Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte seconda, capitolo 23

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Il birro, non dubitando del suo colpo, ed aspettandosi quell'annunzio aveva disposto ogni cosa per la sua partenza, giacchè non gli rimaneva più nulla da fare a Messina; ed aveva preso congedo dalla duchessa. Avuta dal custode la notizia ufficiale della morte di Blasco, si affrettò a montare a cavallo e ad allontanarsi da Messina, temendo che quella morte improvvisa gli recasse qualche seccatura.

Egli dunque usciva da Porta Reale, con l'intenzione di guadagnare lo stradale litoraneo e imbarcarsi a Milazzo su qualche tartana o feluca in partenza per Palermo, e fare perdere le sue tracce. Pertanto aveva pensato, giungendo a Spatafora o a qualche altro paese sulla strada, di deporre il suo travestimento d'abate e riprendere vesti paesane.

Mentre usciva, il custode consegnava alla servitù di donna Gabriella il biglietto di Blasco, la cui lettura mise un tumulto nell'anima della dama; dapprima sussultò di gioia, poi si pentì del suo passo. Sulla gioia e sul pentimento dominò la curiosità paurosa. I suoi presentimenti dunque erano fondati; che cosa era avvenuto? Il suo primo impulso fu di mandare a chiedere notizie, ma la riflessione venuta dopo ne la dissuase; la prudenza le prospettò gli inconvenienti che potevano nascere da quel passo. Prima di tutto Blasco era prigioniero per ordine del re e lei, che faceva di tutto per riguadagnarsi la benevolenza di Vittorio Amedeo, avrebbe certamente perduto ciò che aveva guadagnato, facendo una cosa che gli potesse spiacere; d'altra parte avendo dipinto Blasco a fosche tinte, l'andarlo a visitare le pareva una vera e ingiustificabile contraddizione.

Che fare?

Mandò a chiamare con un pretesto il custode di Mattagrifone, per sapere, almeno, qualche cosa intorno al pericolo corso da Blasco e non fu meno spaventata di costui, quando seppe della cena avvelenata mandata dall'abate che il custode credeva buon amico del prigioniero. Ah! l'avrebbe voluto fra le mani quel pretonzolo del demonio, per fargli passare, per sempre, la volontà di sperimentare i suoi veleni infernali sui cavalieri! Ma l'avrebbe ritrovato! Donna Gabriella tremò a quest'idea e ringraziò mentalmente il cielo che Matteo Lo Vecchio fosse partito.

Se il custode lo avesse trovato, chi poteva prevedere ciò che sarebbe venuto fuori?

La duchessa diede una borsa piena di denaro al custode, raccomandandogli di serbare il più profondo segreto su tutto quello che era avvenuto, e di non passare al prigioniero altri cibi che quelli che sarebbero venuti da casa sua, coi suoi servitori. Pensava così di evitare che altre insidie potessero essere tese contro la vita di Blasco, e credeva con ciò di mettere in pace la sua coscienza da quei rimorsi che di tanto in tanto la pungevano. In carcere, stava bene, ma ucciderlo con un tradimento di quel genere, no! Il suo cuore si ribellava. E poi!

Non osava scandagliare nelle profondità del suo cuore, nelle quali ondeggiavano e si urtavano sentimenti diversi e opposti.

Il custode era ritornato al castello contento come una pasqua, perché aveva capito che tra il cavaliere e la dama doveva esserci qualche cosa di segreto; e che era nel loro interesse ottenere che su questo segreto si serbasse un profondo silenzio; ciò costituiva per lui, unico testimonio, una piccola fonte di guadagni. Bisognava saperne approfittare.

A mezzodì portò il pranzo al prigioniero.

Blasco lo guardò sospettoso: ma il custode sorrise e gli disse:

"Questo vossignoria può mangiarlo senza paura di sorprese. Viene da una persona..."

Diceva il vero? E se fosse un nuovo tranello? Blasco versò del vino in un bicchiere e disse al custode:

"Bevete!"

Il custode non esitò, e vuotò il bicchiere in un fiato.

"È contento? Vuole che io mangi un po' di tutto?"

"No: potete andare."

Veramente Blasco aveva una fame da lupi e il desinare era stuzzicante; la sicurezza del custode, il suo aspetto tranquillo, gli tolsero ogni dubbio, sicchè, vincendo ogni ripugnanza, si mise a mangiare.

