Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte seconda, capitolo 17

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Blasco da Castiglione non fu poco sorpreso, svegliandosi, poco prima di mezzogiorno, di trovare sul tavolino una lettera, sigillata con un'impronta misteriosa: una mano armata di pugnale in atto di vibrare, e intorno il motto: Et iniguitates non prevalebrunt. Aprì con curiosità e lesse con stupore queste righe:

"Signore, voi senza saperlo, rendeste ieri notte un servizio impagabile alla caritta di un innocente. Coloro che vegliano sopra di lui si sentono legati verso di voi da una riconoscenza imperituri. Contate sopra di essi".

Nessuna firma.

Girò e rigirò quella lettera ancora stupito: indi suonò, e al servitore accorso domandò:

"Chi ha portato questa lettera?"

"Che lettera, Eccellenza?"

"Questa che ho qui in mano."

"Nessuno, Eccellenza; qui non hanno portato alcuna lettera..."

"Ma io l'ho trovata sul tavolino."

"Posso assicurarle che da due o tre giorni non giunge qui alcuna lettera e che nessuno è entrato in camera sua durante la sua assenza e mentre dormiva..."

"Diamine! da sola però non sarà venuta. Hai tu veduto mai le lettere camminare sole o volare?..."

"No, di certo."

"E dunque?..."

"Che vuole che le dica, Eccellenza? Quello che io posso affermare nel modo assoluto è che non è venuto nessuno e che non è entrato nessuno."

"Sta bene. Va'!.. no, aspetta: il tuo padrone?..."

"E i! casa, sta aspettando vostra Eccellenza per andare a desinare."

"Vengo subito. Va'!"

Rimase pensieroso. Il mistero che credeva di diradare con le notizie aspettate dal servo, si infittiva, invece, e lo avviluppava. Si affrettò a raggiungere Coriolano della Floresta che nella sala da pranzo lo aspettava.

"In casa vostra," disse celiando, "possono entrare lettere, senza che nessuno le porti?"

"Se hanno le ali, non è necessario che alcuno le porti..."

"Parliamo sul serio. Svegliandomi ho trovato una lettera sul tavolino e nessuno ha saputo dirmi donde sia venuta; il servo, anzi, assicura che nessuno l'ha portata..."

"E una lettera d'amore? Se è di amore, l'avrà spedita Cupido con una freccia..."

"Guardatela voi." Gliela porse. Coriolano diede un'occhiata al sigillo e fece per restituirla, dicendo:

"Con quell'arme e quel motto non è certo una lettera amorosa..."

"Leggetela: sapete bene che non ho segreti per voi."

"Se vi fa piacere..." E Coriolano diede uno sguardo allo scritto.

"Ebbene?" domandò Blasco.

"Ebbene," disse Coriolano, restituendogli la lettera "eccovi dunque in buoni rapporti coi Beati Paoli, ai quali pare che abbiate reso un gran servizio!"

"Io, ai Beati Paoli? Oh!"

"È chiaro."

"E chi lo sapeva?"

"Il che non toglie nulla al fatto..."

"Adesso vi racconterò." Gli narrò tutto quello che era avvenuto la notte scorsa e quello che aveva fatto per un impulso al quale non aveva saputo resistere e se ne doleva ora: non già di avere salvato quei due dall'arresto, ma di essersi reso complice, forse, di uomini che avevano commesso qualche diavoleria.

Coriolano lo ascoltava in silenzio e senza alcuna emozione.

"Avete detto," disse poi "che la casetta assediata era in piazza S. Cosmo?"

"Sì..."

"Allora state tranquillo. Quella è la casa del razionale don Girolamo Ammirata, che non ha commesso nulla ancora per meritare il biasimo dei galantuomini..."

"E allora?"

"Volete dire: perché volevano arrestarlo? Ma... del resto voi gli avevate reso qualche altro servizio..."

"Io?"

"Sì, voi, quando bastonaste i servi del duca della Motta che volevano accoppare il giovane nipote di don Girolamo..."

"Oh!... è quell'Ammirata, dunque?"

"Potrebbe essere l'innocente protetto dai Beati Paoli..."

