Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte seconda, capitolo 22

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Blasco se ne andò solo ai Cappuccini, non avendo trovato nessun conoscente e non volendo esporsi al rifiuto o alle diffidenze del primo incontrato. Un testimonio! per che farne? C'era quello dell'avversario e bastava. Arrivò per primo e, fermatosi dinanzi alla rozza croce di legno che sorgeva poco discosta dall'edificio religioso, si mise ad ammirare la magnifica scena che gli si parava dinanzi agli occhi: dalla destra, giù in pendio, la città coi suoi castelli, le sue torri, i suoi campanili, il vasto porto lunato; la nuova fortezza eretta sul braccio di S. Raineri da Carlo II, quella formidabile cittadella che doveva tenere in freno la città facile alle ribellioni: e, oltre il braccio di S. Raineri, lo Stretto, azzurro, sereno, limitato di qua dai colli verdeggianti, che si stendevano, si attenuavano, fino al Faro; al di là dai contrafforti dei monti Peloritani, che pareva piombassero a picco sul mare: in fondo dalla lunga linea degli Appennini calabresi, color viola, alle cui falde si distinguevano Reggio, San Giovanni e poi l'alta rupe di Scilla.

"Bel luogo per farsi ammazzare!" disse Blasco fra sè, respirando a pieni polmoni l'aria marina che gli sventava il volto. Poco dopo egli scorse il suo avversario in compagnia di un'altra guardia reale. Le loro uniformi scintillanti per i ricami e per i galloni d'oro attrassero l'attenzione di Blasco, il quale pensò: "Ecco delle divise che sarebbe un peccato cincischiare con la punta della spada".

Appena salutatisi, l'avversario gli disse:

"Signore, non abbiamo avuto il tempo di presentarci; io sono il visconte di Croixvert..."

"Blasco da Castiglione," rispose il giovane, inchinandosi, e aggiunse: "Vi domando scusa se mi presento senza testimonio; ma sono nuovo di Messina, e non conosco nessuno: pregherò il signore di avere la bontà di assistere anche me..."

"Il cavaliere di Cambiano," disse il visconte presentandolo.

"E allora," riprese Blasco "vorrei pregarvi di sbrigarci presto, perché fra mezz'ora ho un altro impegno con un vostro camerata."

"Contate dunque di uccidermi?"

"Uccidervi, no... non ho ragione di uccidervi, ma di mettervi da parte."

Il cavaliere di Cambiano aveva intanto scelto il terreno: un largo spazio, dietro il muro della "selva" chiuso fra alberi e riparato dal sole. I due avversari si tolsero la giubba, la sottoveste, rimanendo in camicia; Blasco si gettò dietro le spalle il sacchetto delle reliquie e il plico. Questi preparativi gli avevano restituito il suo buon umore. Incrociando, al segno del testimonio, la sua spada con quella del visconte di Croixvert, egli sentì la giocondità diffonderglisi per il sangue, e dargli una elasticità e una rapidità di movimenti veramente straordinarie.

Il visconte (apparteneva a una di quelle piccole famiglie di vassalli della Savoia, che facevano professione d'arme, e credeva di sbarazzarsi in due colpi di quel giovane) capì subito che aveva da fare con un avversario temibile, e che non c'era da prendere la cosa a giuoco.

Blasco attaccava vigorosamente, ma senza perdere quella padronanza di sè, che era, forse, la principale sorgente dei suoi successi: il visconte poteva a stento correre alla parata, senza riuscire a un contrattacco.

"Perdinci!" disse "avete fretta?"

"Non ve l'ho detto?" rispose Blasco, senza raffreddare l'azione. "Un altro cavaliere, guardia reale come voi, mi ha fatto l'onore di darmi un appuntamento, qui... alle quattro e mezzo. Capirete che non è corretto farlo aspettare... e che io non mancherò al mio dovere..."

"Se ve lo permetterò!.." disse fra i denti, con collera mal frenata, il visconte, che si sentiva punto da quella sicurezza; e approfittando di un istante, in cui gli parve che Blasco fosse stanco o volesse mutare tattica, corse furioso all'attacco.