Passarono così i giorni, uno dopo l'altro senza alcuna novità: Blasco aspettava un giudizio che non veniva; pareva che il re lo avesse dimenticato, e il marchese di S. Tommaso non ne parlava più, perché donna Gabriella, a sua volta non faceva il minimo accenno su Blasco. Al contrario, si era manifestata tra le guardie del re, una corrente favorevole a lui. I tre feriti, che andavano guarendo lentamente ed erano in grado di parlare e di occuparsi di qualche cosa, avevano preso le difese di Blasco, che si era comportato lealmente e cavallerescamente e che aveva mostrato un valore eccezionale. Pareva a loro mortificante e disonorevole che un cavaliere, per il solo fatto che si era battuto con guardie del re, e le aveva vinte, fosse punito da altri: era come un affronto a loro; era una intromissione che violava le leggi della cavalleria; era una difesa non voluta, non chiesta, della quale avevano rossore e sentivano dispetto.

Lo stesso marchese di Tournon, loro capitano, aveva dovuto confessare che chiudere in prigione come un malfattore un cavaliere come Blasco da Castiglione era una cosa che non faceva onore alla giustizia del re e se ne era doluto col marchese di S. Tommaso, ma questi si era stretto nelle spalle. Gli editti non facevano eccezioni; anche il re ammirava il valore di quel giovane, ma bisognava dare degli esempi.

La risposta non garbò alle guardie. Champ-aux-arbres, che era il meno gravemente ferito, e nel tempo stesso il più intraprendente e risoluto, disse:

"Perdinci! per uscire da un castello non è necessario un foglio di carta col bollo di sua maestà... Facciamo da noi!"

Ordirono una piccola congiura sulla! quale giurarono di serbare il più profondo silenzio. Bisognava prima di tutto mettersi in relazione col prigioniero, cosa che a loro, che non erano preti nè frati, riusciva un po' difficile. Ma Champ-aux-arbres ci si era messo di puntiglio, per via delle difficoltà.

Una mattina Blasco si vide arrivare un biglietto misterioso d'una scrittura diversa da quella del primo, e di un contenuto che non pareva della stessa anima.

Il biglietto diceva:

Signore,

"La vostra prigionia accora e mortifica persone che onorano il valore. Abbiate fiducia e sperate".

Questo biglietto avvolto attorno ad una pietra cadde sulle ginocchia di Blasco, mentre dormiva, e lo svegliò di soprassalto. Egli guardò la finestra, donde era passato, meravigliandosi di non avere mai pensato che quella finestra poteva sporgere su qualche strada. Pensò di affacciarsi e vedere; la finestra era alta e munita di grosse sbarre; per giungervi bisognava trascinare la tavola, mettervi su lo sgabello e montarvi. Blasco si accorse che dava sopra le mura esterne della rocca, delle quali vedeva già i merli. Giudicò che egli dovesse trovarsi in una torre, e che la altezza dalla finestra al ripiano che correva in giro ai merli dovesse essere almeno di venti palmi. Non capiva bene però se fra la torre e le mura vi fosse una corte, o se quello che gli pareva un ripiano o un passatoio fosse invece una terrazza che giungeva sotto la torre. Mentre Blasco guardava, vide da un lato un soldato, col fucile sulla spalla, venire passeggiando lentamente, fin sotto la finestra, dove giunto alzò gli occhi a guardarvi; indi voltò e tornò indietro.

Se la pietra era entrata dalla finestra, doveva essere stata lanciata appunto da quella terrazza o passatoio, e naturalmente il soldato che passeggiava non poteva essere estraneo al fatto, anzi doveva aver consentito. Aspettò che il soldato ritornasse verso la finestra, e incollando il volto fra le sbarre lo chiamò con un pssì così forte, che quegli alzò vivamente il capo verso di lui.

Blasco sporse la mano fuori, e gli fece un gesto che poteva essere un saluto e un ringraziamento. Il soldato rispose con un gesto delle spalle, che poteva significare:

"Non so niente, e non c'entro!".

A mezzodì, il custode gli portò al solito il pranzo; Blasco era di buon umore, e sedette a tavola con l'animo disposto a fare onore al desinare. Prese il pane per tagliarlo: ma il coltello urtò in qualcosa di duro e di resistente. Stupito aprì il pane e vi trovò una piccola lima triangolare.

Il suo stupore si tramutò in una grande gioia; quella lima rappresentava la sua liberazione. La nascose sotto il pagliericcio e si pose a mangiare, ma la gioia gli toglieva l'appetito.

La sua testa cominciò ad elaborare progetti di fuga. Egli avrebbe segato le sbarre e sarebbe saltato giù nella terrazza. Il soldato era un amico certamente che avrebbe chiuso un occhio e anche tutti e due, cosicchè non c'era da averne soggezione. Egli sarebbe ritornato a Palermo, dove si stimava sicuro; o, anche, avrebbe ripreso il mare, se era necessario, ma prima di allontanarsi sarebbe corso a ringraziare donna Gabriella, giacchè non dubitava punto che doveva a lei quell'invio miracoloso e provvidenziale. Bisogna aspettare la notte per mettersi al lavoro.

