Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte seconda, capitolo 19

Italiano English

Quel Messinese era un uomo così piacevole, e sapeva tante curiose storielle delle famiglie nobilesche di Palermo, che Blasco invece di fermarsi a Trabia, tirò innanzi fino alla prossima città di Termini. Si erano fermati qualche ora, a mezza strada, nel fondaco della Milicia, per dare la biada alle bestie e prendere un boccone; e ciò aveva ritardato un po' il viaggio, cosicchè giunsero a Termini, andando di passo, poco prima dell'Ave.

A Trabia, Blasco voleva fermarsi per imboccare il sentiero che conduceva a Caccamo, ma il Messinese lo persuase a pernottare a Termini.

"Vossignoria viaggerebbe di notte, e giungerebbe di notte a Caccamo; invece, se pernotta a Termini, questa le offre maggiori comodità, perché ci sono fondachi grandi; potrebbe partire domattina per Caccamo. Da Termini ci si va in poche ore."

Il Messinese diceva bene e Blasco si lasciò persuadere. Smontarono a un fondaco, che per i tempi, poteva anche passare per una locanda, disponendo di qualche camera ariosa ed avendo accanto, come una appendice naturale, un'osteria.

Poco innanzi la mezzanotte il Messinese, che dormiva nella stessa camera di Blasco sopra un pagliericcio, si svegliò e tese l'orecchio.

"Qualcuno deve essere arrivato; - pensò, - per bacco, è così tardi!... Ecco un viaggiatore che ha fretta".

Udì il fondacaro dire:

"Sua Riverenza perdoni, ma bisogna che s'aggiusti alla meglio; sono arrivati due viaggiatori... uno è un cavaliere e hanno occupato la camera... Le accomoderò un letto qui..."

"Non importa, non importa... Ripartirò all'alba. Se fossi arrivato più presto, sarei andato al convento di San Domenico qui vicino, ma non ho voluto disturbare quei frati."

Dissero qualche altra parola; il Messinese pensò: "È un prete".

E si riaddormentò. All'alba Blasco, si levò per partire, e fece sellare il cavallo: il Messinese si levò anche lui.

"Stanotte," disse "è arrivato un altro viaggiatore e partirà adesso; dev'essere un prete. Quella sarà la sua mula."

Indicò una mula robusta che il mozzo stava sellando. In quel mentre, discese nella stalla un abate, che dato uno sguardo intorno e veduto Blasco, non potè padroneggiare un lieve moto di stupore. Il Messinese lo guardò a sua volta con una espressione di meraviglia, che ben tosto celò sotto la più perfetta indifferenza, ma si capiva che era preso da una grande curiosità e da un vivo desiderio di parlare. Intanto che aiutava Blasco a montare a cavallo e lo accompagnava fuori del fondaco, gli disse rapidamente e a voce bassa:

"Vossignoria non si volti, e finga di non ascoltare. Sa chi è quell'abate?"

"Io? no..."

"Matteo Lo Vecchio, il capo degli algozini..."

"Oh!.."

"Se è travestito a quel modo, vuol dire che ha qualche cosa grossa per le mani..."

"Per bacco! Vorrei vederlo bene...."

"Adesso ci fermeremo col pretesto di congedarci, e vossignoria lo vedrà passare; egli ci viene dietro."

Si fermarono infatti; il Messinese disse forte: "Dunque, Eccellenza, buon viaggio; io mi fermerò qui tutto domani; se tornerà stasera, avrò il piacere di servirla..."

"Oh! non mi tratterrò che qualche ora. La via non è lunga... Addio..."

"Bacio le mani a vostra Eccellenza."

Matteo Lo Vecchio, passando dinanzi a loro affettò una perfetta indifferenza, ma con la coda dell'occhio guardò Blasco, e si capiva che il suo orecchio raccoglieva con attenzione le parole. Blasco se lo fissò in mente. Il Messinese per mostrare che non lo aveva riconosciuto lo salutò, come usavasi incontrando un religioso:

"Vossignoria mi benedica."