"Ah! ah! ci siamo dunque, signore!" disse Blasco; "va benone; ma badate di non stendervi troppo, perché vi infilzerò come un tordo... A proposito vi piacciono i tordi? A me sì e molto... Dunque, dicevo, che v'infilzerò e io non voglio ammazzarvi, ve l'ho detto, e poi... non mi parrebbe umano far trovare un morto al mio secondo avversario... Potrebbe impressionarlo!... è il mio terzo avversario... Non vi ho detto che sono due? Buon Dio! mi toccherà battermi fino a sera!... Ma non è colpa mia... Piano!... Chi è stato il vostro maestro? Vorrei fargli i miei complimenti... ma, diamine! volete proprio che vi uccida?... Sì, i miei complimenti... ma adesso è troppo... Contate uno... è una mi! abitudine colpire al numero tre!... attento dunque... uno... avete un santo protettore?... due... guardatevi il braccio adesso... Tre! Via..."

Con una mossa rapidissima avviluppò la spada dell'avversario, lo costrinse a scoprire la spalla, e gli tirò una stoccata così violenta, che il visconte traballò e fu lì lì per cadere, se non fosse prontamente accorso il cavaliere di Cambiano. La spada gli cadde e una lunga macchia di sangue rosseggiò sulla camicia.

Blasco, come nulla fosse, prese un pugno d'erba e forbì la spada; poi esaminatane la punta e provatane la flessibilità e la resistenza, se la pose sotto il braccio e cominciò a passeggiare.

In quel punto l'orologio dei Cappuccini suonò l'ora e sulla spianata comparvero quattro cavalieri, tre dei quali vestivano l'uniforme delle guardie reali.

"Per bacco! - disse Blasco fra sè, !- guardie del re!".

Si fece innanzi, salutando i suoi due avversari, che si stupirono di vederlo in quell'abbigliamento, e più ancora vedendo il cavaliere di Cambiano intento a fasciare alla meglio la ferita del visconte di Croixvert.

"Signori," disse Blasco "non ho testimoni, vi prego di invitare i vostri a farmi l'onore di servire anche come miei testimoni. Io sono Blasco da Castiglione."

Il gentiluomo si annunziò come il barone di Castellamonte, la guardia reale come il visconte di Champ-auxarbres, savoiardo anche lui; i due testimoni erano il conte di Vaurebelle e il cavaliere d'Agliè. Queste presentazioni furono fatte frettolosamente, perché tutti e quattro ebbero la premura di avvicinarsi al visconte di Croixvert.

"Badate," disse questi "avete un osso duro da rodere."

Croixvert era una buona lama, ma non era della forza del barone di Castellamonte e del visconte di Champaux-arbres, che erano le migliori spade della compagnia, come ne erano i più scavezzacolli.

Sorteggiarono chi si dovesse battere per primo, gettando in aria una moneta d'argento.

"Testa!" gridò il barone.

La moneta cadde, rimbalzò, mostrò il verso.

"Tocca a voi."

Un minuto dopo il visconte di Champ-aux-arbres si slanciava in un attacco impetuoso contro Blasco, che ebbe appena il tempo di schivare un affondo, e di spiegare una difesa, che era nel tempo stesso una minaccia per l'avversario.

"Ah! ah!" esclamò, "tattica diversa. Mi piace e ve ne sono grato... C'è da imparare sempre qualche cosa. Per esempio... in questo momento imparo... che avete un occhio più grande dell'altro... e più rotondo... la qual cosa, scusate, vi dà un aspetto un po' buffo."

Il visconte si stizziva per quelle parole che pareva volessero prenderlo in giro, e borbottò qualche cosa.

"Dio buono!" continuò Blasco, "ho avuto la disgrazia di farvi andare in collera?... Ne sono dolente... Ma abbiate riguardo, perché la collera è cattiva consigliera... Specialmente nelle condizioni in cui vi trovate... Voi siete del paese delle savoiarde, non è vero?... Gustose le savoiarde! Adesso ve ne regalerò una, sulla guancia destra; state attento... si capisce che non vi farò sangue... Un piccolo buffetto... Là! eccolo!"

Gli diede un colpo sulla guancia col piatto della lama, lasciandogli una striscia rossa.

