Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte terza, capitolo 11

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Il giorno seguente a quel suo non cercato ricevimento tra i Beati Paoli, Blasco si levò dal letto con una grande e opprimente tristezza. Le parole rassicuranti di Coriolano non erano valse a togliergli ogni apprensione: non metteva in dubbio che le due donne sarebbero state rispettate, ma chi avrebbe potuto impedire lo spavento di quelle povere donne, di Violante? Ah, Violante! Violante! Il suo cuore urlava disperatamente quel nome, dentro di sè, nell'impotenza di poter correre in suo aiuto. Dov'era? Dove l'avevano condotta? Per quanto avesse cercato di sapere il luogo destinato alle due donne, non aveva potuto cavare di bocca a Coriolano una sillaba.

"Perché volete saperlo?" gli disse il cavaliere della Floresta. "Voi non potrete far nulla; del resto, a suo tempo, non soltanto ve lo dirò, ma - (e qui sorrise) vi giungerete come un liberatore, e accrescerete d'un'altra pagina il vostro romanzo."

Blasco, dunque, dovette ricacciare dentro dolori e desideri, ma non potè impedire al suo cervello di pensare. Che cosa avrebbe fatto? Come avrebbe trascorso quei giorni di dolorosa aspettazione? Uscire non poteva, per quel bando che gli pesava sul capo: sarebbe stato lo stesso che farsi arrestare e gettare in qualche sotterraneo e ora più che mai gli premeva di essere libero e padrone della sua persona. Anche quella a cui era costretto era una prigionia, ma la notte era libero e poteva uscire senza soggezione, giacchè la giustizia non era vigilante nè così sollecita da rendere pericoloso l'andare di notte, salvo ad avere delle spie intorno. Blasco contava su questa sicurezza, per potere fare quattro passi, fino a tanto che, liberata Violante, postala in condizioni da non essere più esposta a pericoli, appianata ogni difficoltà, avrebbe potuto partire dal regno, per sottrarsi al bando e per cercare fortuna.

La notte dopo, prima della campana dei morti, Blasco si recò al convento di San Francesco per cercare padre Serafino da Montemaggiore. Aveva una grande curiosità di sapere che cosa gli avrebbe dato il frate, da parte del buon fra Bonaventura. Denari forse: ne aveva bisogno, e sarebbero arrivati a proposito. Comunque, sarebbe stato un nuovo e dolce ricordo per il suo spirito. Aspettò in portineria, dove fra Serafino venne a trovarlo, strascinando i piedi. Era molto vecchio e aveva i capelli candidi e le gambe malferme. Blasco gli baciò la mano e gli si annunziò:

"Sono stato a Caccamo, ho chiuso gli occhi del mio buon padre Bonaventura, ed eccomi qui da lei... Vostra paternità ha qualche cosa da rimettermi, mi disse fra Bonaventura..."

"Sì... difatti. E se voi non vi foste affrettato, chi sa se avrei potuto eseguire l'incarico di fra Bonaventura. Ho ottantasette anni, figlio mio, e la morte è arrivata già sulla soglia... Sì, proprio ho qualcosa da dirvi!... Povero frate Bonaventura!... era mio penitente. Un sant'uomo, proprio un sant'uomo!... Requiescat in pace. Aspettatemi un po', figlio mio; vado su in cella: non mi aspettavo la vostra visita... Povero padre Bonaventura! Fu un colpo per lui... Era così attaccato al convento!... fu un colpo! Ma..."

Uscì dalla portineria ripetendo quelle parole, con l'insistenza dei vecchi. Blasco incrociò le mani sul petto e si sprofondò nei suoi ricordi. Quando era fanciullo, e la sera lo coglieva nella portineria o nella chiesa, perduto nell'ombra, attorniato da immagini che risaltavano cupe dai quadri provava una specie di terrore religioso, un senso dell'infinito. Ora vedeva quasi gli stessi quadri, le stesse seggiole impagliate, la stessa lampada e pensava alla sua fanciullezza, che gli pareva così lontana, così diversa, una cosa che non era mai esistita. Allora non sapeva che cosa fosse la tristezza, perché non aveva mai interrogato le intime latebre del suo cuore; era audace, temerario, chiassoso, pronto alle risse; tornava al convento sempre con qualche strappo sulle brache o sul giubboncello. P. Giovanni lo sgridava ed egli se ne rideva. Dov'erano i suoi amici d'allora? Dov'era i! suo cane, il buon Lampo che lo aveva salvato dal lupo? Dov'era la tenera Elisabetta, che nella fuga da Tunisi aveva offerto il suo seno per salvarlo dai colpi dei saraceni? Tutti morti, tutti morti!... Memorie, nomi e null'altro. Null'altro? Oh, no; vivevano ancora nel doloroso rimpianto che gli gonfiava il cuore.