Il custode notò che Blasco aveva mangiato pochissimo, eppure non era triste, anzi aveva negli occhi un certo non so che.

"Vengo a darle una notizia" disse a Blasco. "Che notizia?"

"È giunto l'ordine al signor castellano che vossignoria sia condotto nel castello di Termini; oggi con una feluca armata che parte fra una ora..."

Blasco impallidì: la sua fuga svaniva, i suoi progetti si dileguavano, tutto franava, si annientava. Il castello di Termini era una fortezza formidabile, a picco sul mare, e staccata quasi dalla città da larghi fossati, dalla quale non si poteva fuggire senza avere un paio di ali. Esso significava una relegazione della quale non si poteva prevedere il termine.

Che fare?

Quella lima, che gli aveva aperto il cuore alle più vive speranze, gli diventava ora uno strumento inutile, ma chi aveva avuto cura di mandare la lettera e la lima poteva essere utile ancora. Chi era? Donna Gabriella? Non ne dubitava: la diversità della scrittura e il modo nuovo con cui era venuto il biglietto e la forma di esso non escludevano che la dama non fosse la segreta ispiratrice.

Si fece dare da scrivere, e scrisse un biglietto semplicissimo:

"Fra un'ora, parto per il castello di Termini, dove son relegato. Vi ringrazio di tutto, e vi sono devoto e riconoscente per la vita".

"Portate questa lettera alla dama che sapete," disse al custode.

Poco dopo, chiuso in una portantina, circondato da soldati, Blasco fu trasportato alla marina per essere imbarcato sulla feluca che a vele stese, ormeggiata nel porto, era pronta a spiccare il buio.

La notizia di questa partenza si era diffusa subito, e sulla porta della Rocca aveva richiamato una folla di curiosi, i quali volevano vedere il bel giovane cavaliere, come aveva battuto le guardie del re, quelle guardie che, per le loro braverie, per le loro prepotenze erano venute in odio ai cittadini. Il giovane cavaliere era diventato nella fantasia popolare una specie di vendicatore, sul quale si erano condensate le simpatie e l'ammirazione di tutti. Alla notizia che lo mandavano relegato in un castello, con un rigore insolito di cui nessuno sapeva darsi ragione, si addoloravano e si sdegnavano, ritenendo quella punizione quasi come una sfida ai cittadini, un'offesa al sentimento pubblico. Qualcuno cominciava a mormorare, la folla seguiva la portantina, ingrossandosi sempre più cosicchè al giungere al porto erasi accresciuta stringendo e spingendo d'ogni lato i soldati, che stentavano a farsi largo, e che dovettero usare le picche per poter aprire la portantina e farne uscire il giovane.

Blasco aveva intraveduto tra le tendine della portantina la folla e ne aveva udito il mormorio, indovinandone dal tono i sentimenti, ma non immaginava che fosse così densa, come la vide nello smontare. Scorse dei volti minacciosi e gli parve di avvertire il sentore di una sommossa. Un sorriso e una speranza gli errarono sul volto.

"Eccolo! Eccolo!..." gridarono alcune voci al vederlo.

"Com'è bello!" esclamarono alcune popolane.

"Lasciatelo. Lasciatelo!.."

Fu come il segno, come la parola d'ordine aspettata; centinaia, migliaia di voci ripeterono minacciose:

"Lasciatelo! Lasciatelo!..."

Un movimento istintivo, come il flusso di una marea, sospinse e strinse quella folla sui soldati, ai quali le picche diventavano inutili. Essi gridavano:

"Indietro!... indietro... Ordine del re!.."

Ma chi dava loro retta? Chi poteva fermare l'onda gonfiata dalla tempesta?

"Lasciatelo! Lasciatelo! ..."

Blasco era raggiante; con le braccia incrociate aspettava lo scioglimento di quella improvvisa manifestazione di popolo: i soldati invece erano pallidi e si mordevano le labbra per l'ira repressa impotente. La folla approfittò del loro imbarazzo e della loro impotenza, li circondò, li separò uno dall'altro, li disarmò, travolgendoli, respingendoli; Blasco rimase solo.

"Fugga! fugga!" gli gridarono da ogni parte e alle parole si aggiunse il gesto: un'onda di popolo lo trascinò per il borgo di Terranova, mezzo distrutto a causa della cittadella, e, per la via delle mura, lo condusse alla Porta Imperiale, donde si dilungava lo stradale del Duomo.

"Vossignoria fugga! ..."

Blasco si voltò, mandò un bacio alla folla che l'aveva salvato, e un "Grazie" che gli veniva dal cuore commosso, e si lanciò per i sentieri che dallo stradale, penetrando fra boschetti d'aranci e uliveti, salivano verso i colli.