Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte seconda, capitolo 20

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Dov'era l'abate? Da che parte poteva andare per ritrovarlo? Quella corsa, per quanto non fosse durata che pochi minuti, era stata così pazza e così scomposta, che Blasco non aveva potuto segnare nella sua mente alcuna particolarità, per riconoscere la via del ritorno. Vagò un poco a casaccio; poi si fermò, guardando una rete di sentieri o di varchi aperti fra la boscaglia, i quali offrivano tutti l'immagine di essere stati percorsi e sconvolti, e forse raggirandosi fra gli alberi, essi vi erano passati e ripassati per ogni dove. Quale prendere?

Stando così, come pensoso, gli occhi si fermarono sulla bisaccia di Matteo Lo Vecchio. Un dubbio gli attraversò la mente. Egli era sicuro di avere recuperato ciò che più interessava al birro, quello che egli supponeva fosse il tesoro. Palpò di fuori e gli parve che non vi fosse nulla di duro o di resistente sotto la mano. Un sacchetto di denari si sarebbe riconosciuto, invece pareva che nella bisaccia non vi fossero che panni.

"Che i malandrini abbiano tolto il denaro?"

Allora cacciò le mani dentro, frugando fra i panni. Sentì qualche cosa, come uno spigolo; palpò meglio e cavò dalla apertura un involto di tela: un fazzoletto a colore, dentro il quale era un oggetto rettangolare. "Sarà questo il tesoro?"

La curiosità lo punse. Svolse il fazzoletto e trovò il plico che Matteo Lo Vecchio aveva accuratamente ravvolto in un nuovo foglio di carta.

"Guarda! - disse fra sè; - vuoi scommettere che qui dentro c'è il segreto del travestimento e della missione di Matteo Lo Vecchio?".

Per un istante stette fra il sì e il no: in fondo quel segreto non gli apparteneva; ma, e se il sorprenderlo poteva salvare qualcuno? Matteo Lo Vecchio era lo strumento della giustizia, specialmente contro i Beati Paoli, e andava a Messina dopo il tentativo dell'arresto dell'Ammirata, mandato a vuoto appunto da lui, Blasco. Rigettò ogni scrupolo e sciolse la cordicella che legava il plico.

Giammai lo stupore e l'orrore hanno avuto una espressione così profonda come l'ebbero sul volto di Blasco, in quel momento e in quell'ora solenne del crepuscolo, nel silenzio del bosco. Ripose quelle carte nel foglio, le rilegò con la cordicella, le avvolse nel fazzoletto; ma invece di rimetterle nella bisaccia di Matteo Lo Vecchio, le cacciò dentro il giustacuore: poi spronò il cavallo alla ventura.

Matteo Lo Vecchio intanto era arrivato a liberarsi del cavallo e s'era alzato, tutto pesto e indolenzito, incapace di muoversi. Era solo; intorno a lui v'era la mula che gemeva, un milite ferito che bestemmiava e cercava di trascinarsi, e un morto col volto spaventevolmente intriso di sangue. Più in là, fra le radici contorte di un albero, giaceva un altro milite, immobile, privo di sensi. Il birro guardava quello spettacolo di sangue pensando al pericolo che aveva corso e provando una collera sorda e velenosa contro quella canaglia. Intanto Blasco non ritornava; egli udì i due colpi lontani, quasi soffocati dal folto dei rami, ma aspettò invano. Aveva Blasco ricuperato la bisaccia? Era caduto? Una viva apprensione lo tormentava e gli accresceva il veleno contro quei banditi, nei quali aveva posto fiducia e coi quali contava di fare un colpo sopra Blasco. La fortuna, invece, aveva invertito le parti; quei malandrini avevano tentato di assassinarlo, gli avevano rubato la bisaccia, ed egli, almeno fino a quel punto, doveva la vita a Blasco!... Ma intanto Blasco non veniva.

Il compagno d'arme ferito cercava di trascinarsi fino a lui; gemendo per una piaga, potè proferire una preghiera:

"Sua Riverenza... per pietà!... Sono cristiano!... Sacramenti! Sacramenti!.."

