Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte terza, capitolo 1

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Il pomeriggio del 24 ottobre di quell'anno 1714 v'era spettacolo del Santo Offizio. Il giorno innanzi era uscita dal palazzo dello Steri la prima processione per l'apertura dell'atto di fede. Precedeva una cavalcata di cavalieri, alla quale seguiva lo stendardo rosso della S. Fede portato dal principe della Cattolica, la Compagnia dell'Assunta con le torce accese, gli ospizi dei fanciulli dispersi e degli orfani, i frati, le parrocchie, la Congregazione della Pescagione il cui stendardo era portato dal principe di Montevago, e la croce bianca portata dal cavaliere Filingeri: seguivano poi i foristi del Sant'Offizio, gli ufficiali in corpo, i musici, la croce verde portata da un prete in piviale fra le torce accese.

La processione risalì per il Cassaro, lentamente, fino al piano della Cattedrale, dove sopra un gran palco alto da terra circa otto palmi erano state costruite le logge e i banchi per la celebrazione dell'atto; di qua la loggia degli inquisitori, più alta delle altre, di là quella del senato; in mezzo, il banco degli inquisiti; nello spazio l'altare, il pulpito; altre logge erano destinate ad accogliere i magistrati del regno.

La processione salì sul palco, girò fino a che il prete collocò la croce verde sopra l'altare e se ne tornò indietro, per la stessa strada.

Era questa la prima funzione dell'atto di fede con la quale si consacrava quasi quella specie di teatro e se ne prendeva possesso.

Il giorno dello spettacolo la processione si ripeteva, ma con qualche diversità. La Compagnia dell'Assunta andava innanzi senza torce, e senza torce i frati e i preti: e dopo di essi veniva l'alcade a cavallo; i frati della Pescagione invece di torce portavano armi, e fra essi andavano gli inquisiti, che erano venti, dietro i quali seguiva il capitano del Sant'Offizio a cavallo, accompagnato da cavalieri, e poi i consultori, gli avvocati, i qualificatori del Tribunale, il licenziato de Lorenzo con lo stendardo cremisino, e, infine, maestosi e solenni sulle loro mule, i tre inquisitori, uno dopo l'altro, fiancheggiati da nobili e senatori e circondati dagli alabardieri del Vicerè.

Tutto il Cassaro era affollato di gente che voleva vedere gli inquisiti, povera gente, la più parte delle province, ignorante e superstiziosa o epilettica e isterica. Altra folla gremiva il piano della Cattedrale, si addensava sul Cassaro. Nei balconi e nelle finestre dei palazzi prospicienti sul piano altra folla sfolgoreggiava di sete e di gioielli: era la nobiltà, la quale interveniva, come si esprimono i cronisti dell'epoca, "con gale le più esquisite, per celebrare il trionfo della fede".

Il vicino piano del Palazzo Reale, la strada dietro il Duomo, erano pieni di carrozze e di portantine.

Quando la processione giunse nel piano della Cattedrale e salì sul palco, offrì all'occhio uno spettacolo imponente. Dall'alto della loggia, che pareva un trono, i tre inquisitori del regno signoreggiavano la folla e pareva davvero che nelle loro mani fosse il supremo potere, la somma autorità. Intorno a loro le fronti si chinavano per paura; lo stesso Senato, che talvolta osava contrastare con l'autorità del Vicerè, si chinava sommesso dinanzi alla solenne e tremenda maestà di quel fosco tribunale.

Gli inquisiti sedettero sulla gradinata di contro al pulpito; i confrati della Pescagione ve li accompagnavano a uno a uno ed essi guardavano intorno stupiti o confusi, qualcuno vergognandosi; tutti con una certa trepidazione al cospetto di tanto apparato.

Dapprima fecero sedere gli uomini: v'erano fra essi due o tre che vestivano l'abito di frate; poi le donne: una bizzocca, una suora, quattro contadine; ultima era una civile, vestita di nero, pallidissima, che teneva il volto basso come per nasconderlo. Soltanto quando sedette alzò gli occhi sopra la folla, come per cercarvi un volto conosciuto, e tornò a chinarli pieni di lacrime. Era la signora Francesca.