Il visconte di Champ-aux-arbres mandò un ruggito di belva e si gettò furiosamente su Blasco per finirlo, ma Blasco che se l'aspettava, con una mossa rapidissima, legò la spada dell'avversario, gli si strinse addosso, petto a petto, e prima che il visconte potesse liberarsi da quel contrattacco e riprendere la misura, egli col pomo della spada gli diede un così violento colpo al petto, che il visconte trabaltò e cadde a gambe levate. Blasco torno in guardia agile e nervoso come un felino, e visto il barone di Castellamonte, che aspettava la sua volta, con la spada in pugno, gli diede un colpo col piatto della lama, gridandogli:

"Che fate costì, mammalucco?... Rimpiazzate il visconte!"

Non aveva terminato di dire queste parole, che il barone moveva all'attacco; ma contemporaneamente il visconte, alzatosi, avanzò sbuffando e urlando:

"Tocca a me! Tocca a me!"

Il barone furibondo per quella piattonata, non l'udì; Blasco si trovò di fronte due avversari. Allora i duo testimoni si fecero avanti, per impedire quel combattimento così disuguale, ma Blasco:

"No, no, signori, ve ne prego; ho giuoco per tutti! lasciateli stare... Mi sbrigherò più presto... E comincerò dal signor barone, che è venuto l'ultimo..."

Blasco si era quasi addossato a un albero, per non lasciarsi aggirare e si teneva in guardia, tutto raccolto col braccio leggermente proteso. La lama della sua spada aveva la rapidità e il guizzo sfolgorante del baleno, e i due avversari se la vedevano sempre davanti agli occhi, e più che attaccare dovevano limitarsi alla difesa.

Con un'azione fulminea che non diede tempo al barone di Castellamonte neppure di riconoscerla, Blasco scartò il ferro dell'avversario e andò a fondo e Castellamonte non era ancora caduto in terra che Blasco si gettò sopra il visconte di Champ-aux-arbres, dicendo:

"E questa è per voi, da parte di quella donna!"

E la punta della sua spada penetrò nel petto del visconte, che cadde gridando:

"Siete il diavolo..."

"No, ma forse suo cugino," rispose Blasco, il quale, fatta una riverenza al gruppo formato dai tre gentiluomini, che erano accorsi per soccorrere i feriti, riprese i suoi vestiti, ringuainò la spada e se ne tornò zufolando un'arietta, come uno che torni da una passeggiata. Non aveva riportato che qualche scalfittura insignificante.

Poco dopo i cittadini videro portati da villani, sopra sedie, i tre feriti, fasciati alla meglio, e accompagnati dai loro testimoni, e, come suole in simili circostanze, una folla di curiosi si mise dietro a quel corteo, che destava le più disparate supposizioni e i più vari commenti. Giunse in tal modo al palazzo reale una processione così rumorosa che dei valletti accorsero al balconi e alle finestre per vedere che cosa fosse. La folla, le guardie ferite, fecero credere a qualcosa come una vendetta popolare; il grido corse per le sale, si propagò per tutto il palazzo; il marchese di Tournon, capitano delle guardie accorse, domandando:

"Che cosa è stato? Che guardie? Che feriti?"

"Il visconte di Croixvert e il visconte di Champ-aux-arbres e il barone di Castellamonte, corriere segreto di sua maestà."

"Croixvert e Champ-aux-arbres feriti? Come? Da chi?... Dite piuttosto assassinati."

"Oh! no, in duello, in buon duello... con un cavaliere siciliano. Li ha battuti tutti e tre!"

"Croixvert e Champ-aux-arbres! le migliori lame delle guardie!.,. Ma questa sarebbe una sconfitta, un disonore! Oh no, non è possibile!..."

Il marchese di Tournon ne era inconsolabile; tutte le guardie del re se ne mostravano indignate e minacciavano. Poichè non era possibile abbattere quei tre, che potevano essere ritenuti come il simbolo vivente del valore e della invincibilità, ne deducevano che quel gentiluomo non avesse potuto vincerli senza male arti, e bisognava farlo a pezzi, bruciarlo vivo. Reclamavano al loro capitano, che cercava di rabbonirli. Certo occorreva dare una soddisfazione alle guardie. I tre feriti interrogati avevano in verità reso giustizia al valore del loro avversario, e dichiarato che si era condotto da perfetto cavaliere; e la medesima cosa avevano detto i testimoni; ma quelle leali dichiarazioni non valevano a quietare gli animi. Il marchese di Tournon quella sera stessa ne informò il re, che stupito e addolorato, volle anche lui conoscere dai testimoni i particolari del fatto; ma quando udì il nome del feritore: Blasco da Castiglione, si accigliò e volse una occhiata significativa al marchese di S. Tommaso, lì presente.

