Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte terza, capitolo 10

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Matteo Lo Vecchio era tornato a Palermo e si era presentato a don Raimondo con la sicurezza che Blasco era morto e sepolto. Si può dunque immaginare il suo stupore e si può anche dire il suo senso di sgomento, quando udì il bando che colpiva il giovane, sfuggito alla giustizia, come reo, fra l'altro, di avere ucciso quattro compagni di arme.

"Uccisi tutti e quattro? Ma se mi aveva assicurato che l'ultimo gli era sfuggito!".

Allora il pensiero che lo aveva tormentato durante la sua breve dimora a Messina e che l'aveva accompagnato a Palermo, lo riprese: i dubbi, i sospetti che lo avevano assalito fin dal principio, rinacquero più gagliardi.

Egli si affrettò a domandare un nuovo permesso "per affari di giustizia", e senza neppure farsi vedere da don Raimondo ripartì per Cefalù. Poichè i quattro compagni d'arme dai quali s'era fatto scortare appartenevano a quella compagnia rurale, era quella la fonte per attingere le notizie più precise. Questa volta non ricorse ad alcun travestimento: il suo vestito nero di algozino, e più di esso l'ordine di cui era munito, erano i mezzi più efficaci per un'indagine che poteva sembrare ordinata dal governo.

Ma le notizie raccolte a Cefalù riconfermarono quelle pervenute a Palermo. I quattro compagni erano realmente morti: due erano stati raccolti ancora feriti e trasportati nel paese più vicino, dove uno appena giunto, era morto; l'altro era vissuto cinque o sei giorni ancora, poi era morto anche lui, però aveva avuto il tempo di fare la sua narrazione.

A Cefalù c'erano le vedove e le madri; Matteo Lo Vecchio andò a trovarle. Quelle donne, fresche di lutto, disciolsero i capelli e cominciarono a "recitare" le lodi dei defunti con accento così drammatico da parere che il morto fosse ancora in casa. Egli domandò se avessero trovato addosso ai compagni delle carte ripiegate, involte in un foglio e legate con un nastro. Ma di carte non se ne erano trovate punto. Che carte? Quei poveretti non sapevano leggere neppure, e non avevano mai avuto da fare con la roba scritta o stampata.

Matteo Lo Vecchio ne fu desolato; se le carte non s'erano trovate ad osso a nessuno dei compagni, era chiaro che qualcuno le aveva portate via e questo qualcuno non poteva essere che Blasco da Castiglione.

"Il brigante! Ha avuto il coraggio di darmi le bisacce, dopo di averle vuotate! Brigante! Certo le avrà date ai suoi compagni... Mi ha derubato!.. mi ha assassinato!..."

Egli si sentiva davvero rubato, perché con quelle carte in potere suo contava di tirare un grosso colpo al duca della Motta che, certamente, per venirne in possesso e distruggere quelle testimonianze, avrebbe dato metà del suo patrimonio. Questa ricchezza ora sfuggiva dalle mani del birro: la speranza di ritrovarle in potere di qualcuno dei compagni svaniva: quella di poterle riprendere ai Beati Paoli, cui certamente erano ritornate, o anche a Blasco, era così lontana che gli appariva irrealizzabile.

"Se le ha quel brigante, non se le lascia ritogliere. E poi dov'è? Dove sarà andato a rompersi le corna? Per quanto audace, il malandrino non si lascerà vedere... Vediamo un po' aggiunse poco dopo per darsi coraggio, - vediamo un po', Matteo, di riordinare bene le idee e trovare la maniera di metterci sulla strada. Oh, che hai perduto forse il naso, il tuo buon naso? ..."

Ritornò a Palermo sconfitto, per quanto si ripromettesse di riuscire a trovare Blasco o a sapere, almeno, dove fossero quelle carte e questa meta gli faceva dimenticare la rivincita che voleva prendersi sui Beati Paoli. La vendetta sarebbe venuta dopo.

Entrando in città dalla Porta S. Agata, come quella più vicina a casa sua, passò dinanzi l'abitazione di Antonino Bucolaro, che egli aveva incominciato a seguire e studiare, per trarne partito.

