiunse:

"Per insegnarle che un gentiluomo, come dovrebbe essere lei, non deve fare assassinare la gente di notte, a tradimento."

Il principe di Iraci ebbe un gesto di orgoglio.

"Badate a quello che dite, e pensate chi sono!..."

L'altro rispose con una risata, e voltosi ai suoi uomini, disse con piglio allegro:

"Su, a voi il "cavallo"!..."

Due uomini robusti rovesciarono il principino, prendendolo per le braccia e per le gambe, e lo posero a cavalluccio di un terzo, tenendovelo addosso, fermo, con le spalle e il deretano scoperti; mentre un quarto, armato di un nerbo di bue, cominciò a stallarlo nelle parti più carnose, contando i colpi fra le risa dei compagni e i ruggiti del principe.

"Una, due, tre, quattro."

Era il castigo che si dava nelle scuole ai ragazzi negligenti o indisciplinati e che talvolta si dava per ignominia ai colpevoli di contravvenzioni; nè ci poteva essere dileggio peggiore e maggiore per un nobile, e per un nobile dello stampo del principe di Iraci.

"Cinque, sei, sette, otto..."

Il principe si dibatteva, ululando, ruggendo; più delle nerbate che frizzavano sulle natiche, poteva la vergogna di quel castigo. Con la bocca piena di schiuma, gli occhi che gli scoppiavano fuori dell'orbita, il volto congestionato, non poteva pronunciare una parola...

Il nerbo cadeva con ritmo uguale, implacabile, fischiando, e la voce contava:

"nove, dieci..."

Gli altri ridevano. La portantina immobile, con lo sportello spalancato pareva aspettasse. Contarono fino a venti.

"Basta" disse quello che pareva il capo; "può bastare."

Deposero per terra il principe, che non dava segno alcuno di vita, e a un cenno del capo tutta quella banda nera e misteriosa dileguò nell'ombra. Questi passando accanto a uno degli staffieri, datogli un calcio, gli disse:

"Tu, carogna, dirai al tuo padrone che questo avvertimento glielo danno i Beati Paoli. Per ora si limitano a questo. Stia quieto, adesso, e lasci in pace il signor Blasco da Castiglione, se non vuole di peggio. Hai capito?"

E se ne andò anche lui, e sulla strada rimasero per terra immobili, sotto l'incubo dello spavento, portantini, schiavi, staffieri, come se sopra di loro incombesse la minaccia di quel nerbo sibilante e formidabile. Poi, dopo una mezza ora, quando nel silenzio notturno non s'udì alcun rumore e parve loro di essere soli, qualcuno sollevò il capo, guardò timidamente, si rassicurò, tentò di spastoiarsi. E così, a uno a uno, si levarono, si liberarono dai lacci, guardandosi intorno, sospettosi e tremando a ogni più lieve rumore; sollevarono il principino che pareva inebetito, lo riposero dentro la portantina e ripresero la strada, al buio, in silenzio, dapprima adagio, quasi in punta di piedi, poi di fretta, come per paura di essere inseguiti.

L'indomani, poco prima di mezzodì, don Raimondo, pregato da una lettera pressante del principino, accorse al palazzo Iraci. Trovò il principe a letto, quasi giallo per un travaso di bile, e con un aspetto che metteva paura.

"Ebbene?" gli domandò premurosamente "Che cosa avete?"

"Le domando perdono se l'ho fatta incomodare, ma come vede non sono in grado di muovermi... Stanotte, signore, sono stato aggredito e percosso... e non si è veduta una ronda!.."

"Aggredito?"

"Sì, nella strada della Bandiera... Vostra signoria è stata eletta Vicario generale contro i malfattori; io le denunzio l'oltraggio di cui sono stato vittima e ne domando soddisfazione. I pari miei possono esigere dal governo una garanzia delle loro persone e del decoro del loro casato."

Parlava con asprezza, e si sentiva all'accento che la bile lo soffocava; il duca, con le sopracciglia aggrottate, a quelle parole altezzose rispose con fredda alterezza:

"È l'amico della vostra casa che avete fatto chiamare o il Vicario generale? L'amico può condolersi di quello che vi è accaduto e mettersi a vostra disposizione, ma il Vicario generale, signor principe, non riceve denunzie e lagnanze che nel suo ufficio, e risponde come crede.

Il principe arrossì, ricacciò indietro la bile, rispose senza umiltà e senza pentimento:

"Ha ragione... sta bene. Le dirò intanto che l'aggressione mi venne dai Beati Paoli, e che essi erano inviati da quel signor Blasco da Castiglione, che era protetto da vostra signoria!"

"I Beati Paoli? Blasco da Castiglione?" ripetè don Raimondo spalancando gli occhi; "Beati Paoli? Blasco da Castiglione? Ma ne siete sicuro?"

"Vorrebbe vossignoria metterlo in dubbio, trovandomi come mi trova?..."

"E che cosa può avere di comune Blasco da Castiglione coi Beati Paoli?"

"Questo io non lo so, e dovrebbe saperlo lei nella sua qualità di Vicario generale: so che essi stessi me l'hanno formalmente e chiaramente detto."

Il duca era rimasto stupito e non sapeva che dire: guardava il principe di Iraci e il letto come un trasognato, ripetendo fra sè: "E che c'entra?".

"Spero" aggiunse il principino con lo stesso tono iroso e fremente di desiderio di vendetta; "spero che il Vicario generale mi vendicherà, e vendicherà in me la nobiltà tutta quanta, offesa da un avventuriero e dai malandrini che formano la sua banda..."

