Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte seconda, capitolo 21

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Re Vittorio era entrato nella città del Faro da circa una settimana, quando Blasco ritornò da Catania a Messina, dopo avere riveduto Randazzo, Castiglione e i paesi della sua infanzia, senza per altro trovarvi un segno, una traccia della sua origine e dei suoi primi anni. La stessa memoria di padre Giovanni e di, padre Bonaventura s'era spenta, e del tremendo terremoto che aveva distrutto Catania non rimaneva più alcuna traccia. Era tornato a Messina con l'animo rattristato da tante memorie, soprappensiero, e si domandava se egli non era ancora quel Blasco da Castiglione che non aveva domani, e viveva dell'attimo, e scherzava con la morte, e rideva di tutto per naturale giocondità dello spirito.

No. Qualche cosa gli era penetrata nell'anima e gliela riempiva di quella vaga e indistinta mestizia, che è come la spuma dei dolori occulti e sconosciuti. Tutto ciò che era venuto scoprendo, senza volerlo, la conoscenza del mondo che fino allora egli aveva veduto di fuori, lo sgomentava. Una folla di persone gli ronzava d'intorno e ognuna pareva recasse dentro di sè qualcosa di misterioso, di oscuro, come il segno del destino: il duca d'Albamonte, quel Giuseppico, che aveva conosciuto e del quale egli aveva ignorato la complicità nelle scelleratezze del duca; donna Gabriella, che non aveva alcuna cognizione dei suoi doveri; padre Bonaventura così chiuso in un pensiero segreto; Coriolano così fine e talvolta inconcepibile; Matteo Lo Vecchio, tanto scellerato; Girolamo Ammirata, Andrea, quel povero Michele Barabino, il Messinese, il principe di Iraci, che pur essendo valoroso, ricco, non brutto, di grande famiglia, non riusciva ad affermarsi... e poi quel nipote dell'Ammirata che egli aveva sottratto ai servi di don Raimondo, e quella giovanetta che gli era sempre accanto, e poi la monachella, la piccola educanda, della quale egli vedeva sempre nell'intimo dell'anima sua splendere gli occhi grandi e sfolgoranti; e poi quegli uomini mascherati... tutte quelle persone, che in poco tempo erano entrate nella sua vita, che l'avevano attirato, respinto, battuto di qua o di là, e di alcune delle quali, senza volerlo, penetrava il segreto e se lo sentiva gravare sulla coscienza. Tutte quelle persone lo conturbavano, come se ognuna di esse gli versasse nella anima qualche cosa del proprio mistero e della propria tristezza.

Oh, no! Egli era un altro Blasco e non si sarebbe stupito se avesse scoperto nei suoi capelli dei precoci fili d'argento. Ma ciò che maggiormente gli pesava era il terribile segreto del quale era venuto in possesso. Più volte si era domandato se non sarebbe stato meglio distruggere quelle prove schiaccianti, che potevano fare rotolare sul palco la testa di don Raimondo, ma un pensiero l'aveva trattenuto: con quale diritto egli avrebbe distrutto quei documenti, che erano tutto ciò che poteva restituire a un innocente i suoi diritti? La sua generosità verso uno scellerato, non sarebbe stata un delitto? E non si sarebbe egli reso suo complice?

Piuttosto... restituirle ai Beati Paoli? Questo sarebbe stato il suo dovere, giacchè quelle carte appartenevano a essi ed evidentemente Matteo Lo Vecchio le aveva rubate a don Girolamo Ammirata. Il suo obbligo era di restituire quelle carte a coloro cui appartenevano, e cui erano costati chi sa quali e quanti sacrifici; ma capiva che la setta ne avrebbe fatto un uso terribile, e ciò gli ripugnava, sembrandogli di rendersi complice dei colpi misteriosi e oscuri di quel terribile tribunale. Un'altra idea gli era balenata: quella di scrivere e confidare ogni cosa a Coriolano della Floresta, per il quale, per altro, egli non aveva avuto segreti; ma l'aveva bandita non senza rammarico, pensando che questo non era un segreto suo e non poteva disporne.