Quando Blasco svoltò per la strada che conduce a Caccamo, Matteo Lo Vecchio, il quale s'avviava per la discesa del Caricatore, che conduceva al mare ed a Porta Messina, si voltò per vedere quale strada avrebbe fatto il giovane.

"Di là si va a Caccamo, a Ciminna. Se ha detto che la strada è breve, il paese più vicino è Caccamo... che diavolo va a fare a Caccamo? Non sarebbe inutile tenerlo d'occhio, quest'altro bel messere... E certo che fra lui e lo Ammirata c'è qualche cosa. Sarà anche lui un Beato Paolo?... Tornerà stasera... Bisognerebbe fare cantare il Messinese".

Stette un po' in dubbio, poi presa una risoluzione subitanea, smontò e alzato un piede della mula, con un coltello lo sferrò, indi col ferro in mano, e tirandosi dietro la mula ritornò al fondaco con un volto di rincrescimento e di dispetto.

"Ma guardate un po' le cose che capitano quando uno ha fretta!" esclamò, mostrando il ferro al mozzo. "Fatemi il favore di accompagnare la mula da un maniscalco."

Le tolse le bisacce, le posò sopra un banco e vi sedette accanto, mentre il mozzo prendeva le redini della bestia e s'avviava alla vicina bottega del maniscalco. Il Messinese stava dinanzi la porta del fondaco, guardando contro la luce una caraffina d'olio e parlando con un ometto piccolo e ossuto, con un viso volpino.

"Olio?" domandò Matteo Lo Vecchio.

"Olio," rispose il Messinese.

"Buono?"

"Così, così..."

"Che dice? Eccellenza, prima qualità!" corresse l'ometto dal viso volpino.

"E sua Riverenza è già di ritorno?" domandò a sua volta il Messinese, assaggiando l'olio con uno scoppiettio di labbra.

"Ma che!... incidente di viaggio: mi si è sferrata la mula..."

"Guarda, guarda!"

Tornò il mozzo.

"Sua Riverenza, il maniscalco dice che il ferro è rotto, e anche gli altri tre sono guasti e che li perderà per via. Dice che è meglio rimetterli tutti e quattro..."

"Ladro!" pensò indignato Matteo Lo Vecchio. E disse forte: "Guasti? Ma se sono buoni!... Oh santo cielo, ci voleva quest'altra!... Va', digli che si sbrighi!"

Fingeva di rammaricarsi; quella che veramente era una frode gli dava modo di indugiarsi un poco di più. Si volse al Messinese e disse:

"Avete veduto quello che capita a uno che ha fretta?"

"Pazienza, padre abate!... Andava lontano?"

"A Messina..."

"Toh! io sono messinese."

"Davvero? Allora potete indicarmi qualche locanda..."

"Non è che questo? Sua Riverenza può smontare alla locanda del Gigante, dietro il Duomo. Troverà un letto pulito..."

"Grazie..."

Lasciò passare un minuto e disse:

"Meno male che a quel cavaliere non è accaduto nulla... Dove va? Lontano?"

"Oh no, a Caccamo... da un prete di S. Francesco..."

"Tre ore di strada, andando di buon passo... Bel giovane; come si chiama?"

Il Messinese pensò:

"Vecchia volpe, tu vuoi vedere se io so i fatti del signor cavaliere: tempo perduto!".

Questo pensiero fu così rapido, che non ritardò la risposta:

"Non lo so. Ci siamo incontrati per via."

A sua volta, Matteo Lo Vecchio pensò: "Tu menti, birbone; tu lo conosci bene, perché il signor Blasco smontò alla tua locanda. E se menti vuol dire che c'è qualcosa sotto. Occhio, Matteo!".