Udì il passo strascinato di fra Serafino che rientrava nella portineria con un sacchetto in mano.

"Del denaro!" pensò Blasco con amarezza. Forse avrebbe desiderato qualche cosa più spirituale e più cara.

Padre Serafino sedette, si pose il sacchetto sulle ginocchia e ne trasse una lettera un po' gualcita, accuratamente sigillata.

"Questa è una lettera per voi," disse "e qui dentro ci sono quaranta onze, che ho l'ordine di rimettervi. Eccovele, sono tutte doppie... Venti pezzi di oro."

Blasco più che il denaro guardava la lettera, con un oscuro presentimento che essa contenesse qualche cosa che lo interessasse grandemente. Prese e conservò ogni cosa, e congedatosi dal padre, ritornò a casa, per leggere con comodo la lettera. Quando si fu chiuso nella sua camera al lume di una lucerna a due becchi, ruppe con mano trepidante i sigilli, ma appena svolse il foglio, un altro foglietto ingiallito e ripiegato gli cadde sul tavolo. Lo prese, l'aprì, lesse e mandò un grido di stupore. Il foglietto diceva nel barbaro latino parrocchiale:

I. M. I.

Fidem facio, die vigesimo mensis novembris a D. MDCLXXXVIII in hac ecclesia metropolitana bapiizzatum esse in fiantum, cui positum nomen Blascus, filius ill'mi magnifici domini Emanuelis Albimontis ducis Mottae, et Cristinae Giurlandae. Padrini m. Agostinus et Maria Magdalena Russus, coniuges.

D. Joseph Cutellius parochus.

Accanto alla firma v'era il bollo della parrocchia, impresso a secco sopra un pezzetto di carta incollata con una ostia sul foglietto.

Blasco stette un po' con quel foglietto fra le mani, immobile come una statua, sotto il peso di quella rivelazione. Un Albamonte!... Egli era un Albamonte! Era il figlio bastardo di don Emanuele della Motta; e il piccolo Emanuele che giaceva nelle segrete di Castellamare era suo fratellastro, e Violante era sua cugina!... Gli pareva una cosa che usciva fuori dall'ordinario: una rivoluzione di idee, di sentimenti gli metteva l'animo in soqquadro.

"Io!..." esclamò poco dopo "Io!"

Non trovava altra parola. Posò sul tavolino quella fede parrocchiale e diede uno sguardo alla firma della lettera: era sottoscritta "Fra Bonaventura da Licodia". Non era lunga; dopo la formula d'invocazione, consistente nelle tre iniziali I. M. J. ossia Iesus, Maria, Joseph, il frate scriveva:

"Mio caro figlio in Gesù Cristo, Blasco, Prima di partire da questo convento, per volontà di Dio, lascio al padre Serafino da Montemaggiore la tua fede di nascita, perché te la consegni alla mia morte, che spero vicina. Non voglio scendere nel sepolcro con un segreto, che ho serbato finora, per riguardi verso persone potenti che tu conosci; ma che non è giusto seppellisca con me. Non so se ti possa giovare; io lo spero, e prego e pregherò Iddio che tenga sopra di te le sue sante mani.

Il padre Serafino ti darà anche un po, di denaro: è tutto quello che posseggo. Non ho parenti; lo lascio a te che ho tenuto come un figlio, sebbene per poco tempo. Prega il Signore per me, e sii sempre buon cristiano, secondo i precetti di Nostra Santa Madre Chiesa. Ti benedico nel nome di Gesù benedetto".

Gli occhi di Blasco si empirono di lacrime; un cumulo di memorie, di sentimenti, di affetti, discese nell'anima sua e ne fu commosso. Sua madre morta con le gambe spezzate, in una casa non sua, raccolta dalla pietà di due frati, sulle rovine di una città; fra Giovanni, il convento di Catania, la sua fanciullezza, la sua fuga per i monti. Oh, madre! povera madre!...