Cominciò la predica. Un frate domenicano, col gesto e con la voce enfatica, dopo un'apostrofe laudativa alla maestà del tribunale e una lode alla "maggior divozione ed esemplarità della nobiltà accorsa" trattò della fede cristiana e della misericordia divina, alla quale era ispirato il santo tribunale, che era sgomento e terrore soltanto dell'ostinata eretica pravità. E proseguì per circa un'ora su questo tono, inveendo, con grandi frasi e simulando una gran commozione, contro i rei: le colpe dei quali, sebbene non meritevoli delle più gravi punizioni, erano nondimeno offese gravissime a la santità della religione e scelleraggini al cospetto di Dio..

V'era della gente che si commoveva alla descrizione delle pene infernali, e piangeva; la signora Francesca pareva impietrita dal dolore e non dava segno di vita. Sembrava ricercasse per quale ragione ella si trovava su quel palco, e in che cosa quelle parole veementi la riguardassero.

Cessata la predica, un altro frate lesse i processi, a uno a uno, chiamando i rei che andavano ad ascoltare la lettura sotto il pulpito, e alla fine confermavano le loro dichiarazioni di sottomissione alla sentenza del sacro tribunale. Quattro di quei disgraziati imputati come bestemmiatori ereticali, che avevano abiurato de levi, erano condannati a essere portati per le strade alla vergogna con la mordacchia, e all'esilio dai loro paesi e dai confinanti, quale per uno, quale per due o tre anni. Un quinto, frate agostiniano di Caltagirone "sortilego e bestemmiatore ereticale" fu condannato alla reclusione in un convento. Vennero dopo due bigami, uno di Girgenti, l'altro di Patti; furono condannati alla frusta per le strade e al remo per tre anni; gli altri frati e diaconi, erano rei di sortilegio e commercio col demonio e proposizioni ereticali; il Sant'Offizio li condannava alla reclusione per cinque anni, quali in conventi, quali all'ergastolo del Sant'Offizio. Poi vennero le donne. Delle vecchie ignoranti erano ree di commercio col demonio e fattucchiere ed erano condannate alla frusta per le pubbliche strade e all'ergastolo; una, tale Barbara, sortilega, eretica, fattucchiera, aveva la più grave condanna: condotta alla vergogna per le strade, duecento colpi di frusta e cinque anni di ergastolo.

La lettura di questi processi e delle condanne procedeva con una monotonia fredda e pesante; quelle gogne, quelle frustate pubbliche, evocavano tristi spettacoli non infrequenti in quel tempo, che lasciavano come un marchio infamante in chi le subiva. Gli animi abituati a ciò non s'impietosivano e gli occhi guardavano con curiosità; forse in segreto qualcuno compiangeva le vittime, ma non osava esprimere il proprio sentimento, per paura di sembrare poco fervido cattolico.

Quando venne il turno della signora Francesca, si notò in una parte della folla un certo movimento di curiosità: il cognome dell'Ammirata, nella qualità di "prosecuto" per l'accusa di far parte della setta dei Beati Paoli, rendeva la moglie un soggetto interessante. Tutti guardavano per vedere se le mogli dei Beati Paoli avessero qualche segno, qualche stemma speciale, che fosse come il sigillo del mistero che circondava la setta.

Ella si alzò vacillando, ascoltò il processo, nel quale tra le formule latine, miscuglio di invocazioni religiose e barbare frasi giuridiche, si esponeva che per prove manifeste, la nominata Francesca Ammirata, nativa di Palermo, fosse rea convinta d'avere bestemmiato e di avere proferito proposizioni ereticali, dubitando di Dio e della sua divina Provvidenza; che durante il processo, lungi dal riconoscere la giustizia divina e il sacro carattere della Santa Inquisizione, avesse ostinatamente pronunciato parole offensive e mostrato animo incline a pravità, e infine che avesse dato fondate ragioni di credere che appartenesse alla setta dei Beati Paoli, la quale usurpava un aggiuntivo proprio della Chiesa, e usava riti che si ritenevano pregiudizievoli alla santa fede.

Nondimeno, persuasa dalla eloquenza dei padri spirituali deputati a convertirla, la signora Francesca Ammirata aveva abiurato i suoi errori, rimettendosi alla previdente giustizia del sacro tribunale, il quale la condannava alla pubblica vergogna con cinquanta colpi di frusta, da somministrare nei luoghi designati, col consueto rito, e a tre anni di reclusione nell'ergastolo del Sant'Offizio.

Alla lettura dell'infame sentenza, la signora Francesca cadde in ginocchio alzando le mani al cielo e gridando:

"Giuro dinanzi a Dio che ci vede, che sono innocente! che sono innocente!"