Così i documenti rimasero a lui; preoccupazione pesante e incresciosa, della quale si rammaricava di essere stato per forza degli eventi il depositario. E intanto era ritornato a Messina, senza veramente sapersi dare ragione di questa sua risoluzione. Era forse un vago e indistinto presentimento di qualche pericolo che poteva minacciare donna Gabriella? Era interesse di scoprire che cosa Matteo Lo Vecchio fosse venuto a fare a Messina? Era quella specie di istinto che lo attraeva verso le avventure? Probabilmente tutti questi motivi entravano insieme vaghi, confusi nella sua risoluzione; e intanto si era trovato sulla strada litoranea, verso Acireale, come se qualcuno ve lo avesse guidato.

Egli ritrovò Messina piena di guardie reali, di gentiluomini, di signori piemontesi, che parevano i padroni della città per i modi quasi insolenti che usavano, forse perché le passate vicende la dipingevano ancora nelle menti come un paese di ribelli, verso il quale non si aveva alcun obbligo di rispetto. E così v'era nell'aria stessa come un sentore di diffidenza, e qualche volta anche di ostilità latente.

Al passeggio della Palazzata i cavalieri della corte cavalcavano con una certa spavalderia soldatesca, lanciando delle parole galanti alle donne che, avvolte nei mantelli, andavano per respirare l'aria fresca del mare, e godere l'incantevole spettacolo dello Stretto e dei monti calabri soffusi di una luce viola; e guardavano con petulante galanteria le dame nelle loro carrozze.

Donna Gabriella si trovava anche lei al passeggio, in carrozza, ma questa volta non era sola; accanto allo sportello cavalcava un cavaliere, nel quale Blasco riconobbe il marchese di S. Tommaso: egli notò, da uomo esperto, che l'atteggiamento del marchese era quello di un uomo che sa di poter sperare qualche cosa di più di una semplice amicizia e che donna Gabriella sorrideva e guardava con quella civetteria che incoraggia a maggiori imprese.

Passando dinanzi a Blasco, e accortasi di lui, sembrò al giovane che ella ostentasse una maggiore civetteria. Lungi dal provare qualcosa che somigliasse alla gelosia, ebbe un senso di commiserazione, come se in quel gioco vedesse un avvilimento, uno scivolare giù verso una bassura di onte e di vergogne.

Ripassando, il marchese di S. Tommaso si voltò a guardare Blasco come se la duchessa glielo avesse indicato.

"Parlano di me" pensò; e questa idea lo punse; invece di starsene come schivo di vedere e farsi vedere, si mosse in modo da incontrare la carrozza e, dando un'occhiata dall'alto in basso al marchese di S. Tommaso, salutò donna Gabriella con quell'aria canzonatoria che egli sapeva assumere qualche volta.

Blasco era lontano dal supporre quali mutamenti erano avvenuti durante il suo viaggio verso Catania. Egli ignorava gli abboccamenti avvenuti fra Matteo Lo Vecchio e la duchessa, e il marchese di S. Tommaso.

Donna Gabriella era stata una delle poche dame che erano andate a ricevere i sovrani a Porta Imperiale, e il trovarcela aveva un poco sorpreso il re e la regina; ma l'uno e l'altra, ciascuno per una ragione diversa e particolare, le si mostrarono così freddi, che donna Gabriella non ebbe il coraggio di presentarsi a palazzo, dove capiva che non sarebbe stata ricevuta. Tuttavia le notizie recatele da Matteo Lo Vecchio, la lettera del marito, che, con l'altra diretta al marchese di S. Tommaso, era miracolosamente sfuggita alla ricerca di Blasco, premevano talmente che ella domandò una udienza al marchese di S. Tommaso, sperando di farsene un alleato e un mezzo per arrivare altrimenti al re.