Un momento prima, infatti, questi aveva informato il re della presenza a Messina di uno dei caporioni della setta dei Beati Paoli, quel Blasco da Castiglione, un avventuriero che non si sapeva dove e da chi fosse nato; un attaccabrighe che aveva uno stato di servizio tale da fare di lui una di quelle persone pericolose, delle quali era bene sbarazzare il regno, senza andare tanto per il sottile.

"Vostra Maestà potrà saperne di più da quel Matteo Lo Vecchio, che ha avuto l'onore di portarle le lettere del duca d'Albamonte. Sembra accertato che questo Blasco sia uno dei più accaniti nemici del duca; lo afferma la signora duchessa..."

A quelle notizie si aggiungeva ora quella dello strepitoso duello, che rendeva Vittorio Amedeo pensieroso.

La notte stessa, ricercato per tutte le osterie e per i fondaci, e ritrovato che dormiva tranquillamente nel suo piccolo e modesto alloggio, Blasco fu arrestato per ordine del re e condotto nella Rocca Guelfonia, volgarmente detta di Mattagrifone, reo, così diceva l'ordine, di avere trasgredito l'editto di sua Maestà contro il duello.

E Matteo Lo Vecchio correva dalla duchessa a dirle:

"L'abbiamo in gabbia!... Ora lasci fare a me."

"Che cosa intendete fare?" domandò donna Gabriella rabbrividendo al perfido sorriso di Matteo Lo Vecchio.

"Oh!" rispose il birro con un gesto delle spalle; "vostra signoria non crederà certo che io voglia farlo scappare... Andrò a visitarlo e a dolermi della disgrazia... Nient'altro che questo."

Egli rideva con una espressione così feroce, che la duchessa impallidì. Sapeva Matteo Lo Vecchio capace di tutto. Ora, era bene che Blasco da Castiglione fosse stato arrestato perché ciò impediva che potesse nuocere al marito, stando a quanto le aveva riferito il birro e le rivelava la lettera di don Raimondo, e appunto per questo aveva dipinto a foschi colori il giovane e predisposto il marchese di S. Tommaso contro di lui. Quel famoso duello, del quale correva già la fama per tutta Messina, era venuto a proposito per secondare i suoi desideri, togliendole l'odiosità di farlo arrestare senza alcuna ragione visibile; ed ella ne era stata soddisfatta, sebbene in cuor suo non potesse frenare quel sentimento di ammirazione per il valore del giovane, valore che anche le stesse guardie del re erano costrette ad ammirare.

Ma donna Gabriella pensava che bastasse ridurre Blasco all'impotenza chiudendolo in una rocca inaccessibile e formidabile come Mattagrifone; andare oltre a una condanna di arresto in un castello, punizione solita per i reati di duello, le pareva un pretendere troppo, un volere inferocire contro Blasco e le ripugnava rendersi complice di macchinazioni, che oltrepassavano la pura e semplice difesa degli interessi della sua casa. Ella d'altronde ignorava le colpe del marito, e non credeva che potessero essere così gravi e scellerate ed era disposta anche ad attenuarle: e ignorava anche le supposte ragioni che al duca avevano fatto vedere in Blasco il suo feroce e implacabile nemico. Ci era voluto uno sforzo e le suggestioni di quel desiderio di vendetta, da cui era presa la sua passione, per vedere, sebbene non ne fosse persuasa, in Blasco il capo di quella setta spaventevole, della quale don Raimondo aveva tanta paura, e per parteggiare per il marito.

Le parole ambigue, e più il sorriso significativo e feroce del birro, la mettevano ora in sospetto.

Evidentemente si tramava qualche cosa; evidentemente don Raimondo aveva dovuto dare al birro delle istruzioni a lei ignote.

Che cosa intendeva fare Matteo Lo Vecchio?

Risolvette di sorvegliarlo.