Allora la collera del birro traboccò:

"Ah, cane!" gridò: "hai il coraggio di domandarmi i sacramenti?.. Te li darò io i sacramenti!..."

E fatto uno sforzo, trascinando la gamba indolenzita, si chinò per terra, raccolse il fucile del morto e avvicinatosi al milite ferito, che lo guardava con lo spavento negli occhi, gli bruciò le cervella a bruciapelo, dicendo:

"Toh! questo è lo Spirito Santo, pezzo da forca!.."

Quel colpo orientò Blasco; poco dopo giunse sul luogo, accolto con un grido di gioia da Matteo Lo Vecchio che già disperava.

E quasi subito aggiunse:

"Ah, sia lodato Dio! Eccovi!..." "Ebbene?"

Blasco tolse la bisaccia dall'arcione.

"Ecco la sua bisaccia..."

Matteo Lo Vecchio stese le braccia vivamente, scordando quasi il dolore della gamba.

"Ah!.."

Corse con la mano dentro la tasca, frugò, e ne la ritrasse con un urlo disperato di dolore e di spavento:

"Rubato! Rubato!..."

"Cosa?" domandò Blasco, fingendosi sorpreso; "Cosa?"

"Le mie carte!.. le mie carte!... le mie carte!" urlava il birro, percotendosi le cosce coi pugni.

Blasco diceva dentro di sè: "Latra quanto vuoi, cane che sei! le carte si trovano a buon posto adesso. Oh, come ho fatto bene a levartele e a toglierti il mezzo di commettere qualche altra birboneria!".

Matteo Lo Vecchio pareva inconsolabile; il dolore lo rese spietato e feroce. Un impeto di odio inumano e sacrilego lo prese contro i cadaveri che lo circondavano.

"Per colpa vostra! Per colpa vostra!..."

Prese il fucile per la canna e fece atto di percuotere quei corpi sanguinosi. Blasco impallidì; gli gridò:

"Ah perdinci! Questo non lo farete, o vi ammazzo come un cane!..."

Il birro si lasciò cadere le braccia per la paura.

"Vergogna!" disse Blasco. "Coteste sono viltà che neppure i selvaggi commetterebbero! e con cotest'abito poi!"

"Che volete? Voi non sapete quello che mi hanno portato via; non potete saperlo!..." Se lo sapeva!... Ma intanto annottava.

"Non vogliamo passare la notte qui nel bosco," osservò Blasco.

Aveva ragione. C'era lì, che rosicchiava le foglie di un pruno, uno dei cavalli abbandonati dai compagni d'arme. Blasco lo prese, aiutò Matteo Lo Vecchio a montare, e ripresero la via. Dopo più di un'ora giunsero a S. Agata di Militello, dove passarono la notte.

Fino a Messina non accadde alcun incidente. Matteo Lo Vecchio, inconsolabile per la perdita fatta, s'era chiuso in un silenzio cupo e sospettoso. Egli si domandava che cosa avrebbero fatto quei malandrini di quelle carte, che per loro non avevano certamente quella importanza che avevano per lui. Dov'erano a quell'ora? Le avevano distrutte? Si pentiva di non averle seppellite sotto l'altare di S. Antoniello, come aveva divisato, credendo più sicuro portarle con sè: e invece!...

E quel Blasco che pure aveva fatto prodigi, ne conveniva, e l'aveva salvato, come mai era stato così imbecille da farsi portare via quel tesoro? Come mai non si era accorto che quei bricconi avevano tolto dalla bisaccia qualche cosa? Così valoroso e tanto imbecille, dunque?

La stizza gli empiva la bocca di amarezza anche contro il giovane suo salvatore. Salvatore? Fino a un certo punto; perché in fondo egli aveva difeso se stesso, per non rimanere accoppato da quei briganti. Ah!... appena posto piede a Messina, avrebbe fatto una relazione dell'accaduto e voleva un po' vedere se gli avrebbero dato soltanto buone parole.