Rispose forte:

"Qualche volta l'ho incontrato a Palermo... Non ricordo dove... Ma certo l'ho incontrato..."

"Lo credo bene" pensò il Messinese.

"E quel padre francescano è suo parente?"

"Non lo so" rispose il Messinese con aria ingenua.

Matteo Lo Vecchio si morse le labbra, dicendo mentalmente:

"Tu sei un briccone matricolato; ma l'hai da fare con me...".

Aspettò in silenzio che gli riportassero la mula; rimontò a cavallo e, salutato il Messinese, riprese la via, ma invece di scendere per la strada del Caricatore, svoltò verso il Castello, che sorgeva formidabile, minaccioso, sopra la rupe a picco sul mare e dominava le due parti della città: l'alta e la bassa. Il ponte levatoio era abbassato; egli domandò del castellano, e gli mostrò l'ordine del Vicario generale. Un quarto d'ora dopo, un soldato partiva a spron battuto alla volta di Caccamo.

Verso sera Matteo Lo Vecchio sapeva che Blasco da Castiglione era andato a visitare padre Bonaventura; ma non più di questo. Siccome non era più tempo di mettersi in viaggio, perché sopravveniva la notte e le vie non erano sicure, egli pernottò nel Castello; Blasco, invece, ritornato da Caccamo, smontò nel fondaco dove il Messinese, che l'aspettava, l'informò del tentativo di spionaggio. Blasco ascoltò con mediocre interesse: egli era ritornato un po' triste dalla visita al padre Bonaventura, avendo trovato il buon frate a letto, consumato da un dolore silenzioso. La visita inaspettata del giovane gli fece brillare sul volto un lampo di gioia.

"Che Dio sia benedetto, temevo di morire senza vederti mai più!..."

"Perché morire? Che dice lei?"

"Sono partito così improvvisamente e inaspettatamente!..."

"Il torto è stato mio, che non mi sono fatto più vedere..."

"Non lo dire; forse anch'io ho avuto torto... Mi sono lusingato, e invece..."

"Lusingato di che?"

"Oh nulla, so io quello che dico. Non parlo di te, ma gli uomini non sono mai quello che paiono e che si crede che siano."

"Ma perché è partito lei?"

"Lo sa Iddio!"

Blasco capì che il padre Bonaventura desiderava serbare il segreto sulle ragioni del suo trasferimento da Palermo a Caccamo e non insistette; ma aveva abbastanza stima del frate, per credere che avesse potuto commettere un'azione riprovevole: non dubitò dunque che fosse stato vittima di qualche prepotenza. Prima che egli se ne andasse, il padre Bonaventura gli disse:

"Io non so, figlio mio, se ci vedremo mai più; ma se morrò, pregherò che te ne avvisino, e allora, ascoltami bene, soltanto allora recati dal Padre Maestro di San Francesco, fra Serafino di Montemaggiore; egli ti rimetterà qualche cosa da parte mia."

Blasco se ne andò commosso, dopo di avere abbracciato e baciato il vecchio frate, e ritornò a Termini sopraffatto da tre pensieri: le ragioni misteriose che, avevano relegato il frate, il suo stato di deperimento, quella "qualche cosa" che gli doveva essere rimessa dopo la morte del frate; e tutte e tre le cose, con la loro aria di mistero, lo empivano di tristezza. Egli pensò che, se padre Bonaventura fosse stato restituito al suo convento di Palermo, forse sarebbe guarito; e che se egli avesse potuto ottenergli questo, avrebbe pagato una piccola parte del suo debito verso uno dei suoi benefattori.

E allora gli tornò alla mente il consiglio di Coriolano della Floresta:

"Andate a Messina, e vedete la duchessa".

Forse l'avrebbe fatto non certo per sè, ma per il povero frate.

All'alba egli partì per Messina. Non era ancora uscito dalla porta della città, che, nella penombra, dinanzi a sè vide l'abate trotterellare sulla sua mula, seguito da due compagni d'arme della compagnia rurale di Termini.