Il marchese di S. Tommaso non era più giovane; forse cominciava per lui quella che si suol chiamare la seconda giovinezza, il che gli dava qualche velleità galante. A Palermo aveva conosciuto la duchessa e aveva sentito raccontare qualche storia sul suo conto; la duchessa gli era sembrata bella e desiderabile, ma il fine cortigiano aveva fin dal principio capito che il re vi aveva apposto il divieto di caccia, e si era ritirato. Ora, però, che il re era passato oltre e la caccia era aperta a tutti, accolse con visibile gioia la preghiera di donna Gabriella e le rispose con un garbato biglietto, che era felice di poterle fare omaggio della sua servitù.

Ella fu una graziosa diplomatica e seppe guadagnarsi l'animo e la cooperazione del marchese, il quale promise che avrebbe ottenuto un'udienza del re per Matteo Lo Vecchio, dopo, s'intende, un abboccamento col birro, per concordare i termini dell'udienza. E, o fosse per l'influenza dei sorrisi e delle graziose civetterie di donna Gabriella, o perché Matteo Lo Vecchio avesse fatto un quadro assai fosco e avesse dimostrato la necessità di rompere ogni indugio e procedere decisamente contro la setta, il marchese di S. Tommaso nella sua quotidiana relazione al re gli parlò a lungo del duca della Motta, e gli rimise la lettera portata da Matteo Lo Vecchio, che, se a sua Maestà piacesse, avrebbe potuto rivelargli preziosi particolari sugli sforzi e sui successi del duca e delle infinite fila tese dall'infame setta; fila che per l'onore del trono e la tranquillità del regno, bisognava spezzare d'un colpo.

Il re parve scosso da tutte quelle notizie. Lesse la lettera del duca, la quale, mentre esponeva tutto quello che egli aveva fatto e dove era giunto, dimostrava con rispettosa sottomissione di suddito tutto il male che dall'arrestarsi del processo derivava alla buona causa. Non prese alcuna risoluzione e concesse l'udienza. Il marchese allora aggiunse:

"V'è una dama di qualità che desidera umiliare la sua devozione ai piedi della Maestà Vostra..."

Il re capì e disse con indifferenza:

"Ah! la signora duchessa?"

"La quale è profondamente addolorata di non aver potuto godere della bontà dei suoi reali padroni."

Vittorio Amedeo non rispose e mutò discorso. Ma la sera, poichè alla reggia v'era conversazione, donna Gabriella vi si recò sfolgorante di bellezza e circondata da tutte le seduzioni che una sapiente civetteria poteva suggerirle, e seppe simulare un dolore così vivo e sincero, una timidezza così vera, una mortificazione così profonda, che la regina Anna parve commuoversene e il re non dubitò punto che, se la duchessa non aveva seguito la Corte, doveva essere stato certo per qualche impedimento legittimo e insormontabile.

Dopo quella volta la duchessa non si recò più per qualche tempo a Palazzo, intuendo che, ora, la sua scomparsa sarebbe stata notata e che sarebbe stata quasi invitata. Il marchese di S. Tommaso, infatti, le domandò perché non si fosse fatta più vedere a Corte, e le confessò che la regina stessa aveva avuto la bontà di domandare di lei. Egli era abbastanza cotto di donna Gabriella, da cui sperava ancora qualche cosa di più dei semplici sorrisi e delle tacite promesse, per accorgersi del fine sorriso che errò sulle labbra di lei a quelle parole. La duchessa poteva dire di avere quasi vinto la sua causa e di avere riconquistato, se non il favore, la benevolenza della Corte.