"Bisogna, pensò - che stringa costui. Egli mi pare che sia uno dei pezzi grossi e deve sapere parecchie cose".

Antonino Bucolaro non era dottore di tribunale, perché non era mai andato all'Università di Catania, nè aveva seguito i corsi di diritto nelle scuole dei gesuiti, tuttavia frequentava le aule dei tribunali, sollecitatore e patrocinatore di piccole cause della povera gente.

Non conosceva le istituzioni giustiniane, nè il giure siculo, ma era esperto nei cavilli e nei raggiri ed era buon amico di parecchi giudici, sui quali qualche volta esercitava un ascendente che stupiva gli avvocati di maggior fama.

Si era certi di incontrarlo, la mattina, al palazzo pretorio, dinanzi la porta pretoriana, o al palazzo reale, dinanzi alle aule a pianterreno dove si adunavano i tribunali; e talvolta al palazzo arcivescovile, che aveva anch'esso una sua corte per giudicare certi reati di sua pertinenza. Perché in quei tempi v'erano a Palermo più "fori", come si dicevano, ognuno dei quali vantava privilegi e diritti concessi dai re. Oltre al magistrato regio, che aveva potestà su tutto il regno, v'era il "foro" del Sant'Offizio, il quale aveva diritto non soltanto d'inquisire in materia di fede e di costumi, ma anche di giudicare i suoi "foristi", cioè coloro che come familiari, per devozione o per uffici, erano iscritti o dipendevano da quel fosco tribunale; v'era il foro arcivescovile, che aveva sue speciali giurisdizioni anche come signoria feudale chi godeva del mero e misto impero, in segno del quale, sulla porta, teneva inchiodata quell'elsa, che v'è ancora, fonte di leggende; v'era la corte pretoriana, che aveva diritto di giudicare i cittadini palermitani; e vi era il Tribunale della Monarchia che aveva speciale giurisdizione sulle cose regolari e sulle chiese regie e in certi casi canonici.

Spesso i diritti dell'uno contraddicevano o urtavano i diritti dell'altro onde conflitti, che assai spesso finivano col sottrarre il colpevole alla giustizia, e che la stessa autorità viceregia non arrivava a comporre. Qualche volta ne seguivano scomuniche, interdetti, assedi ed episodi veramente buffi.

Antonino Bucolaro, dunque, bazzicava tutti questi fori, dove c'era sempre qualche cliente da pelare a cui, se non altro, c'era da beccare un paio di galline, o un mezzo barile di vino di Partinico e dove le miserie e le ingiustizie umane si rivelavano in tutta la loro nudità. Se non per quelle aule, si era certi di incontrarlo alla taverna della "Perciata", all'estremità della piazza Ballarò: una taverna frequentata da tutti questi causidici di... bassa corte, come il Bucolaro.

Matteo Lo Vecchio era abbastanza conosciuto in tutto il quartiere della Albergheria, per fingere d'avere bisogno dell'assistenza e dei lumi giuridici di Antonino Bucolaro e non poteva questa volta ricorrere a quel suo trucco di abate, che, ne era sicuro, gli avrebbe attirato le vendette di Antonino Bucolaro e, forse, l'avrebbe dato in potere dei Beati Paoli. Bisognava affrontarlo in una maniera diversa. Quale?

Cominciò a indagare se mai il Bucolaro avesse qualche vecchio conto da liquidare con la giustizia, cosa che non era difficile in quei tempi, e intanto gli pose addosso una sorveglianza rigorosa e assidua, per vedere di coglierlo in pena, come contravventore ai bandi. C'era il divieto di portare armi, c'era la prammatica del re contro i giuochi...

Ma pareva che Antonino Bucolaro fosse il modello dei sudditi. Oltre la spada, non gli si vide mai portare altre armi: la spada gli era consentita dalla sua condizione, giacchè egli non era plebeo, ai quali era fatto divieto anche di portare la spada; e di giuochi, non lo si vedeva mai con le carte o coi dadi in mano in un luogo pubblico... Eppure nella taverna de la Perciata si giuocava a zecchinetta o a primiera, in una stanzetta appartata che aveva un'uscita nel vicolo che prende il nome dal famoso conte Cagliostro; uscita per così dire segreta, che aveva fatto dare il nome alla taverna.