"Ecco il birro, - disse fra sè: che vada anch'egli a Messina? Per bacco! ecco un compagno di viaggio che stuzzica il mio appetito".

E fingendo di non sapere chi fosse, diede una spronata al cavallo e raggiunse la comitiva.

"Buon dì, signor abate!... Non credevo di incontrarla, perché la supponevo in viaggio da ieri."

Matteo Lo Vecchio, che sorpreso si era voltato alle prime parole, non potè dominare un sentimento di pia cere alla vista di Blasco. Rispose cortesemente:

"Ho dovuto trattenermi... e vossignoria va a Cefalù?"

"Più lontano, signor abate: vado a Messina."

"Toh! ecco una coincidenza fortunata. Anch'io vado a Messina."

"Allora, se non le spiace, faremo il viaggio insieme..."

"Ma con tutto il piacere... Io però viaggio a piccole tappe; le strade sono poco sicure, per quanto io, volendo, possa farmi accompagnare, come vossignoria vede..."

Cavalcavano accanto; uno dei due compagni d'arme, ora che entravano in aperta campagna, percorrendo la strada lungo le falde del monte S. Calogero, alto e minaccioso nido di banditi, s'era posto alla testa, con lo schioppo attraverso l'arcione, l'altro alla coda, tenendo così in mezzo i due viaggiatori, che si scambiavano complimenti, come due brave persone che si vedono per la prima volta.

Matteo Lo Vecchio credeva fermamente di non essere conosciuto, e confidava in questa sua credenza per circuire il giovane, e strappargli qualche confessione; Blasco a sua volta stava in guardia da un lato, e dall'altro si proponeva di appurare che cosa il birro andasse a fare a Messina. Chiacchierando, in una continua schermaglia che finì per insospettirli l'uno dell'altro, compirono la prima tappa a Cefalù, dove Matteo lo Vecchio licenziò i due compagni d'arme, giacchè fino a Patti si sarebbe fatto scortare dai compagni della compagnia di Cefalù.

La mattina dopo, infatti, la scorta era bella e pronta sulla porta del fondaco, ma Blasco notò che questa volta i compagni erano quattro.

"Benone! - disse fra sè; - l'abate o ha paura di me, o pensa a qualche magagna. Meno male; avrò un diversivo nel viaggio".

L'abate però non c'era. Il fondacaro disse che era andato a baciare la mano al vescovo, ma Blasco lo scorse in fondo a un vicolo, dalla parte opposta al vescovado, che parlava con una specie di vetturale, fermo dinanzi al cavallo.

"Quello non è certo il vescovo, nè il suo segretario" pensò Blasco, fingendo di non vedere nulla.

Montarono a cavallo e ripresero il viaggio, che continuò per parecchie ore, senza alcun incidente. A una di quelle osterie perdute fra i monti, che in quei tempi si incontravano qua e là lungo le strade per riposo dei viaggiatori e dei vetturali, si fermarono per rifocillarsi. Blasco notò che Matteo Lo Vecchio tutte le volte che smontava, si portava appresso le bisacce e se le teneva fra le gambe e la notte, nel fondaco, se le era poste per guanciale.

"Il briccone ci avrà il suo tesoro; - pensò Blasco; - un tesoro fatto delle lacrime altrui".

Neanche ora, che s'erano fermati dinanzi all'osteria e avevano le bestie a portata di mano, Matteo Lo Vecchio aveva lasciato le bisacce. Per bacco! ci dovevano essere gioielli preziosi per custodirle con tanta gelosia! Gli stessi compagni d'arme guardavano ora le bisacce con occhi cupidi, e mormoravano fra loro.