Quando il birro se ne fu andato, ella scrisse al marito per riferirgli tutto quello che era avvenuto e quello che lei aveva fatto.

Matteo Lo Vecchio riteneva ancora che Blasco non lo conoscesse: e che poteva contare sul suo travestimento per completare il suo piano. Egli si recò dunque alla Rocca Guelfonia, per visitare il giovane prigioniero; ciò che non gli era difficile, in quel tempo in cui preti e frati avevano libero accesso dovunque e godevano di un grande ascendente nella vita pubblica.

Blasco non potè contenere un moto di sorpresa vedendolo comparire nella cella angusta, semioscura, dove l'avevano rinchiuso.

"O mio buon salvatore!" esclamò il falso abate, giungendo le mani: "dove vi rivedo!... Ho saputo di questa disgrazia e, per la riconoscenza che vi devo, ho voluto esprimervi a voce il mio dolore e mettermi a vostra disposizione, per quello che vi possa occorrere..."

"Grazie, grazie..."

"Tutta Messina parla di voi. una cosa meravigliosa! Dicono che quei tre gentiluomini siano le migliori lame della Corte... Se non sapessi per prova di che siete capace, stenterei a crederlo... Per bacco!... E avete bisogno di nulla? Mi permettete di mandarvi il desinare? Voglio rendervi questo servizio, non già per disobbligarmi, ma per darvi un segno della mia gratitudine..."

"Oh, non si disturbi: non ho bisogno di nulla..."

"No, no: accetterete qualche attenzione... Sì, sì; non mi farete questo torto... Ma come diamine è avvenuto?"

"Che cosa vuole che le dica?... Sono cose che possono capitare..."

Matteo Lo Vecchio stette ancora un po' chiacchierando del più e del meno, e se ne andò promettendo che sarebbe ritornato a vederlo, e che avrebbe parlato a qualche personaggio potente per interessarlo in favore di Blasco e ottenergli la grazia del re.

Egli fu così espansivo e così insinuante, che Blasco dubitò per un momento d'essersi ingannato, e si domandò se il birro non fosse sincero: tuttavia, esperto della vita, si pose in guardia contro quella stessa bontà che costituiva il fondo dell'anima sua.

Intanto egli pensava all'inaspettato scioglimento di quell'avventura cavalleresca, perché, trattandosi di soldati, non credeva che il duello fosse poi un delitto da punire col carcere e perché, in fondo sentiva di non essere dalla parte del torto; e se qualcuno doveva essere punito, erano appunto i provocatori, ma, forse quelli erano stati abbastanza puniti da lui.

Che cosa ne era dei feriti? Ne era morto qualcuno? Il castellano di Rocca Guelfonia che era un antico ufficiale siciliano, già al servizio della Spagna, e ora a quello del principe sabaudo, trattenendosi volentieri con Blasco, per quella simpatia che suscita il valore, lo informava. Nessuno era morto; ma la guarigione sarebbe stata difficile e lunga.

"Che colpi!... perdinci! Se fossi stato io il re, vi avrei fatto capitano delle mie guardie... Sapete che in città non si parla d'altro e che vi porterebbero in trionfo, se potessero? Quando io ero giovane..."

Raccontava una lunga storia di bravura, compiuta nell'assedio di Messina, che era un'autoglorificazione, ma Blasco non l'udiva; pensava invece, e si domandava se gli avrebbero fatto un processo e se lo avrebbero relegato in qualche castello; la qual cosa lo conduceva a tante altre idee, a quelle famose carte di cui era possessore, al suo dovere di penetrare nel mistero,_ quella usurpazione, a don Raimondo, a donna Gabriella. Un'idea gli balzò alla mente: se avesse scritto una lettera alla duchessa, perché intercedesse in favore suo? Ella aveva buona possibilità di accesso alla Corte... Era una buona idea... E poi, non si era prefisso egli di salvarla dai pericoli, cui le colpe del marito la esponevano? Stava per domandare un favore al castellano, quando questi fu chiamato da uno dei custodi, il quale intanto gli faceva dei segni misteriosi. Il castellano uscì; il custode chiuse la porta della cella, ma, appena il castellano si fu allontanato, riaprì rapidamente e, fattogli un cenno, gli diede un bigliettino e se ne andò. Blasco aprì il biglietto e vi lesse questa parola: "Guardatevi".