Il re, intanto, aveva ricevuto il birro e gli aveva dimostrato il suo compiacimento dandogli del denaro in premio dei suoi buoni servizi. Matteo Lo Vecchio si era guardato bene dal parlare al re dei documenti trafugati gli e dell'avventura occorsagli nel viaggio, e per uno scrupolo o per scaltrezza aveva anche taciuto la parte che vi aveva avuto Blasco da Castiglione; o meglio, aveva taciuto il nome del giovane e accennato soltanto a un cavaliere che proteggeva i Beati Paoli, al quale egli teneva dietro per raccogliere prove e arrestarlo.

Le cose stavano a questo punto quando Blasco ritornò da Catania a Messina e incontrò donna Gabriella, alla quale la presenza del giovane ora dispiacque, non soltanto perché temeva che egli potesse comprometterla, ma anche perché Matteo Lo Vecchio le aveva detto che Blasco gli aveva impedito di arrestare i capi dei Beati Paoli e che, con tutta certezza, era uno della setta.

Ella ignorava per quali ragioni Blasco si trovasse a Messina; la sua sanità e anche, - perché negarlo? un fondo della passione che aveva provato per quel giovane, troncata così violentemente e inaspettatamente, e in una maniera che l'aveva profondamente ferita nel suo amor proprio, nei suoi desideri, nelle sue speranze, questo residuo dell'antica fiamma le aveva potuto fare supporre che Blasco fosse venuto per lei. Ora il racconto di Matteo Lo Vecchio orientava diversamente le sue supposizioni, potendo vedere nel cavaliere anche un segreto agente della setta venuto per sorvegliarla. In entrambi i casi, Blasco diventava un vicino imbarazzante se non pericoloso, e lei avrebbe voluto allontanarlo. Odio, ora, non gliene portava più; il tempo aveva, se non guarito, certo addolcito la piaga: ella non provava che un gran rammarico, una grande amarezza per il suo sogno svanito: forse l'assassinio, del quale per poco Blasco non era rimasto vittima, aveva contribuito ad attenuare il suo odio; e la gelosia, che si era destata in lei contro la figliastra, le aveva ridestato qualcosa degli antichi desideri. Ma questi sentimenti ora si affievolivano, si mutavano, cedevano ad altri, in quello spirito mutevole e impressionabile; poichè s'era prefissa una meta, e Blasco poteva costituire un ostacolo o, peggio ancora, una probabilità di insuccesso e un pericolo, era necessario sbarazzarsene.

Come? Mandarlo via, per esempio, lontano, lontano... Altri mezzi non osava pensarne, per quanto potessero sembrare più sicuri e decisivi: se in un impeto di collera e per desiderio di vendetta ella aveva potuto prestare orecchio e incoraggiare il principino di Iraci nei suoi propositi, ne aveva avuto rimorso dopo, e a mente fredda non sapeva pensare a simili espedienti.

Lo aveva indicato al marchese di S. Tommaso, come un avventuriero, che si sarebbe potuto mandare a combattere i corsari barbareschi, o nelle guerre dell'impero... Ma il marchese, al quale non erano ignoti i passati rapporti della duchessa con Blasco da Castiglione, aveva veduto nel giovane un antico rivale e, peggio, un temibile concorrente. Da uomo di mondo sapeva che nulla è più pericoloso di un antico amante che ritorni. Pensò anche lui, dunque, che era bene prendere le parole della duchessa come un desiderio formale e rispose:

"Vedremo. Non sarà difficile."

Blasco si allontanò un po' triste, ma col passo d'un uomo sicuro di sè. Egli entrò per una delle tante porte o sbocchi aperti sotto la Palazzata, nella strada della Maestranza o dei Banchi, bighellonando un po', ma seguendo i suoi pensieri. Matteo Lo Vecchio, la duchessa, i documenti bastavano a occupargli la mente e a renderlo distratto; così distratto che, senza volerlo, urtò un cavaliere che in quel punto sbucava da una porta.

"Malcreato!" gridò questi, aggiustandosi le vesti.