E da un angolo della piazza una voce esclamò:

"Questa è un'infamia!"

Ma questa voce raccolta dai vicini, non si diffuse; provocò un movimento di sorpresa in quell'angolo; vi sguinzagliò i foristi del Sant'Offizio più vicini, scandalizzati che qualcuno osasse offendere la maestà di quel momento.

Intanto, finita la lettura e consegnati i rei al capitano per l'esecuzione delle sentenze, la processione riprendeva il cammino verso lo Steri, dove si scioglieva.

Erano circa ventidue ore e mezza, e cominciavano le esecuzioni. I rei, posti sopra carrette, una mitra in capo, le spalle nude, le braccia legate dietro le reni, erano flagellati dal boia e dai suoi aiutanti. La carretta si fermava dinanzi l'arcivescovado, a piazza dei Bologna, ai quattro Canti, dinanzi la Vicaria, dinanzi al palazzo del Sant'Offizio dove i condannati erano deposti. A ogni fermata squillava la tromba e il boia frustava. Una folla di curiosi, la maggior parte giovanetti, nei quali lo spettacolo destava gli istinti più bestiali, la seguiva. Del fango, dei torsoli, delle immondizie volavano sul dorso, sul volto di quei disgraziati, tra le ingiurie, gli sghignazzamenti del popolaccio, che prendeva di mira specialmente le vecchie condannate per sortilegio e fatture.

Calava la sera, e il triste spettacolo continuava lungo il Cassaro: ultima a percorrere quel doloroso calvario, come ultima a essere chiamata sul palco, fu la signora Francesca: eretta sul carro, col capo alto ella aveva gli occhi aridi e lucenti come per febbre; il suo sguardo errava di quando in quando tra la folla come in cerca di qualcuno.

Il primo squillo di tromba era stato dato all'angolo del palazzo arcivescovile; i primi colpi di frusta erano caduti sopra le spalle della povera donna, e la carretta si era mossa verso il piano dei Bologna, quando, oltrepassato appena l'angolo del monastero dei Sett'angeli, i buoi che tiravano la carretta precipitarono per terra, come colpiti da un fulmine; la signora Francesca, il boia vacillarono, caddero nel fondo della carretta, in un fascio. Vi fu un momento di confusione: i foristi, le guardie del Sant'Offizio si lanciarono subito sul carro, circondandolo, e ponendosi in difesa, come per assicurarsi della condannata: in quel tramestio un uomo sgusciò di fra le ruote del carro, e si confuse tra la folla.

I guidatori cercarono di rialzare le bestie, ma si accorsero che avevano i garretti tagliati; lo stupore della scoperta accrebbe la confusione; alcune persone tentarono di avvicinarsi al carro; delle mani si stesero, ma balenarono nell'aria le punte delle alabarde; risonarono grida di allarme; allora accorse il capitano a cavallo con alcuni cavalieri, accorsero le guardie urbane del vicino palazzo pretorio; la folla diede addietro respinta gagliardamente: la signora Francesca presa, tolta dal carro, gettata sulla groppa di un cavallo e circondata di guardie, fu portata via al palazzo dello Steri senza frustate. Non pareva una condannata ricondotta in carcere, ma una dama rapita.

La folla si radunò nuovamente, avvicinandosi al carro rimasto abbandonato, e ai buoi, coi piedi sanguinanti, che muggivano dolorosamente e per tutte le bocche correvano commenti pieni di stupore e di un certo sgomento.

Al palazzo del Sant'Offizio non furono poco meravigliati del fatto, nuovo negli annali dell'Inquisizione di Sicilia, e inaspettato. Era evidente che si era cercato di sottrarre la signora Francesca al supplizio della frusta e della pubblica vergogna, e che autori di questo attentato, che parve una gravissima e sacrilega offesa alla maestà del sacro tribunale, non potevano essere che i complici del marito, i settari cioè Beati Paoli, i quali davano così una prova della loro tracotanza.

Ma questa non salvò la signora Francesca dal supplizio, poichè la condanna doveva avere pieno effetto. Gli inquisitori la rimandarono al giorno dopo, limitando la mostra pubblica alla piazza Marina e facendo circondare la vittima da un vero esercito di guardie.

Il boia la staffilò; ma i curiosi, avidi di spettacoli tragici, notarono ancora che il boia di tanto in tanto guardava tra la folla con occhio sospettoso e pauroso.

E infatti tra la folla v'erano occhi che lo seguivano, minacciosi e torbidi.