Antonino Bucolaro qualche volta giocava anche lui: una partita e non più; ma più spesso si fermava a veder giocare, entrando quasi sempre a giudice nelle controversie fra i giocatori.

Una mattina, in cui aveva avuto un gran da fare ed era di buon umore, entrò nella taverna per bere, al solito, il suo bicchiere di vino e diede una capatina alla stanzetta. V'erano cinque o sei uomini raggruppati intorno alla tavola, e sembravano accalorati nel giuoco. Un altro, seduto, tenendo nella sinistra un mazzo di carte, con la destra le andava sfogliando. Sulla tavola ci erano tre carte, che sparivano sotto le puntate.

"A voi, don Antonino!" esclamò chi teneva il banco, vedendolo, Ecco un cavallo... Non puntate? Donna, cavallo e re, puntavi quanto c'è... Asso... cinque... re... cinque... due... sette... cavallo... Toh! l'avete scampata; avreste perduto."

Antonino Bucolaro puntò sopra una delle due carte e perdette; puntò una seconda volta e perdette. Se ne indispettì, e il dispetto lo fece infervorare nel gioco.

"Voi," disse, "non sareste buono a vincermi a primiera..."

"Vi prendo in parola..."

Cominciarono la partita: Antonino Bucolaro vinse e la soddisfazione fu così grande, che pareva avesse riportato una vittoria strepitosa in una giornata campale. L'avversario gli disse:

"Mi dovete la rivincita..."

"Adesso no; è tardi e devo andare al tribunale del Concistoro, per alcune informazioni, ma, se volete, stasera o domani..."

"Vada per questa sera..."

Sebbene scrivano, l'avversario di Antonino Bucolaro era una spia, che faceva il compare di Matteo Lo Vecchio; il birro seppe della nuova partita fissata per la sera e prese le sue misure. Andò a trovare il caporonda del quartiere dell'Albergheria e lo avvertì, ma con un fare ambiguo e pieno di sottintesi, che l'eccellente caporale capì perfettamente.

"Voi, insomma," concluse Matteo Lo Vecchio, "sapete quel che dovete fare. Rigore, inflessibilità, ecc. ecc."

"Ma... chi?" domandò il caporale, sfregando il pollice contro l'indice e il medio e tenendo socchiuse le altre due dita; gesto espressivo che significava "e i denari?".

"Non ci pensate. Rispondo io."

"Va bene."

A un'ora di notte, infatti, la ronda piombò nella taverna della Perciata, entrando nella stanzetta, a sorprendere i giocatori; vi fu un po' di parapiglia. Il caporonda gridava:

"Vi ho in pena... La prammatica reale conta chiaro!..."

I giocatori protestavano: qualcuno offerse del denaro, ma il caporonda fu inflessibile, contro le abitudini; alle grida e al chiasso entrò, deus ex machina, Matteo Lo Vecchio, e con una faccia nuova e quasi stupita, domandò di che si trattasse; finse di udire il caporonda; guardò Antonino Bucolaro e lo scrivano, stringendo le labbra e scotendo la testa come per dire che la cosa era grave, e finse di intromettersi.

"Vediamo un po';" disse "si tratta di persone a modo: sono del mio vicinato. La cosa si può aggiustare... Gettiamovi dell'acqua e non se ne parli più..."

"Ma la contravvenzione... Gli uomini della ronda hanno diritto..."

"Che diritto? Ne rispondo io... Lasciamo andare: per una volta si può chiudere un occhio. Don Antonino non è uomo poi da non sapersi disobbligare..."

Il caporonda finse di resistere, finalmente cedette, promise di non tenere conto di nulla, minacciò per lo avvenire, e se ne andò. Lo scrivano allora disse:

"Se non era per lei, don Matteo, quella bestia ci portava nelle carceri della Corte..."

"Oh! non l'ho fatto per te," esclamò il birro "che non è la prima volta, ma per rispetto di don Antonino che merita anche più di questo..."

"Vi ringrazio e ve ne sarò riconoscente," disse il Bucolaro, meravigliato della cortesia del birro, "e spero che mi accetterete un bicchiere."