Blasco si fermò impallidendo, e rispose:

"Credevo di aver urtato un gentiluomo, e stavo per domandarvi scusa, signore; ma ora che so chi siete trovo perfettamente inutile il farlo..."

E gli voltò le spalle; ma l'altro lo rincorse, sbuffando:

"Signore, io non sono uso a tollerare..."

"Ne ho piacere" interruppe Blasco.

"Voi mi darete ragione..."

"Quando vorrete..."

"Cercatevi un testimonio; vi aspetterò alle quattro sulla spianata dei Cappuccini..."

"Sta bene."

Blasco si allontanò pensando:

"Ecco qualche cosa da fare; una guardia del re, non c'è male!".

Infatti era una delle guardie del corpo, giovani gentiluomini, che non splendevano davvero per contegno, e che avevano suscitato a Palermo, come a Torino, qualche protesta. Bisognava trovarsi un testimonio. Dove? Egli non conosceva nessuno a Messina, salvo che la duchessa, la quale non poteva certamente assisterlo in quell'ufficio.

"Al primo cavaliere che incontrerò domanderò questo favore, - disse fra sè: - certo ne incontrerò qualcuno in questa strada o verso la piazza del Duomo."

S'avviò per quella direzione. All'angolo della piazza v'era un'osteria, con una piccola locanda sopra, ritrovo ordinariamente dei viaggiatori esteri, frequenti allora per l'importanza del porto. Sull'uscio dell'osteria era ferma un'altra guardia del corpo con un gentiluomo forestiere, e tutti e due, con le gambe larghe, l'aria spavalda, pareva si divertissero a motteggiare insolentemente i cittadini che passavano. Nel momento che Blasco giungeva dinanzi all'osteria, una giovane popolana, avvolta nel mantello che le scopriva soltanto gli occhi, passava frettolosamente col capo basso. Il gentiluomo le si parò dinanzi con le braccia aperte:

"Ohè, piccola saracena!.,. ci farai vedere almeno se sei bella, parbleu!"

E tentò di scoprirle il viso. La donna mandò un grido di spavento, cercò di scansarlo, di fuggire, ma la guardia le attraversò la ritirata:

"Ah, non si fugge, selvaggia!..."

Ridendo, tutti e due cercarono di toglierle il mantello, stringendola, motteggiandola, rifacendole il verso di piccolo uccello spaventato. Ma Blasco fermò per il braccio il gentiluomo:

"Signore," disse: "non è da pari vostro..."

Quello si voltò come una furia. La popolana ne approfittò per fuggire.

"Chi vi dà il diritto di immischiarvi?" gridò il gentiluomo, con spiccato accento straniero.

"Il rispetto che si deve alle donne, signore, e al quale nessun buon cavaliere deve mancare!..."

Allora la guardia reale si fece innanzi, insolentemente:

"Vorreste insegnare a noi quali sono i doveri di un cavaliere?"

"Se avessi l'abitudine di insegnare qualche cosa, signore," rispose Blasco senza perdere la sua tranquillità "non sarei sfornito di ciò che è più necessario a un maestro: la sferza."

"Che intendete dire?..."

"Niente di più e niente di meno di quello che vi piacerà capire..."

Il gentiluomo sbuffava:

"Signore," esclamò; "non avete forse alcun interesse per la vostra gola? Volete giocarla? Sono a vostra disposizione..."

"Voi dovete una spiegazione anche a me..." aggiunse l'altro.

"Non ve la negherò. Quando vorrete..." rispose Blasco.

"Oggi alle quattro..."

"Vi domando perdono; alle quattro sono impegnato con un altro cavaliere della guardia reale sulla spianata dei Cappuccini. Vi prego di favorire là per le quattro e mezzo."

Se ne andò, lasciando i due nuovi avversari che si guardavano sorpresi, e pensando: "Adesso ne ho tre sulle braccia: andiamo a cercare questo testimonio benedetto".