Ma intanto quelle carte!... Di quando in quando domandava a Blasco:

"Ma non avete veduto se aveva le carte quel bandito?"

"No, del resto che ne sapevo io? Mi aveva detto che le premevano le carte? Lei gridò solo per la bisaccia ed io mi sono adoperato per riportargliela..."

"Ma santo Dio! ne avete uccisi tre, come mai vi siete lasciato sfuggire il quarto... proprio il quarto!..."

"Che vuole che le dica? Aveva le ali e non potevo corrergli dietro per tutta la notte. Del resto, dal momento che gli avevo tolto la famosa bisaccia, che ragione avevo di inseguirlo?"

Erano le sole parole che si barattavano ogni tanto, durante il viaggio. Veramente a Matteo Lo Vecchio era balenato il sospetto che Blasco avesse potuto trafugare le carte. Non era egli in rapporti coi Beati Paoli? Non aveva fatto bastonare il principe di Iraci? Nulla dunque di inverosimile o di strano che, avuta la bisaccia fra le mani, la avesse frugata. Non osava però manifestare quel sospetto.

Bisognerebbe frugare nelle sue bisacce, quando dorme.

A Patti, pernottando nel vescovado, potè rovistarvi, ma invano; non trovò nulla. La paura di svegliare Blasco lo trattenne dal frugare fra i vestiti, ma se anche l'avesse fatto, le sue ricerche sarebbero state infruttuose. Blasco, temendo le insidie del birro, aveva legato il plico al cordoncino delle reliquie che portava al collo, sotto la camicia, e lì nessuno sarebbe andato a cercargliele.

Matteo Lo Vecchio del resto, a furia di discutere mentalmente e di dedurre a filo di logica, era quasi giunto ad escludere che Blasco avesse trafugato quei documenti: e solo per quel residuo che i sospetti, anche se infondati, lasciano nel fondo dell'animo, lo teneva d'occhio.

Così giunsero a Messina, dove si separarono. Matteo Lo Vecchio andò a smontare alla locanda del Gigante dietro il Duomo; Blasco, che non aveva alcuna intenzione di fermarsi a Messina, ma intendeva ripartire per Catania, si fece indicare qualche fondaco per lasciare riposare il cavallo; e ne trovò uno nelle vicinanze della Porta Imperiale, dove di solito andavano a fermarsi i catanesi e gli abitanti della costa etnea.

Per l'indomani era annunciato l'arrivo del re e della regina e la strada da Porta Imperiale al Palazzo Reale era addobbata con ogni specie di apparati e qualche arco trionfale eretto a spese delle colonie o "nazioni" catalane, fiorentine, genovesi. Il magistrato cittadino, che dopo la rivoluzione del 1674 era stato spogliato delle sue antiche prerogative, della sua magnificenza, e la cittadinanza non si erano scaldati troppo per l'arrivo dei sovrani: primieramente perché dal nuovo re non avevano ricevuto nessuno di quegli attestati di benevolenza che gli avrebbero potuto guadagnare la simpatia del popolo, non ancora rinfrancatosi dalle vessazioni e dalle vendette spagnole; e secondariamente perché Vittorio Amedeo era sbarcato a Palermo e lì s'era fatto coronare re, la qual cosa riconfermava alla città malvista il titolo e le prerogative di capitale del regno, che i Messinesi ritenevano dovuti invece a Messina. Era il vecchio odio municipale, alimentato per duecento e più anni dalla monarchia spagnola, per tenere divise le due maggiori città del regno, che ora ripullulava e, se non ostili, rendeva freddi e sostenuti i rispettivi cittadini.

Blasco potè dunque constatare la gran differenza fra i preparativi di Messina e quelli di Palermo, non senza stupirsene; ma poichè quelle sciocche rivalità vanitose non lo interessavano più che tanto, pensò piuttosto a ristorarsi dal disagio di un viaggio lungo e pieno di incidenti, proponendosi di partire per Catania dopo l'entrata del re.