La conversazione languì. Blasco pensava alla singolarità del caso che di lui, invocato quasi dal duca della Motta per difenderlo dalle insidie dei Beati Paoli, faceva ora quasi un complice loro, contro un atto di giustizia. Ciò che in qualche modo lo metteva in pace con la sua coscienza era il pensiero che quell'atto di giustizia era in. fondo una di quelle tante prepotenze legali con cui si infieriva contro la borghesia e il popolo, e che l'uomo da lui salvato era un innocente. Ciò gli fece nascere il desiderio di penetrare nel segreto di quella società misteriosa, della quale tutti avevano paura; ma una parola di Coriolano diede un altro corso ai suoi pensieri.

"E il vostro viaggio, Blasco?"

Ah, ecco una cosa che era stata quasi sopraffatta da quei nuovi pensieri. Sì, era vero; egli infatti aveva stabilito di partire la mattina, e anche questa volta il cavallo era rimasto nella scuderia aspettando invano. Pure guardò Coriolano con un certo stupore; perché gli domandava del viaggio? Il volto di Coriolano non tradiva alcuna intenzione segreta, tuttavia, dato il suo carattere, quel richiamo poteva parere anche un desiderio occulto che Blasco si allontanasse. Certo non perché fosse stanco della ospitalità datagli. Questa idea non balenò neppure nella mente di Blasco; egli invece pensò che Coriolano dovesse avere qualche segreta ragione di allontanarlo.

In tono di celia gli domandò:

"Avete interesse che io parta?"

Coriolano, con aria distratta e indifferente, rispose:

"Eh, forse sì... Credo che in questo momento vi gioverebbe mutare aria." Blasco aprì gli occhi incuriosito:

"Perché?"

"Non sarebbe, forse, inutile un riavvicinamento con la bellissima donna Gabriella, duchessa della Motta."

"Oh!... che cosa mai pensate!..."

"Diamine! una cosa che vi può giovare."

"Sarebbe?..."

"Credete voi di essere al sicuro dalle vendette della giustizia, dopo quello che avete fatto?"

"Chi volete che sappia che sono stato io?..."

"Ma la giustizia lo saprà, forse; anzi, a quest'ora lo sa..."

"E dopo?"

"Dopo, il signor duca della Motta, Vicario generale con pieni poteri, al quale non siete punto simpatico, vi farà arrestare e gettare in qualche segreta del Castello, come ha fatto con la signora Francesca Ammirata, per non farvene uscire più: e credo che ciò non entri nelle vostre aspirazioni..."

"No, certo."

"Morire in un'impresa, dopo averne mandati all'altro mondo una dozzina, può tollerarsi, ma in una segreta, essere seppellito vivo, marcire lentamente, assistere alla propria agonia nell'impotenza... ciò è orribile, ne convenite?"

"Per Dio! mi fate accapponare la pelle!"

"E si trattasse soltanto di farla accapponare..."

Blasco stette un minuto in silenzio, poi disse:

"Convengo che, se le cose stanno come dite voi, sarebbe più prudente allontanarmi... Ma d'altra parte sapete bene che il pericolo esercita su di me una specie di fascino..."

"Se doveste affrontare un pericolo, dal quale poteste liberarvi con onore, non vi darei il consiglio di partire! Del resto fate come vi aggrada, non vorrei che le mie parole potessero venire interpretate malamente..."

"Oh, no! e per darvi una prova della stima che ho per voi e del conto che faccio dei vostri consigli, li seguirò."

"Benissimo."

"Ma non andrò a Messina, nè vedrò la duchessa..."

"Perché?

"Per tante ragioni: non vorrei avere l'aria di uno che si sia pentito di avere rotto una relazione; non voglio fingere sentimenti che non provo; non voglio cavare alcun utile o vantaggio da un riavvicinamento; tanto peggio, infine, se questo riavvicinamento è una finzione!..."

"Uh! troppi scrupoli. Li lodo, li ammiro, non saprei consigliarvi diversamente, ma soprattutto, caro mio, non bisogna esagerarli... Qualche volta ci vuole politica. E la politica è una scienza, caro mio, che non guarda molto per il sottile nella scelta dei mezzi, ma viceversa assicura un ottimo fine... Se il fine è onesto, e se dal riavvicinarvi a donna Gabriella ne potrà venire la vostra sicurezza, perché volete lasciarvi vincere dagli scrupoli?"