Non una firma, nè un segno. La scrittura gli era ignota. Chi gli mandava quell'avvertimento? Chi era questo occulto amico che lo metteva in guardia contro i pericoli ignoti e futuri? E quale era questo pericolo? E chi lo avvisava, come poteva esserne già a conoscenza? Il suo cervello cominciò a galoppare per i campi delle supposizioni e de le ipotesi, che l'esame critico distruggeva una dopo l'altra, per suggerirne altre. I Beati Paoli? Potevano essi saperlo? Non era possibile. I suoi avversari? Anche questo era impossibile... Intanto bisognava guardarsi.

Tra questo fare e disfare occupò la giornata; all'ora della cena, il custode ritornò con un paniere.

"Vossignoria deve avere delle grandi amicizie... Eccole qui una cena che fa venire l'acquolina in bocca..."

Blasco diede un'occhiata al paniere, dal quale il custode, dopo aver deposto la lucerna sul tavolino, traeva una insalata di cavolfiori, un pezzo di pollo, del prosciutto, del formaggio e delle melarance fragranti.

"Scusate," disse al custode "chi vi ha dato quel biglietto?"

"Un servitore..."

"Un servitore? In livrea?"

"Non ci ho posto mente, ma credo di sì..."

"Non ricordate dunque il colore della livrea?"

"No, no..."

"Fate uno sforzo..."

"Non ricordo. Era vestito di scuro, questo sì..."

"Di scuro!... Non vi disse da parte di chi veniva?"

"No; mi disse soltanto: "Questo biglietto va al signor Blasco da Castiglione" e mi ha dato uno scudo. Però..."

"Però?"

"Io sono un po' curioso..."

"Ebbene?"

"Ho voluto vedere dove andasse e mi sono affacciato."

"E che cosa avete veduto?"

"Ho veduto che giù, v'era una carrozza al cui sportello il servitore si è avvicinato, per parlare con qualcuno e ho veduto anche..."

"Che cosa?"

"Ho veduto che dentro la carrozza c'era una dama."

Blasco si sentì salire un'ondata al viso e corse con la mente a donna Gabriella. Chi poteva essere la dama, se non lei?"

"E questa cena viene dalla stessa mano?"

"Oh no!... questa gliela manda il signor abate che è venuto a vederla stamattina."

"Ah! lui?... Sta bene: grazie; mettete tutto lì..."

"Eh! eh!..." disse il custode: "capisco che se la cena venisse dall'altra, vossignoria sarebbe più contenta, ma..."

Blasco non gli diede retta. Donna Gabriella gli scriveva di guardarsi, Matteo Lo Vecchio gli mandava la cena; Matteo Lo Vecchio era il braccio destro del duca della Motta ed era da presumere che si trovasse in contatto anche con la duchessa. Mandava quella cena per un ordine di donna Gabriella? Ovvero...

Un sospetto gli attraversò l'animo e gli fece guardare con una espressione di terrore quei piatti, quel pane, quel vino. Congedò il custode, ma quando fu solo non osò avvicinarsi alla tavola; tuttavia teneva gli occhi fissi su quelle vivande, come per scoprirvi qualche cosa. Poi prese del pane, lo immollò nell'olio e nell'aceto che condivano i cavolfiori e gettò ogni cosa per terra: indi si distese sul lettuccio e aspettò.

Udì poco dopo un grattare lieve di zampine e prima uno, poi un altro, indi un terzo, un quarto topo invasero la cella e si gettarono voracemente sul pane, squittendo, rincorrendosi, contendendosi la preda. Era uno spettacolo curioso, che avrebbe certamente divertito Blasco, se egli non avesse avuto l'animo preoccupato da una indagine ansiosa. Aspettava. Quella banda di predoni consumò in breve la preda: qualche topo più audace si arrischiò ad arrampicarsi sopra la tavola per attaccare il resto della cena. Ma a un tratto un topo mandò un grido disperato che gettò l'allarme fra gli altri e li disperse di qua e di là; quasi contemporaneamente altri due gridi risonarono: Blasco vide tre di quelle bestie immonde rotolarsi per terra, contorcendosi, digrignando i denti in uno spasimo di dolore; poi un altro. Blasco fece del rumore, ma le quattro bestiole non fuggirono: tentarono di trascinarsi, caddero l'una sull'altra, addentandosi rabbiosamente, torcendosi sopra se stesse in una agonia raccapricciante. Poco dopo morirono.