Ripresero il viaggio questa volta in silenzio, come se ognuno seguisse un corso di pensieri. Andavano di buon passo, lasciandosi a destra S. Stefano di Camastra; penetravano ora fra le alte boscaglie che si stendevano per tutte quelle spiagge, scendendo dai contrafforti e dai colli delle Madonie. Quei boschi erano tagliati nella buona stagione da carbonai, che vi accendevano le loro cataste; gente nera come fantasmi, che sul cadere del giorno, aggirandosi fra le carbonaie dal fumo rosseggiante, accrescevano l'orrore dei boschi. Si narravano storie di bandi ti che consigliavano i viaggiatori a non avventurarsi e a fare giri più larghi, ma più sicuri.

Per sicurezza e per impedire che, viaggiando in gruppo, qualcuna delle tante bande di ladri che scorrevano le campagne potesse coglierli e circondarli, Blasco aveva ordinato la stessa marcia strategica, compiuta prima; mandò innanzi, di una cinquantina di passi, due dei compagni d'arme, in avanguardia; gli altri due a venti passi, dietro a lui e a Matteo Lo Vecchio, che procedevano in mezzo. Nel caso che dei banditi si trovassero appiattati, sarebbero stati scoperti dall'avanguardia, e in ogni modo quella marcia a piccoli gruppi avrebbe posto gli altri gruppi nella condizione di poter soccorrere il gruppo assalito.

Così entrarono nella boscaglia per un sentiero segnato dagli animali. I cavalli tendevano l'orecchio e di quando in quando emettevano dei lievi e corti nitriti; sotto i loro ferri, i ciottoli rotolavano o scintillavano; sopra le loro teste qualche fruscio attraversava come un guizzo i rami.

A un tratto i due compagni di testa si fermarono, si voltarono e tornarono indietro di alcuni passi. Blasco e Matteo Lo Vecchio insospettiti trattennero i loro cavalli; ma i due compagni, improvvisamente, spianarono i fucili contro di loro e fecero fuoco. Fu un lampo, ma bastò a Blasco, che fu lesto a prevenire il colpo e lasciarsi cadere giù da cavallo e, approfittando della confusione, cacciarsi nel bosco. Ma Matteo Lo Vecchio non ebbe la stessa presenza di spirito; ed egli lo vide, urlando, precipitare giù con tutta la sua cavalcatura, in un fascio. Allora, con grandi grida, i due compagni gli corsero sopra per finirlo, ma Blasco, coperto da un tronco, fu lesto a sparare il suo fucile e ad atterrare uno dei malandrini. Tutto ciò si svolse con tanta rapidità, che ancora, attirati dai colpi, i due della retroguardia non avevano avuto il tempo di sopraggiungere. Il soldato rimasto vivo capì che non c'era tempo da perdere, e che se Blasco avesse ricaricato il fucile, o tolto dalle fondine una pistola, egli sarebbe perduto; e allora, chinatosi, strappò dalla sella di Matteo Lo Vecchio la bisaccia che aveva destato tanta cupidigia e, gettandola ai due compagni di arme che sopravvenivano, gridò:

"Portatele via! portatele via... Io "mi faccio" l'altro!..."

I due compagni presero la bisaccia, sorpresi, non sapendo ancora che fare, mentre Matteo Lo Vecchio tentando con sforzi sovrumani di liberarsi della mula ferita, che gli rantolava sopra, gridava disperatamente:

"La mia bisaccia!... la mia bisaccia!"