Ma Blasco scoteva il capo:

"No, no!... Non riuscirete a persuadermi. Io non sono fatto per la politica e specialmente per questa politica. Sono fatto per la guerra. Riconosco che voi sareste un ottimo diplomatico, e che il re dovrebbe scegliervi per suo ambasciatore, ma io su questo terreno renderei dei pessimi servizi."

Coriolano della Floresta sorrideva con aria incredula:

"Ogni uomo, in certe condizioni e in date contingenze della vita, è buon diplomatico di se stesso... Ma fate come vi aggrada... e scusatemi se ho insistito. Io non guardavo che al vostro interesse..."

Il discorso finì lì. Blasco pregò Coriolano della Floresta di fargli preparare il cavallo e le provviste per il suo viaggio e anche, se poteva, delle lettere di presentazione e di raccomandazione per qualche signore di sua conoscenza, nelle terre che, durante il viaggio, avrebbe attraversato.

"Vi farò trovare ogni cosa domattina. A che ora contate di partire?"

"All'alba."

"Sarà difficile che ci vediamo; lasciate dunque che vi abbracci ora e che vi dia il buon viaggio e l'arrivederci."

Abbracciò con cordialità Blasco, gli augurò la buona sera ed entrò nelle sue stanze.

Blasco uscì per recarsi dal padre Bonaventura. Come gli fosse venuto in mente di fare quella visita, non lo sapeva dire: forse per una di quelle associazioni latenti, delle quali non si vedono i legami ideali. Il pensiero del suo viaggio aveva richiamato dal fondo della memoria i ricordi della sua prima giovinezza e l'immagine del frate gli era balzata dinanzi agli occhi. Egli si rimproverò d'avere abbandonato quel frate, al quale pure lo legavano le memorie più dolorose e più pietose della sua vita e deliberò di andarlo a visitare.

A quell'ora padre Bonaventura doveva essere nel coro e Blasco, entrato in portineria, si disponeva ad aspettare che i frati terminassero, quando il frate portinaio gli disse:

"Vossignoria viene a cercare padre Bonaventura? Oh! non è più qui."

"Come non è qui?"

"Eh, no; è stato mandato al convento di Caccamo."

Blasco guardò il frate con occhi di chi si trova improvvisamente dinanzi a uno spettacolo impreveduto e sbalorditivo.

"Al convento di Caccamo?" ripetè.

"Signor sì... di Caccamo."

"E da quando?"

"Sono tre mesi..."

"E non mi ha avvertito?..."

"Questo io non lo so..."

"Ma perché è partito?"

"E che vuole che io sappia? Noi frati non domandiamo il perché degli ordini superiori. Un bel giorno troviamo l'obbedienza, e tanto basta. Probabilmente padre Bonaventura non ebbe il tempo di avvertire vossignoria; come oggi trovò l'obbedienza e l'indomani mattina partì."

Blasco uscì dal convento mogio mogio, come uno che torni da una sconfitta, pensando a quella partenza impreveduta e più al silenzio serbato dal frate in quei tre mesi. Veramente egli non si era più fatto vedere dal padre Bonaventura e l'aveva quasi dimenticato; non aveva perciò il diritto di rammaricarsi se non era stato avvertito di quella partenza e se non aveva ricevuto alcuna lettera; pensava anzi che, probabilmente, il frate doveva essere addolorato dalla condotta di lui. Ma avrebbe fatto una piccola diversione nel suo viaggio, seguendo la strada litoranea fino a Trabia e di lì a Caccamo, donde poi, per i sentieri montani fra le Madonie, avrebbe raggiunto la via di Catania.

Questo disegno parve gli mettesse in pace la coscienza, perché si allontanò dal convento con l'aspetto più sollevato e con passo franco. Per la strada andava domandandosi che colpa aveva potuto commettere padre Bonaventura, per meritarsi quella punizione: giacchè l'obbedienza con la quale un religioso era allontanato dal suo convento, equivaleva a una punizione, o per lo meno era il segno che il frate s'era reso incompatibile in quella sede. Ora, che padre Bonaventura avesse avuto da dire o fosse venuto in uggia agli altri frati del convento di Palermo, non era ammissibile, perché gli volevano bene tutti; dunque doveva essere venuto in urto con qualcuno, fuori del convento, e questo qualcuno aveva ottenuto dal padre provinciale quell'ordine di allontanamento. Non trovava altra spiegazione al fatto. E chi poteva essere?