Ordinò del vino, che bevvero.

"Mi direte che cosa bisogna dare alla ronda..."

"Alla ronda? Ma niente, neppure un grano!..."

"Diavolo! hanno perduto la multa che spettava a loro..."

"Non importa... Penserò io... Non vi date pensiero. Che diamine ci sono contravventori e contravventori, e bisogna avere buon naso. Se vogliono, possono rifarsi."

Abbassò la voce e in confidenza aggiunse:

"Della prammatica reale i signori se ne fregano..." e fece un gesto indecente. "Se il caporonda vuole pagarsi la nottata, faccia la posta al primo barone o conte che sia, e gli guardi la carrozza e le vesti... Vedrà che contravvenzione... e che mance per farlo stare zitto!... So io come vanno le cose!"

"Intanto ci avete levato d'impiccio!" disse Antonino Bucolaro, ancora stupito della "parte d'amico" compiuta dal birro.

"E ci fa risparmiare qualche onza!" aggiunse lo scrivano...

"A te l'avrei fatta pagare volentieri; devi ringraziare Sant'Antonio."

Alludeva al Bucolaro. Uscirono dalla taverna e si congedarono, ma, appena fatto un passo, Matteo Lo Vecchio si voltò e chiamò:

"Don Antonino, scusate: una parola..."

Lo scrivano allora disse:

"Fate col vostro comodo: io ho un affaretto e me ne vado."

Quando furono soli, Matteo Lo Vecchio si guardò intorno sospettoso e disse a voce bassa:

"Don Antonino, siate prudente... c'è qualcuno che sa dove andate certe notti..."

Il Bucolaro fece un viso da imbecille.

"Non capisco..."

"Se vi fa comodo fingere di non capire, fate pure. Vi dico però che... Insomma, io, per l'ufficio mio, non dovrei avvertirvi, vi coglierebbero alla sprovvista, non potreste scappare... Ve lo dico io..."

"Ma di che si tratta?..."

"Quando vi dirò due nomi, capirete: Girolamo Ammirata e Andrea Lo Bianco."

Antonino Bucolaro restò impassibile, ma nei suoi occhi balenò un lampo che non sfuggì al birro.

"Non li conosco" disse freddamente.

"Sarà, ma c'è chi vi ha veduto con loro in una certa osteria al bivio di Brancaccio... Insomma, io vi ho avvertito; fate quello che credete. Avrei potuto tacere, perché infine col mio avvertimento impedisco alla giustizia il suo corso... Ma siamo del vicinato... e io ho sempre avuto stima per voi. Fate conto che non vi abbia detto nulla... ma se volete ascoltarmi... la notte non uscite..."

"Di notte, io? Ma di notte dormo..."

"Sì, sì, come volete. Io, lo vedete bene, non vi domando cosa fate e dove andate... Vi dico soltanto: guardatevi. Mi dispiacerebbe dover essere obbligato ad arrestarvi... Buonanotte!"

Lo lasciò titubante e scosso. Antonino Bucolaro non sapeva se dovesse credere alla sincerità del birro; certo confessava che Matteo Lo Vecchio dovesse sapere più di quello che diceva, e che poteva benissimo usare silenzio, non avendo verso di lui alcun obbligo. E poi, anche se ne avesse avuto, quando mai un birro ha sentito obblighi di riconoscenza o di riguardo verso chicchessia? Era forse astuzia per tirargli dalla bocca qualche segreto? Matteo Lo Vecchio era capace di tutto.

"Starò in guardia, - pensò - sì, ma anche contro di te; non per nulla sei l'imperatore degli sbirri!...".

Così pensò, ma intanto il sospetto, la curiosità, l'interesse erano entrati nell'animo di Antonino Bucolaro, e per un impulso naturalissimo si sentì da quella volta in poi spinto verso il birro, un po' per cercare di scoprire qualcosa, un po' per tenerlo d'occhio. Matteo Lo Vecchio vedeva, rideva sotto il naso, e quando era solo si dava una fregatina di mano e diceva:

"Va bene! Va bene! caro don Antonino, t'insaccherò".