Blasco era pallidissimo; un sudore gelato gli bagnava la fronte. Ormai non gli rimaneva più dubbio che Matteo Lo Vecchio avesse tentato di avvelenarlo: il perché di questo tentativo gli sfuggiva. Quali ragioni poteva avere il duca della Motta, quali il birro per sbarazzarsi di lui? Intanto se era sfuggito allora, chi poteva assicurarle che sarebbe sfuggito un'altra volta?

Questo pensiero lo spaventò. Tutto poteva venire avvelenato; l'acqua stessa della mezzina portatagli dal custode, chi l'assicurava che non venisse resa mortale da qualcuna di quelle droghe che avevano reso celebri le avvelenatrici siciliane del secolo precedente? Non mangiare; non bere; sì, non c'era altro da fare; ma e poi? Come avrebbe potuto resistere, specialmente alla sete? Questo pensiero lo tormentò; la paura di quell'insidia ignota, di una morte terribile, d'una agonia spaventevole come quella che aveva veduto nei topi, lo faceva sudare freddo. Tutta la notte non potè dormire, avendo dinanzi agli occhi le immagini di quelle bestie contorte. La mattina, quando entrò il custode, Blasco che aveva preso la sua decisione, lo accolse con un aspetto così minaccioso che il custode ne fu atterrito:

"Guardate!" gli disse indicandogli le carogne; "quei topi hanno mangiato la cena, che io non ho toccato."

Il custode guardò e per poco non svenne. Balbettò:

"Come? Che cosa...?"

"La cena era avvelenata!... E voi siete il complice dei miei avvelenatori..."

"Io, signore?... Io?... Che dice mai, vossignoria? Io?"

"Voi, sì!... Più tardi lo saprà il castellano e vi farò impiccare!..."

"Signore! signore... Non so nulla, sono innocente... Glielo giuro sull'ostia consacrata... sulla salute dei miei figli. Sono innocente!... Oh che infamia; per perdermi: per perdere me e la mia famiglia... Oh povero me!.."

Giungeva le mani disperatamente con le lacrime agli occhi, e v'era tanta sincerità nelle sue parole, che Blasco si persuase della sua innocenza.

"Ascoltate," gli disse; "io tacerò, ma a un patto..."

"Vossignoria parli..." rispose il custode tremando ancora.

"Probabilmente chi ha mandato la cena, verrà fra qualche ora a domandare di me. Ditegli che io sono morto improvvisamente..."

"Lo dirò; ma voglio denunziarlo, voglio farlo squartare..."

"Voi non direte nulla, perché accusereste anche voi... Bisogna tacere, e non fare trapelare nulla. Soltanto bisogna dire che io sono morto..."

"E va bene... diremo così, se vossignoria crede che sia meglio. Farò tutto quello che vorrà..."

"E ora portatemi di che scrivere."

Il custode si affrettò a portargli lo occorrente e Blasco scrisse in un foglietto queste parole:

"Grazie, vi devo la vita".

Chiuse e sigillò il foglio e lo consegnò al custode.

"Questo bisogna portarlo alla dama di ieri..."

"E chi la conosce?"

"E la duchessa della Motta, di Palermo. Vi diranno tutti dove è alloggiata..."

"Vossignoria sarà servita."

"E soprattutto, badate a non tradirvi..."

Il custode si mise una mano sul cuore; e fatta la pulizia della cella, portata via ogni cosa, se ne andò per eseguire la commissione.

Sulla porta incontrò Matteo Lo Vecchio.

"Ah, signor abate!" esclamò coi denti stretti; "quale sventura!..."

"Ebbene?" domandò il birro agitato dall'ansia.

"Quel cavaliere!... quel giovane che stava tanto a cuore di vossignoria..."

"Ebbene? Che cosa è avvenuto? fuggito?"

"È morto! morto stanotte!"

E gli voltò le spalle, ne vide lo splendore della gioia nel viso di Matteo Lo Vecchio.