Andava così pensando, quando si sentì salutare:

"Illustrissimo signor cavaliere, le bacio le mani..." Vide un ometto che si sprofondava in inchini, e si guardò intorno per vedere se salutasse altri, non parendogli di potere essere l'oggetto di quei saluti così rispettosi. "Parlate con me, brav'uomo?"

"Come? Vossignoria dunque non mi riconosce più? Sono Michele Barabino... Michele..."

"Ah; toh! siete voi? Non vi avevo riconosciuto!... E così buio..."

"E io devo essere irriconoscibile, lo so..."

"No, anzi!... Perché dovreste essere irriconoscibile?"

"Vossignoria dunque non sa niente?..."

"No. Che cosa v'è accaduto?"

"Guai a palate!... C'è sempre della cattiva gente in questo mondo. O che dice lei, se le dico che mi hanno denunziato al capitano di giustizia per avere favorito la fuga di vossignoria dalla locanda del Messinese?..."

"Ebbene?"

"Ebbene, fui arrestato e chiuso nella Carbonera. E intanto non potendo pagare la pigione perché ero chiuso, mi hanno venduto la roba, e ora, uscendo, vede Vossignoria? Sono povero e nudo come santo Giobbe!..."

"Un'infamia!"

"Oh, povero mastro Michele!... E per causa mia!"

"Che dice Vossignoria!... per causa dei tristi vuol dire, che non mancano mai!... E vossignoria sta bene? Lo vedo, e me ne consolo. Ho voluto fermarla un minuto per salutarla; mi scusi... Adesso me ne vado... Se mai avrà bisogno di me... Non le posso dire di cercarmi a casa, perché non ho casa, ma può andare nella chiesetta di San Bonomo... sa?"

Blasco rivide a un tratto la piccola chiesa dove Michele Barabino l'aveva ricoverato e provò una dolce commozione al ricordo, ma pensò a quel po vero diavolo che scontava così atrocemente la sua generosità.

"Non vi offendete, mastro Michele;" disse mettendogli in mano due scudi d'argento. "Credo che questi possono farvi comodo in un momento così critico..."

Mastro Michele parve riluttante, poi accettò la somma dicendo:

"Non per me, illustrissimo; non per me, che in fine sono un uomo, ma per la mia famiglia..."

"La vostra famiglia? Dov'è la vostra famiglia?"

"Oh, non ne parli... Mia moglie è presso i suoi genitori, i miei figli sono presso gli zii. Uno qua, uno là; hanno trovato un tetto e un pezzo di pane, ma capirà, non è vita... Lo fanno col cuore, sì, non si nega, ma quando si è avvezzi... Basta!... Vede? Mi viene da piangere; ed è una cosa da sciocco. Pazienza!... Buona notte, e le bacio le mani e Dio gliene renda merito..."

Blasco si allontanò col cuore stretto da una specie di doloroso rimorso. Ecco un pover'uomo, che aveva avuto la sua casa, la sua famiglia, il suo mestiere, ed era vissuto tranquillo senza nuocere ad alcuno. Un atto di bontà lo esponeva alla prepotenza altrui, gli toglieva tutto, lo gettava in mezzo alla strada solo, miserabile, abbandonato! E chi lo aveva esposto, involontariamente, alla feroce e inumana rappresaglia, era stato lui!... Gli aveva dato due scudi... Ma quella tenue somma poteva ridare al povero sarto quanto aveva perduto? Avrebbe dovuto rimettergli su la bottega... Ecco il suo dovere. Sì, ma anche lui era povero. Quei due scudi, nei confronti della sua borsa, rappresentavano una generosità pazzerellona.

Continuò a camminare senza direzione, come faceva spesso, un po' triste e pensieroso, guardando intorno a sè. Incontrava di quando in quando una portantina, circondata da fiaccole, che intorno le rompevano le tenebre, e la rivestivano di splendori e di lampeggiamenti d'oro, portata, preceduta, seguita da servi in livree di seta e dentro vi scorgeva un uomo, talvolta un mostriciattolo, tutto scintillante, al lume delle fiaccole, d'oro e di gemme, che si lasciava portare, con l'aria di chi esercita un suo diritto, e al cui passaggio la gente faceva largo. Poi era un'altra portantina, tutta nera, senza torce, senza corteo, umile e oscura, accompagnata da un uomo con lanternino: un medico, pensava; più in là un'altra portantina, tutta nera anch'essa, attorniata di soldati con la baionetta in canna e preceduta da un cavarretta con la lanterna: un arrestato che si portava alla Vicaria o al Castello!... E sempre, qua e là per la strada, all'angolo dei vicoli, fermi e vaganti, seduti sugli scalini o sui paracarri di qualche portone, sdraiati sopra i banchi sporgenti delle botteghe o sopra gli scalini delle chiese vedeva miserabili, seminudi, arruffati, uomini e donne, e più ragazzi e fanciulle, che la miseria disseminava nella metropoli del regno, nelle strade dove i grandi palazzi insuperbivano nelle loro moli. Una vecchia, in un canto, con voce roca cantava qualche storia: quella del cavaliere devoto:

E c'era un cavaleri, mischinu, ca era ciuncu di manu e peri...

La voce tentava a salire oltre il rumore della vita notturna, fino alle case, per sollecitare una elemosina.

'Nsonnu cci accumpariu Sant'Antuninu.

Ahimè, il buon santo francescano non appariva e non consolava che nella leggenda e non verteva quel verminaio miserabile che di notte formicolava nella città. Blasco vedeva talvolta dei ceffi torbidi, nei cui occhi balenava il delitto celarsi quasi nell'ombra dei vicoli, o indugiare sulla Sporta di qualche taverna affumicata: ovvero delle donne senza età, che potevano essere giovani o vecchie, sulle cui bocche il sorriso lascivo pareva una smorfia che metteva ribrezzo. Luride, stracciate, a piedi nudi o sepolti in ciabatte, pure credevano di possedere ancora qualche virtù allettatrice, e di potere eccitare i sensi dei passanti: spettacolo ignobile e raccapricciante. Poi, fragorosamente, come se procedesse fra uno scoppiettio di tuoni, passava velocemente una carrozza e le torce dei volanti e degli staffieri la circondavano di un'aureola, come il cocchio di un nume. La viva luce delle torce gettava uno sprazzo su quella miseria; apparivano volti emaciati, chiome scomposte, vesti a brandelli, che quasi subito l'ombra riavvolgeva e celava.

Più in là ancora, nel silenzio della strada, una donnicciola, ferma dinanzi una edicola, gridava:

"Divoti, la Madonna è al buio!..."

Da qualche finestra cadeva un grano, per comprare l'olio per la lampada della Madonna.

Blasco osservava ogni scena con una disposizione d'animo che lo inclinava alla pietà; tutta quella miseria gli si rivelava sotto un aspetto nuovo, come il prodotto di una società divisa nettamente in due grandi classi, una di privilegiati, sui quali cielo e terra avessero condensato tutti i loro favori, ricca, potente, prepotente, arbitra di fare e disfare, oziosa, impune: olimpo di dei, ai quali tutto era concesso: l'amore, la gioia, la spensieratezza, le belle follie, gettare denaro, mandare la gente in galera, farla bastonare, farla impiccare dai propri giudici o ammazzare dai propri sicari, e alla quale l'elemosina, le messe, i lasciti ai conventi e alle chiese, riserbavano, ultimo privilegio, il paradiso; l'altra, miserabile, oscura, sopraffatta, perduta, rifiuto del cielo e della terra.

Una ronda passava; il caporonda al vedere Blasco si sberrettava rispettosamente; nel tempo stesso, fatta piantare la lanterna sul volto di uno straccione che si avvicinava per chiedere forse un grano, gli dava un calcio, minacciandolo col bastone e accompagnando l'atto con un rimprovero:

"Pezzo da forca! lascia passare il signor cavaliere!"

Era il simbolo di giustizia di quei tempi.

Blasco vagò gran parte della notte, come preso dal desiderio di vedere nella sua realtà la capitale del regno, non quella che aveva veduto fino allora, e che l'aveva attratto e trascinato fra i grandi saloni, tra una società che non aveva i piedi sulla terra dei mortali, ma quella del popolo, quella della miseria e delle sofferenze invisibili e taciturne; quella che non conosceva altro della vita se non ubbidire e servire e che non chiedeva più di un po' di pane di buon peso e di buon prezzo; quella su cui gravava tutto il peso della ricchezza altrui. Ognuna di quelle carrozze e di quelle portantine sfolgoranti di oro e di seta sarebbe bastata a sfamare per un anno una di quelle famiglie di miserabili, su cui gravavano i rigori della legge e l'ignominia e le minacce della Chiesa, i terrori dell'oltretomba; tutta gente che si agglomerava nei vicoli bui, umidi, fra le immondizie ammucchiate, nonostante i bandi, qua e là in piccoli cumuli, fra i rigagnoli dell'acqua sporca, che stagnavano negli avvallamenti del terreno male acciottolato: che viveva senza sole e senza aria nei "catoji".