Poi gli apparve il ritratto veduto in casa di don Raimondo; il ritratto di don Emanuele, dinanzi al quale egli si era fermato, colpito dalla rassomiglianza con lui. Egli dunque era il ritratto vivente di suo padre, portava impressa sul volto la propria origine; poichè la legge non gli riconosceva il diritto di portare il nome degli Albamonte, la natura gliel'aveva sigillato sul viso in tratti incancellabili. E non solamente nelle fattezze egli rassomigliava a suo padre; anche l'indole avventurosa, il coraggio, l'audacia, la giocondità, il valore gli venivano da lui; ma da sua madre, da quella povera dolce creatura aveva preso quel fondo di pietà, quel desiderio vago di affetti sereni, di soavi abbandoni, quel senso di pudore quasi, e di gentilezza che dava un tono e un sapore speciale al suo amore.

E pensò a Emanuele, che era suo fratello; era il suo fratello minore, e secondo la legge, era, o avrebbe dovuto essere, il capo della casa, perché sulla nascita non pesava l'onta del bastardume. Ma era suo fratello e la nequizia di uno scellerato lo martoriava nel fondo oscuro di una prigione e questo scellerato era suo zio: l'uomo dall'aspetto magro e pallido, dalla bocca sottile come un taglio, dalla maschera impenetrabile, empio, crudele, capace d'ogni delitto, e nel tempo stesso vile e spregevole: quest'uomo era il fratello di quel duca, che non contava i suoi avversari e li affrontava a viso aperto: ed era il padre della creatura più dolce e mite che egli avesse conosciuto!..

"Che cosa farò ora? - si domandava. - Che farò ora che so chi sono?".

E che cosa poteva e avrebbe potuto fare? La sua vita era già tracciata, e non sarebbe stata diversa da quella che era. Egli sarebbe rimasto sempre Blasco da Castiglione; un uomo venuto dall'ombra, senza casa, senza parenti, principio e fine di se stesso. Un riso ironico gli errò sulla bocca: oh, valeva la pena quella rivelazione così inutile!... Che se ne faceva? Che cosa aveva sperato il buon padre Bonaventura?

Egli stava in queste disposizioni di animo quando udì bussare alla sua porta, e la voce di Coriolano dire:

"Siete a letto? Posso entrare?..."

Andò ad aprirgli.

"Non sono a letto," gli disse con quel timbro speciale che ha la voce, quando l'animo è acceso da qualche passione. "Entrate: voi non potete sapere quello che mi capita... Sono andato dal padre Serafino e ne torno con una somma e un nome. Capite? Ho un nome che non mi serve e una somma che non viene da mio padre, ma dalla carità di un frate..."

Coriolano lo guardava con stupore.

"Vi meravigliate?" continuò Blasco con una lieve esaltazione. "Ebbene, vi farò stupire!... Sapete chi sono io? Sono un Albamonte; sono il figlio primogenito, così suppongo, per quanto naturale, del fu don Emanuele Albamonte, duca della Motta!... Eh per bacco!... Ora che lo so, ora che conosco il nome di chi tolse una giovanetta all'ombra pudica della modesta casa, per farne la sua amante, e per farla madre di un figlio senza nome legale, non credete voi, eh io abbia aggiunto un'altra trama d'oro alla mia vita?... Voi che siete così giusto, dite un po': credete che il bastardo di un re abbia qualcosa di più o di meno del bastardo d'un mulattiere? Credete che l'onta che pesa sulla nascita dell'uno sia diversa da quella che pesa sulla nascita dell'altro; che l'angoscia delle due madri dinanzi alla culla senza nome sia diversa?.. Ah! sono un Albamonte! guardate un po', se nella mia condizione si possa provare una felicità maggiore di questa scoperta!... D'ora innanzi potrò fare dipingere sulla mia carrozza, quando l'avrò, lo scudo inquartato di verde e di rosso con le fasce alternate verdi e nere;... ma col segno dei bastardi!..."

Coriolano taceva. Blasco passeggiò un po' per la stanza, e cadutigli gli occhi sulla fede parrocchiale che aveva posato sul tavolino, indicatala al suo amico riprese:

"Ecco il pezzetto di carta che consacra la mia origine, Coriolano; ecco il mio diploma di nobiltà, che non bastò a salvare mia madre, non dico dalla morte, ma almeno dalla povertà. Il castello della Motta si aprì per fare entrare l'educanda rapita, accolse il mio primo vagito, ma cacciò via la madre e il figlio, quando seppe che Francesco Giorlanda era morto di crepacuore.