Una mattina, finalmente, Matteo gli disse in fretta in fretta:

"Se avete qualche cosa da nascondere o da fare sparire, fatelo subito... Più tardi verranno gli algozini a perquisire la vostra casa. L'ho saputo or ora, e sono corso ad avvertirvi."

"Grazie, grazie!..." rispose Antonino Bucolaro, commosso, "ma io non ho nulla da nascondere..."

Nondimeno corse a casa; dopo una ora un algozino con alcuni birri andò a frugare e a mettergli sossopra la casa; egli pensò:

"Matteo Lo Vecchio aveva ragione! Assolutamente, bisogna tenerselo amico, perché in fondo è un brav'uomo checchè ne dicano!... Almeno per quanto riguarda me".

Pochi giorni dopo, il birro lo fece fermare di notte da una ronda, appostata con fine strategia. Era sicuro che il Bucolaro avesse armi da fuoco contro il divieto e che l'avrebbero preso in pena. Così avvenne. Antonino Bucolaro cercò di corrompere il caporonda, per farsi rilasciare: cosa ordinaria e abituale; ma stavolta il caporonda tenne duro. Per fortuna, mentre attraversavano la strada nuova per condurre il colpevole nelle carceri del Pretorio, incontrarono Matteo Lo Vecchio. Antonino Bucolaro, illuminato da una improvvisa speranza, lo chiamò:

"Don Matteo!"

Il birro, che fingeva di non essersene accorto prima, si voltò a un tratto, simulando un certo stupore:

"Don Antonino? Voi?... Che cosa è accaduto?..."

S'informò, s'intromise, parlò allo orecchio del caporonda, si fece consegnare le armi, e tutto finì con un buon bicchiere di vino, bevuto fraternamente, in una taverna del vicolo dei Mori, che alla voce di Matteo Lo Vecchio aprì la porta già chiusa per l'ora tarda.

Quando uscirono dalla taverna, prima di separarsi, Matteo Lo Vecchio sussurrò all'orecchio di Antonino Bucolaro:

"State in guardia, ve l'ho già detto. Si hanno forti sospetti sopra di voi e siete sorvegliato e spiato... E io non sempre posso intervenire..."

Quest'altra prova di amicizia finì con l'abbattere gli ultimi dubbi; fra Matteo Lo Vecchio e Antonino Bucolaro cominciò una certa corrispondenza amichevole, che non ebbe apparentemente alcuna intimità per volere del birro, il quale disse:

"Don Antonino, voi sapete se vi voglio bene, ma non fate vedere che siamo buoni amici, perché sospetterebbero di voi... Capirete, la mia professione... E i vostri amici non mi vedono di buon occhio..."

"Ma di che amici parlate?..."

"Eh, credete che sia uno sciocco?... Lasciamo andare: piuttosto, tenetevi in guardia."

Antonino Bucolaro si guardava in verità dalla giustizia ed era diventato sospettoso, ma non si guardava dai Beati Paoli, ai quali aveva dato nel l'occhio l'averlo visto talvolta con Matteo Lo Vecchio, e più il saperlo uscito da qualche imbarazzo per intervento del birro. Essi cominciarono a sorvegliarlo, senza che egli se ne avvedesse, e a trattarlo con una certa riserbatezza.

Don Girolamo Ammirata, al quale, come uno dei capi, giunsero quelle notiziole, ritornò subito al primo sospetto concepito per la sparizione dei famosi documenti. Andrea partecipò a quel sospetto: Coriolano, col quale comunicava soltanto don Girolamo sotto l'abbazia del Parco, ne fu colpito. Si deliberò di affidare a qualche fratello dei più abili, non conosciuto come Beato Paolo da Antonino Bucolaro, l'incarico di sorvegliarlo e di appurare se egli avesse involato quei documenti e a chi li avesse consegnati.

Così, per due strade opposte, Antonino Bucolaro si trovava oggetto di investigazioni e di spionaggio. Matteo Lo Vecchio mirava a scoprire se i documenti fossero ritornati in possesso dei Beati Paoli; questi invece volevano accertarsi della strada presa dai documenti stessi, e se il loro compagno fosse un traditore. Antonino Bucolaro, senza saper nulla di tutto ciò, cadeva a poco a poco nella pania.