Vissuto tra i monti, sul mare, pastore, marinaio, corsaro, schiavo, capitano d'arme, vagabondo cavaliere, cortigiano, amante; povero, agiato, in contrasto con tutte le avversità della vita; nato nobile, cresciuto tra i frati, vissuto nel popolo, ritornato fra la nobiltà, non aveva nessuno dei pregiudizi della società aristocratica e nessuna delle bassezze del popolo; aveva temprato il suo spirito, s'era formato una coscienza libera e franca, che gli permetteva di vivere in una piena indipendenza e di giudicare serenamente, secondo un suo criterio personale.

I contrasti che aveva colto camminando, lo avevano invogliato a penetrare nei vicoli: oscuri labirinti, nei quali muggiva il minotauro della miseria e dove nessuno dei suoi pari penetrava per paura e per superbia.

Così gironzolando s'era trovato senza saperlo nella strada del Capo, dinanzi alla chiesa di San Cosmo.

"Toh!" disse fra sè, "ecco la casa di don Girolamo Ammirata. Pensare che a quest'ora quel pover'uomo sarebbe in galera!".

La notte era buia, senza luna e senza stelle. Un lampioncino pendente sul frontone della chiesa di S. Maruzza, dinanzi ad una piccola immagine, diffondeva appena una tenue luce su parte della facciata e lasciava scorgere l'angolo del vicolo adiacente, che si perdeva in una profonda tenebria. La casa dell'Ammirata era lì, con le imposte chiuse, immersa nel silenzio, con l'aspetto delle case vuote; ai ferri d'uno dei balconi pendeva un cencio, forse un fazzoletto abbandonato, che il venticello notturno faceva lievemente sventolare.

Blasco stette un minuto a guardare quella casa. Nella piazza non c'era una anima; erravano soltanto dei cani e dei gatti che talvolta si rincorrevano ringhiando e soffiando. Blasco vide dalla parte di S. Cosmo un'ombra nera andare rasente il muro e sparire nel vicolo contiguo alla chiesa di Santa Maruzza. Poco dopo, un'altra ombra nera anch'essa percorse la stessa strada, allo stesso modo misterioso; qualche minuto dopo, una terza ombra, dalla parte opposta, entrò e sparve nello stesso vicolo; una quarta la seguì.

"Dove diamine vanno?" si domandò.

Quasi nel tempo stesso due ombre gli passarono accanto senza vederlo; egli trasalì, gli sembrò di riconoscerne l'andatura. Un sospetto gli balenò e gli illuminò il volto di gioia. Aspettò ancora; una dopo l'altra passarono e si dileguarono nel vicolo altre ombre; tutte avevano lo stesso aspetto, come di frati e di compagni vestiti di sacco. Non c'era più dubbio; una grande curiosità lo punse: quella di poterli seguire in quel nido tenebroso donde partivano quei moniti, quelle punizioni, quelle vendette che nella coscienza del popolo erano atti di giustizia!... poter sorprendere quella congrega nel feroce esercizio del suo ufficio punitore, ecco ciò che sarebbe stato il suo sogno!

Si pose dietro le peste dell'ultima ombra; era a pochi passi da essa, ed egli non ne staccava gli occhi, ma a un tratto quella sparì, come se il muro l'avesse inghiottita. Sorpreso, allungò il passo; a fior di muro si accorse che c'era una porticina il cui colore si confondeva con quello del muro. L'ombra non poteva essere sparita che di là; tentò di spingere l'usciolo, ma esso non cedette; palpò gli stipiti, il battente, la imposta per lungo e per largo, cercando un segno, un vestigio di serratura. Non c'era neppure un buco. Ma non c'era dubbio che quell'ombra doveva essere entrata di là; altre porte in quel punto non c'erano; c'era un po' più in su un portone, ma egli era sicuro che l'ombra non era arrivata fin là. Per uno scrupolo, volle anche spingervi le sue indagini; non vi era ancora giunto, che udì dietro le sue spalle un rumore sordo. Si voltò bruscamente: due di quelle ombre, balzate fuori non si sapeva donde, gli stavano accanto. Avevano il volto coperto dalla maschera.