Blasco aveva già capito che i malandrini, fiutato un grosso acquisto, avevano tentato di assassinare il falso abate, per derubarlo; un tale atto di malandrinaggio non era insolito ai compagni d'arme di quel tempo, reclutati quasi sempre tra la schiuma dei ribaldi, perché, quando potevano essere sicuri dell'impunità, riversavano il delitto sui banditi. L'urlo del falso abate lo aveva commosso. Che fare? I compagni erano tre, e il quarto era ferito, ma poteva, trascinandosi, diventare anche una forza; egli era solo; e quei ribaldi avevano ora tutto l'interesse di sbarazzarsi di lui, unico testimonio del loro delitto, senza dire che avrebbero ucciso anche quel povero abate che pareva non potesse rialzarsi. Abbracciò con uno sguardo la posizione sua e quella dei tre compagni d'arme. Il sentiero era piuttosto angusto, e la mula di Matteo Lo Vecchio lo sbarrava; il suo cavallo, fermo dinanzi agli alberi, gli faceva quasi da barricata; l'altro cavallo, quello del mi lite ferito scalpitava lì presso e ostruiva il passo un po' più in su. Blasco dunque era protetto dagli alberi e da quei corpi. Chi si trovava esposto veramente era il falso abate, che un colpo di fucile poteva spacciare. I tre compagni d'arme non potevano per il luogo angusto manovrare liberamente tutti insieme, ma uno alla volta; così che Blasco, in realtà, non aveva dinanzi a sè, che un nemico.

Questo esame fu affare di un secondo. Intanto che il compagno d'arme cercava di scoprirlo al suo fucile, Blasco trasse dalla fondina del suo cavallo una di quelle pistole d'arcione che avevano il tiro lungo quasi quanto uno schioppo e, presa la mira fece fuoco. Il compagno d'arme colto in bocca, non ebbe neppure il tempo di gemere e precipitò giù con un fiotto di sangue; il suo cavallo sgomentandosi al lampo della pistola rinculò, si gettò sopra i cavalli degli altri due compagni, vi recò disordine e confusione. Blasco ne approfittò; presa l'altra pistola si gettò fra gli alberi e sparò di nuovo: l'altro compagno girò su se stesso con una spalla fracassata, piegandosi sul suo cavallo che, già adombrato, si mise a fuggire fra gli alberi. Non v'era che il quarto; Blasco sguainò la spada e gli si precipitò contro, ma quello, visti già i suoi tre commilitoni per terra, preso da una pazza paura di morire, e avendo in potere suo la bisaccia preziosa, volse il cavallo furiosamente, e lo spinse al galoppo.

"La bisaccia!... Porta via la bisaccia!" urlò Matteo Lo Vecchio che aveva seguito con ammirazione, ansia, spavento, lo svolgersi rapido, drammatico, ernico di quella scena.

Blasco non aveva posto tempo in mezzo; tolte le pistole dagli arcioni di Matteo Lo Vecchio, era balzato sul suo cavallo, inseguendo il malandrino, che gli fuggiva dinanzi e gridandogli:

"Ferma! ferma!..."

Correvano attraverso la boscaglia, senza mèta. Il compagno d'arme pareva avesse la morte alle calcagna: a ogni sentiero che gli si apriva dinanzi vi lanciava il cavallo, non d'altro curante che di sottrarsi all'inseguimento, ma Blasco non lo perdeva di vista; egli aveva davvero un generoso animale, che guizzava come un ginnetto, saltando gli ostacoli, rovesciando, spezzando rami. La sua testa distava dalla groppa del cavallo del milite quasi una mezza lunghezza; allora il milite si gettò di fianco e spianò il fucile. Blasco si chinò, la palla gli portò via il cappello; a sua volta alzò la pistola che aveva in pugno e tirò contro il compagno d'arme, ma il colpo fallì; allora gli gettò sopra il suo cavallo, tirandogli una stoccata. Il milite si lasciò cadere da sella, non potendo altrimenti parare il colpo e Blasco smontato anche lui d'un salto, gli si lanciò addosso come una furia e gli passò la gola con un colpo di spada.

Quegli cadde, contorcendosi e rotolando. Blasco lo guardò per un istante con una espressione di dolore, poi forbì la spada sulla sella, prese la bisaccia che era caduta, la mise attraverso l'arcione del suo cavallo, che fremeva spumeggiando, e carezzatolo, rimontò in sella. Era stanco e non sapeva più dove fosse, e intanto imbruniva.