Una mattina Matteo Lo Vecchio, passando dalla casa di Antonino Bucolaro, vide sulla porta una gran folla di gente; si avvicinò per informarsi e seppe che c'erano gli algozini per pignorare la roba del Bucolaro, il quale non aveva pagato un censo che gravava sulla sua casa. Allora entrò, approfittando di quella occasione, per rendergli qualche altro servizio e potè persuadere i suoi colleghi a sospendere gli atti perché si sarebbe trovata una via di accomodamento.

Il Bucolaro era avvilito per la vergogna e se ne stava in un canto. Non gli era mai capitata una cosa simile! Gli era capitata una serie di disastri economici, che l'avevano costretto a mancare a tutti i suoi impegni, e anche, perché negarlo? a patire la povertà. Ora quell'invasione di algozini gli pareva una pubblica dichiarazione di miseria, che lo faceva arrossire.

"Su, animo!" gli disse Matteo Lo Vecchio. "Sono cose che possono capitare anche a un barone del regno!"

E dopo un po' di silenzio, mormorò, come parlando con se stesso:

"Eppure la ricchezza l'ha a portata di mano!... Solo che voglia!..."

Antonino Bucolaro si riscosse e guardò Matteo Lo Vecchio, il quale però non disse più nulla e il discorso per quella volta finì lì: ma quelle parole penetrarono nel cervello e cominciarono a succhiellare: in che modo la ricchezza era a portata della sua mano? E che cosa avrebbe dovuto volere? Ci pensò tutto il giorno. La mattina dopo il birro fece in modo di farsi incontrare; gli domandò come andavano le cose, sospirò di rammarico e fece una lontana allusione a quella ricchezza che era facile acquistare. Antonino Bucolaro si rodeva dalla curiosità, e nel tempo stesso sentiva crescere il desiderio. Disse:

"Eh! se sapessi come si diventa ricchi, non sarei così minchione da rifiutare!..."

Ma per quella volta il birro non disse nulla.

Qualche altro giorno dopo, Matteo Lo Vecchio se ne andò alla taverna della Perciata e vi aspettò Antonino Bucolaro.

"Ho pensato a voi, disse "e vorrei parlarvi..."

"No, questo non mi sembra il luogo adatto... Vi aspetto fra un'ora nella chiesa dell'Annunziata a Porta Montalto... Nel chiostro potremo parlare più liberamente."

Quando si ritrovarono sotto il portico che circondava il piccolo giardino dell'Annunziata, Matteo Lo Vecchio disse:

"Don Antonino, io so tutto..."

"Che cosa?"

"So tutto quello che i Beati Paoli hanno raccolto contro il duca della Motta..."

Antonino Bucolaro trasalì e non potè dominare un moto di stupore e di paura. Tentò fingere:

"Non capisco di che mi parlate..."

"Fingere con me è tempo perso; sapete il proverbio che dice: fra greci e greci non si vende albegio; so quello che hanno deposto Giuseppico, Peppa la Sarda, Andrea Lo Bianco e don Girolamo, e so chi è Emanuele, il creduto nipote di don Girolamo.... So anche la parte che avete avuto voi... E se ne volete di più, vi dico che so anche che i documenti raccolti dalla... società o tribunale, come volete chiamarlo, furono involati..."

Antonino Bucolaro diventava bianco, rosso, giallo; guardava il birro con uno stupore sempre crescente e non sapeva che cosa rispondere, perché non capiva, nè sapeva spiegarsi in che modo Matteo Lo Vecchio fosse a conoscenza di tutto. Il birro continuò:

"Come vedete, ho tante prove in mano da potervi, ora o più tardi, arrestare e mandarvi sulla forca, come Zi' Rosario e il sagrestano di S. Matteo. Non l'ho fatto perché ho avuto per voi una grande simpatia, e non lo farò... Ma in cambio del mio silenzio e della mia generosità verso di voi, io vi domando di associarvi con me..."

Antonino Bucolaro fece un gesto di sdegno.