"Ah! ah! - pensò Blasco: - ci siamo".

"Signore," disse una dell'e due ombre, "voi siete un gentiluomo, e avete compiuto delle azioni di cui dobbiamo esservi grati. Quello che però fate non è degno di voi. Non crediate di avere scoperto con facilità una traccia: noi sapevamo che voi spiavate dalla piazza e non abbiamo avuto nessuna soggezione di farci seguire, per attirarvi qui. Potremmo farvi sparire, senza che nessuna traccia rimanga di voi. La notte è profonda; il luogo solitario. Sopra, sotto, intorno a voi è il mistero. Cento mani, invisibili a voi, possono farvi sparire..."

Blasco si guardò intorno, rabbrividendo.

"È inutile guardare" continuò l'ombra; "voi non vedreste mai le mani che punirebbero la vostra audacia: come sarebbe vano ogni tentativo di agire contro di noi... Noi veniamo a voi per dirvi questo: "Abbandonate ogni idea di penetrare nel nostro segreto; non è cosa che vi appartiene. Per voi non è che curiosità. Partite. Non vi sarà torto un capello; non abbiamo contro di voi alcuna prevenzione; perché volete diventare nostro nemico? .."

Blasco non sapeva che rispondere: tutto questo gli riusciva così nuovo e inaspettato che non trovava alcuna parola per giustificare la sua curiosità. Perché egli era lì? Che cosa voleva? Che cosa pretendeva? Con quale diritto? Quell'uomo aveva ragione, e le sue parole gli facevano l'effetto di un rimprovero, tanto più acerbo, quanto più la forma era garbata, nella sua severità, e nascondeva quasi una preghiera. Pure provava una specie di dispetto per quello scioglimento inaspettato della sua avventura: avrebbe preferito correre il rischio di morire in un conflitto con quei personaggi misteriosi, anzichè sostenere quel ragionamento che lo feriva senza dargli modo di difendersi. Tentò una risposta.

"Per bacco, signori, non immaginavo di trovarmi di fronte a degli oratori!"

"Perché, forse supponevate di vedervi circondato da assassini?" "Oh, non dico questo ma..."

"Ma presso a poco... Come vedete, invece, non usiamo altr'arma che la parola... E adesso buona notte, signor Blasco..."

Ma Blasco non si mosse: si grattò l'orecchio imbarazzato e, sorridendo, disse:

"E se, per esempio, io non mi arrendessi al vostro invito di andarmene?" L'ombra non fece nessun atto di collera o di stupore e rispose con lo stesso tono:

"Noi vi manderemo via lo stesso, e senza che voi possiate opporre resistenza..."

"Oh! oh!... sarebbe il primo caso..."

"Non per noi..."

"E se volessi tentare la prova?..."

"Ci rincrescerebbe ricorrere alla violenza con voi, signore. Ma vi prego di risparmiarci una conversazione inutile: e poichè dovete partire all'alba..."

"Chi ve l'ha detto?"

"Non v'importa, noi sappiamo tutto; non sarebbe male che andaste a riposarvi..."

Blasco era stupito. Chi era quell'uomo? Come sapeva della sua partenza? Fece un passo innanzi, come per riconoscere dal lampo degli occhi e dalla forma della bocca l'uomo che gli parlava, ma non si era ancora mosso, che si trovò a un tratto avviluppato in una specie di cappa o di manto nero, che lo ravvolse, lo strinse, lo inceppò; egli vi restò preso, impotente a reagire, a muoversi; gli pareva d'avere le membra legate; si sentì sollevato, trasportato via, senza vedere nulla. Attraverso quella ampia stoffa che lo ravviluppava e gli toglieva ogni libertà di movimento, egli non sentiva il contatto di alcuna mano nè udiva rumori di passi. Aveva il senso del movimento e quello di essere librato nello spazio, e null'altro. Se fosse stato superstizioso, avrebbe creduto di essere trasportato dagli spiriti.