Intanto, poichè nulla aveva da fare, il dopopranzo se ne andò a passeggiare a piedi lungo la Palazzata, ammirando quel superbo tratto marittimo, come lo chiamavano i cittadini, e fermandosi dinanzi la fontana del Montorsoli, troneggiante sul mare.

Carrozze signorili, non meno ricche di quelle di Palermo, portantine dorate e impennacchiate andavano su e giù per l'ampia strada, che offriva un doppio e antitetico spettacolo: da un lato, infatti, la Palazzata si stendeva nella sua aristocratica magnificenza di pubblico passeggio; dall'altro, i bastimenti, ormeggiati e ancorati sulla riva, uniti a essa da lunghe tavole gettate a guisa di ponti. Cordami, casse, barili, mucchi di sacchi, immondizie, marinai, facchini e guardie del porto trasformavano quella medesima strada in un porto di traffico. Il contrasto era così stridente che Blasco ne fu colpito, sebbene altra volta, ma in condizioni diverse di spirito e di abitudini, egli fosse venuto a Messina.

Indugiatosi dinanzi al Nettuno del Montorsoli, Blasco guardava le carrozze precedute dai volanti, giudicandone i cavalli, per lo più di razza frisone, come voleva la moda di quei tempi, dalle zampe villose, dalle criniere arricciate e dalle lunghe code ondeggianti. Era un'occupazione che dava al suo spirito ozioso, che non aveva altro oggetto più grave e più serio di pensiero. E stando in queste osservazioni, egli vide passare donna Gabriella della Motta, la cui vista, sebbene non fosse inaspettata, pure gli causò un rimescolio.

La duchessa era alquanto pallida e pareva che un'ombra di tristezza le oscurasse la fronte e lo sguardo; pareva così preoccupata, che non si accorse di Blasco, se non nel ripassare dinanzi alla statua.

Le sue guance si colorarono tosto di un vivo rossore e i suoi occhi si accesero. Blasco notò quell'impressione; ma non trascurò il suo dovere di gentiluomo, di riverire profondamente la bellissima dama.

Perché donna Gabriella fece fermare la carrozza? Ella non seppe spiegarsi quell'ordine impulsivo, del quale poco dopo si pentì: forse la vista di un volto noto, che le ricordava Palermo, forse una somma di sentimenti indefiniti e confusi e di memorie le fecero appurare quell'ordine sulla bocca. Blasco si avvicinò rapidamente e baciò la mano che donna Gabriella, ripreso il suo contegno freddamente cortese, gli porgeva dallo sportello.

"Voi a Messina?" gli domandò.

"Per qualche giorno e di passaggio," rispose; "ma lieto di avervi potuto baciare la mano e confermarvi la mia servitù."

Scambiò con lui qualche parola e lo congedò senza tuttavia invìtarlo ad andarla a trovare, o mostrare alcun interesse di rivederlo. Padrona di sè, correggeva quella leggerezza istintiva e obliosa con un contegno freddo, sebbene cortesissimo. Dentro di sè, ora che sapeva il segreto del duca della Motta, Blasco provava una specie di compassione per quella donna così bella, aggiogata alla vita di un uomo, del quale certamente ignorava le scelleratezze.

"Se sapesse quello che io porto in seno!... Se sapesse che quel nobile signore, così potente e così riverito, è un assassino e un predone peggiore di quelli delle strade maestre!.. Povera duchessa!...".

E tornandosene alla locanda, quella notte stette a pensare alla diversità e alla molteplicità di quei fatti, alle infamie ignorate e impunite, ai misteri della vita; e pensò anche a quella setta terribile, che aveva accumulato tutte quelle prove contro il duca, e a quel servo, a quell'Andrea così pertinace nell'odio come nella fede alla memoria del suo padrone; a don Girolamo, che gli si ingigantiva nella mente come la figura di un giustiziere; e a quel fanciullo gettato alla ventura, orfano, senza nome, povero, il cui destino aveva qualche punto di contatto col suo. Anche il piccolo Emanuele era stato raccolto dal seno della madre moribonda, allevato per carità da estranei, ignorando il suo nome, la sua origine, pur essendo così vicino alla ricchezza!