"Oh, non vi offendete così presto;" continuò il birro "non vi propongo di fare la spia e di denunziare i vostri compagni, che del resto io conosco. Soltanto vi offro di diventare ricco; noi diventeremo ricchi... alle spalle del duca della Motta... Mi spiego. Bisogna impadronirsi di quelle carte e venderle al duca, che le pagherà con mezzo patrimonio... potete immaginarlo! ..."

Antonino Bucolaro s'era fatto torbido di sdegno e d'ira repressa.

"Don Matteo," rispose "se non avessi qualche obbligo verso di voi, non vi farei uscire da questo convento... Avete l'ardire di proporre a me, a Nino Bucolaro, una cosa simile?..."

"Toh! e che vi ho forse invitato a venire dal capitano di giustizia, per denunziare i vostri compagni?..."

"Io non ho compagni e non so di chi vogliate parlare..."

Il birro fece un gesto di dispetto.

"Fatemi il piacere di lasciare queste finzioni!..."

"E se ne avessi, mi credete capace di un tradimento?..."

"Tradimento? Scusate: dov'è il tradimento?.. Qui non si tratta che di pezzi di carta... Quello che queste carte contengono in fondo lo sapete voi, lo sa don Girolamo, lo sa Andrea Lo Bianco, lo sapranno altri e certamente non possiamo cancellarlo dalle loro teste... Avere o no queste carte è tutt'uno; ciò che essi vogliono fare, nessuno potrà impedirlo... ma intanto con quei pezzi di carta noi possiamo arricchire. Capite questa parola? Arricchire! Avere danari a palate, avere servi, carrozze... essere tanti duca della Motta, avere questo signore nelle mani... Che andate cercando di più?... Altro che paura degli algozini che vengono a prendervi la roba e a buttarvi in mezzo alla strada! ..."

Antonino Bucolaro taceva: quella ricchezza che gli balenava dinanzi agli occhi, gli faceva girare la testa; ripetendosi il ragionamento del birro conveniva che non diceva una cosa stramba. Infatti i Beati Paoli potevano "lavorare" contro il duca anche senza carte. D'altronde non erano state rubate? Le possedevano più, forse?...

Un gran cordoglio gli strinse il petto; tentò ancora di resistere:

"Finiamola con questi discorsi! ..."

"Come volete. Ho voluto però farvi capire che non volevo indurvi a compiere un tradimento. Fate conto che la società non possegga più quelle carte... Che scrupoli avreste a servirvene, se le trovaste?... Rispondete..."

Certo, che scrupolo avrebbe potuto avere? Ma dov'erano le carte? Chi le aveva?... Magari potesse trovarle!...

"Vedete bene, dunque, che ho ragione io? Via, don Antonino, parliamo seriamente! Certi scrupoli sono da sciocco, non sono da uomo come voi..."

"Ma chi ha quelle carte?..." disse Antonino.

"Come, chi le ha?..."

"Voi sapete che furono rubate... lo avete detto..."

"Sì, lo so, come lo sapete voi... Ma non le avete riprese?"

"No, no."

"E allora so io chi le ha: o meglio lo suppongo."

"Voi?"

"Io, sì. Vedete bene che ne so più di voialtri."

"Voi sapete chi le ha?"

"Le ha uno dei vostri..."

"Uno dei nostri?"

"Sì... Ma dal momento che rifiutate l'affare che vi propongo è inutile dirvene il nome..."

Antonino Bucolaro tacque; trascinato, suggestionato dal birro aveva risposto in modo da confessare implicitamente quanto prima aveva negato, e se ne avvedeva ora, troppo tardi per pentiva di aver negato, si pentiva di essersi lasciato cogliere, si rammaricava di tutto, ma soprattutto di non sapere chi possedesse quei documenti. Matteo Lo Vecchio, che lo studiava, sospirò e concluse:

"Perdonatemi il disturbo; fate conto che non ci siamo visti. Vi saluto, io salgo su a visitare il padre guardiano, così usciremo separatamente... Arrivederci..."

Fece alcuni passi verso la scala, per andarsene. Antonino Bucolaro si scosse: qualche cosa passò nel suo cervello rapidamente.

"Don Matteo," disse "aspettate un po', non partite così presto... Diamine!... Venite qua, discorriamo."