Quanto tempo durò quel viaggio? Egli non potè dirlo; sentì dopo qualche tempo che lo deponevano cautamente per terra. Erano stanchi? Erano arrivati alla meta? Aspettò. Sentì suonare gli orologi delle chiese e nessun rumore accanto a sè; solo una volta gli parve di sentire da presso un lungo fiuto, e come il tepore di una bocca vicina, a cui seguì un brontolio ringhioso e un latrare furioso al quale risposero altri cani, più o meno vicini. Blasco ebbe paura di essere morso, senza potersi difendere; cercò di divincolarsi e il movimento spaventò il cane, che non osando avvicinarsi, e non volendo lasciare d'altra parte quella preda ignota e misteriosa, gli girava intorno, abbaiando, e tentando di vibrare qualche zannata. Blasco si difendeva alla meglio, spingendo le gambe. Il cane giunse ad addentare un lembo di quell'involucro e a tirarlo. Si produsse un grosso strappo, che parve a Blasco più che uno spunto di salvezza, un lato vulnerabile. Cominciò a bestemmiare, facendo sforzi disperati, ma in quel punto udì una voce, minacciare i cani.

Blasco ruggì.

"Passa via!... Che diavolo è?.."

"Per la croce di Cristo, toglietemi da quest'impiccio, chè soffoco!"

"Oh! chi v'ha conciato così?.. Aspettate, non vi movete... che diamine... Ma guarda un po' che imbroglio è questo? Gli è come se vi avessero ficcato in una rete... Aspettate, vi dico... Avete fretta! .."

"E perdio!... mi pare d'averne ragione!..."

"SI, capisco... Ma qui ci vuole pazienza. Così, pianino. Ecco fatto...." Blasco balzò in piedi col viso in fiamme, sbuffando, coi pugni serrati guardando intorno a sè. L'uomo che l'aveva liberato da quella rete, lo guardava con grande stupore:

"Vossignoria?..."

Blasco lo guardò; lo conosceva?...

"Come mai Vossignoria si trova fasciato qui dentro come un baco nel suo bozzolo? E l'avevano avviluppato bene, l'avevano!..."

Blasco stese il pugno con gesto di minaccia. Avrebbe potuto perdonare un colpo di spada, ma quello scherzo di pessimo genere, che lo copriva di ridicolo agli occhi di uno sconosciuto, il quale, narrando il caso, avrebbe fatto ridere la città alle sue spalle, gli empiva il petto di collera; una collera tanto più feroce, quanto più impotente. La vergogna di essere stato riconosciuto in quelle condizioni così comiche, era tale, da togliergli anche la coscienza degli obblighi che avrebbe dovuto sentire verso chi lo aveva liberato dall'imbarazzo: anzi, questi gli riusciva odioso, vedendo in lui non un liberatore, ma un testimonio importuno.

"Ascoltatemi," disse; "io non so chi siete; mi avete tolto da quell'imbroglio e vi ringrazio, ma avete avuto il torto di conoscermi e questo vi nuoce... Se dite una parola di quest'avventura, parola d'onore, vi mozzo le orecchie!..."

L'uomo diede in una sonora risata, che sconcertò Blasco.

"Vossignoria dunque non mi conosce?"

"Chi siete?"

"Sono il Messinese, il padrone della locanda che ebbe l'onore di alloggiare Vossignoria..."

"Voi?... Difatti... V'ha mandato Dio!..."

"Vossignoria può dunque stare tranquillo che dalla mia bocca nessuno saprà la più piccola cosa... Bisognerebbe però che questa raccomandazione si faccia anche a coloro che lo imballarono a cotesto modo. Vossignoria vuole che io l'accompagni?"

"Grazie, brav'uomo, non occorre..."

"Allora, buon dì... A momenti è l'alba. Vado a Termini a comperare dell'olio per la mia locanda. Dei sensali non mi fido... Se occorre qualche cosa a Vossignoria..."

"Grazie! grazie!"

Il Messinese gli fece una bella riverenza e si allontanò di fretta intanto che Blasco, mortificato, mordendosi le labbra per il dispetto, prese la strada di casa: ma invece di salire su in camera e di vedere Coriolano della Floresta, entrò nella scuderia e sellò il cavallo.

Albeggiava, quando il selciato del ponte dell'Ammiraglio risonò sotto l'unghia ferrata del suo cavallo.

Dinanzi a lui trotterellava un asinello.

"Toh! - disse Blasco fra sè; ecco il Messinese che va a Termini".