Ma don Raimondo seguiva con la sua mente un pensiero, che gli era nato in quel momento. Non potendo mettere in dubbio le parole del principino di Iraci, confermate purtroppo dal fatto palese delle sue condizioni e costretto quindi a non discutere una relazione segreta fra Blasco da Castiglione e la setta dei Beati Paoli, si domandava se la sparizione del giova ne, nell'attentato di via Lattarini, non fosse stata opera dei Beati Paoli, e in che modo egli era riuscito a mettersi sotto la loro protezione. E pensando al modo brusco e improvviso col quale Blasco si era allontanato da casa sua, dove egli l'aveva accolto appunto per sua difesa personale, si domandava ancora se quell'allontanamento non era stato un effetto della nuova condizione, in cui si trovava quel bastardo del suo sangue, o se la relazione era nata dopo la sua uscita dalla casa della Motta. Il suo occhio investigatore di magistrato cercava di penetrare in questo nuovo mistero, nel quale presentiva un nuovo pericolo per sè. Promise al principino che avrebbe spinto le sue indagini per venire a capo di ogni cosa, ma che occorreva intanto sapere da lui altre notizie, (e accentuò queste parole) sul tentato o consumato assassinio di Blasco da Castiglione; c'era anche del mistero che forse il principino poteva diradare.

"Questo, se è un po' il Vicario generale che lo domanda, è il duca della Motta vostro amico e quasi un po' parente, che lo ascolterà."

Il principino si fece rosso e prese un'aria un po' insolente.

"Di questo non so nulla. Se, come ho inteso dire anch'io, tentarono di assassinare quel giovane, sarà stato per vendetta di qualche sua prepotenza... Un avventuriero come lui..."

"Sarà," mormorò il duca "ma la verità potrebbe venir fuori dal processo, se l'avvocato fiscale avrà buon naso; e allora, caro principe, vi accorgerete che la vostra risposta non è sufficiente per..."

"Che cosa crede vossignoria?"

"Oh, io?... nulla che non rientri nei fatti ordinari della vita, caro giovane amico! Ma forse ne parleremo; cercherò di fare andare per le lunghe il processo, per occuparmi di quello che è accaduto a voi..."

"Che non è soltanto un'offesa a me;" interruppe il giovane, ripetendo un'idea già manifestata, ma sulla quale credeva di insistere "è un'offesa e una minaccia per la nobiltà..."

Purtroppo questo lo sapeva bene anche don Raimondo che, uscendo dalla camera del giovane signore, si imbattè nel principe padre e nel a principessa, i quali, anche loro, con un risentimento che faceva risalire la cagione dell'accaduto fino al re, chiedevano soddisfazione.

"Per bacco! La casa Iraci non è quella di un civile qualunque, e simili affronti non le tollera. Io farò venire le milizie dei miei feudi!..."

Don Raimondo si indispettiva dentro di sè pur serbando apparentemente un contegno dignitoso e riserbato. Se quei signori avessero saputo la guerra che egli sosteneva, per suo conto, contro la setta, non avrebbero gridato tanto e così forte; avrebbero veduto invece l'amarezza che gli traboccava dalla anima.

Quell'avvenimento gli suscitava contro tutto il patriziato; se un colpo di carabina o una stoccata avessero disteso a terra morto il principino, si sarebbe, sì, invocata vendetta dalla giustizia, ma il fatto non avrebbe avuto nulla di disonorevole per la nobiltà. Le bastonate, invece, sovvertivano ogni ordine di classe, erano come una usurpazione di prerogative, che metteva la nobiltà al di sotto e in balia del popolo; il che costituiva un delitto così grave che ogni reclamo e ogni pretesa di soddisfazione, per quanto veemente, era sempre inadeguata.

Don Raimondo si vide dunque vessato da rimostranze e da sollecitazioni e lo stesso capitano di giustizia che aveva veduto, non senza gelosia, affidato a lui il potere eccezionale di purgare il regno dai malfattori, il che, in certo modo, era una diminuzione delle sue attribuzioni, lo stesso capitano di giustizia andò a risentirsi, e a dichiarare che, se don Raimondo non giungeva a dare soddisfazione alla casa Iraci, egli se ne sarebbe infischiato dell'ordine del re, e avrebbe debellato lui la setta.

Il duca non ne potè più.

"Mi meraviglio!" disse: "mi meraviglio che soltanto ora vi sentite capace di debellare i Beati Paoli, quando da parecchi anni sono padroni della città! Io, se non altro, ho potuto e saputo mettere le mani addosso ad alcuni, e scoprire le tracce dei capi. Cosa che voi non potete dire."

Verso sera ebbe una visita di Matteo Lo Vecchio. Il birro si limitò a dire queste parole:

"Stanotte, caccia grossa. Ho bisogno di una ventina di soldati; dei birri non mi fido."

Don Raimondo ebbe un lampo di gioia e gli domandò:

"Ve ne darò quaranta: ma ditemi qualche cosa di più..."

Il birro stette un po' in forse; poi guardandosi intorno, disse:

"Vostra Eccellenza mi permetta che gliela dica all'orecchio."

E quando il duca si chinò, gli bisbigliò più che non disse:

"Credo di avere scoperto un gran segreto della setta e ho attirato in un tranello don Girolamo Ammirata e Andrea. Essi non potranno scappare."

Il duca non potè padroneggiare la commozione.

"Che segreto?" domandò.

"Questo non glielo posso dire ora; glielo dirò quando avrò nelle mani l'Ammirata e il suo compagno. Vostra Eccellenza abbia un po' di pazienza e aspetti. Vostra Eccellenza non dubiti."

Matteo Lo Vecchio aveva una così salda fiducia in quello che diceva e prometteva, che don Raimondo, quando fu solo, sentì il bisogno di abbandonarsi alla sua gioia.

"Ah, finalmente!"