Guardate il singolare destino che accomuna i due figli di don Emanuele della Motta, il naturale e il legale; ambedue furono raccolti per carità dal seno delle loro madri moribonde, e non ebbero i sorrisi e le cure materne, e non conobbero la casa paterna, e crebbero ignorando la loro origine; ambedue perseguitati dallo stesso odio, vittime dell'arbitrio; ambedue sospinti, senza conoscersi, sulla stessa strada... Uno il fato! Oh! veramente a questo io mi riconosco per un Albamonte. Questa, Coriolano, è l'eredità trasmessaci dal padre, in parti uguali e senza fidecommesso!..."

Sedette, pallido e fremente, sebbene la sua bocca sorridesse: ma di un sorriso amaro e doloroso e dopo un minuto di silenzio, mormorò:

"Peccato che il signor duca, mio procreatore, sia morto!... Ma forse egli fu già punito; quel che accadde alla duchessa donna Aloisia e al piccolo Emanuele non è forse la vendetta di quello che patirono Cristina Giorlanda e la sua creatura?"

Nuovamente ricadde nel silenzio: Coriolano taceva anche lui, come oppresso da quella rivelazione, e più dall'intimo dolore che leggeva nelle parole di Blasco. Questi si alzò, scosse la bella e fiera testa con un moto che fece ondeggiare i lunghi riccioli della sua capigliatura, e diede in una risata:

"Per bacco!... Credo di aver preso la cosa tragicamente; una sciocchezza, amico mio!... La vita non è cosa che meriti di essere presa così seriamente... Guardate un po'; io ricordo quel vostro magnifico discorso dell'altra sera, che fu la glorificazione dell'opera vostra! Poesia! mio caro, poesia: volete correggere gli abusi, abbattere le ingiustizie, rendere giustizia a tutti?... Volete anche stendere la vostra protezione sopra di me?... Poesia! poesia!... Su, correggete questa che fa di me, figlio primogenito di don Emanuele Albamonte duca della Motta, uno straniero al a casa cui appartengo per sangue, un essere quasi ignobile, segnato con un marchio di infamia commessa da un altro!... La vita? È una cosa buffa. La giustizia? È una maschera tragica sul volto d'un buffone."

"E perché dunque siete così sollecito e anche audace, quando vi sembra che si voglia commettere violenza contro qualcuno?... Perché vi ribellate a quelle che vi paiono sopraffazioni e ingiustizie a danno dei deboli?" domandò Coriolano gravemente. "Voi avete bastonato i servi del duca della Motta... vostro zio, perché stavano per accoppare Emanuele; avete compromesso la vostra libertà, per non fare arrestare Girolamo Ammirata; avete esposto la vostra vita per restituire a Matteo Lo Vecchio le bisacce rubategli dai compagni d'arme; finalmente, avete liberato, e sapete come, Violante dalle nostre mani, perché avete creduto che le si usasse violenza... Vedete, dunque, che il vostro cuore generoso batte per la difesa della giustizia, o di ciò che vi sembra giustizia!..."

"Sono un imbecille, Coriolano!... Sono un imbecille che si lascia trasportare dagli impulsi... Ah! Violante, povera creatura innocente!... Ebbene, guardate piuttosto, voi, Coriolano: la vostra giustizia non esiste senza ingiustizie; e Violante ne è l'esempio... Ma di che parliamo? Voi destate pensieri e dolori che io ho ricacciato in fondo all'anima e non è l'ora... è tempo di ridere, caro mio, ridere di questa lunga canzonatura che è la vita. Andiamo. C'è da menare le mani? Avete qualche impresa da compiere? C'è la probabilità di farsi sbudellare? Eccomi. Ho bisogno di fare qualche cosa, di spaccare o di farmi spaccare la testa... Ridete! non per nulla sono il figlio di don Emanuele della Motta!..."

Prese la spada e il cappello; Coriolano si alzò e lo seguì. Erano forse tre ore di notte e le strade erano deserte, salvo i soliti gruppi di miserabili che dormivano dietro le porte e sui gradini delle chiese.

Sbucarono in via Toledo e discesero verso Porta Felice. Di quando in quando un cocchio signorile passava fragorosamente, preceduto dai volanti, che squassavano le torce a vento: pareva il carro del tuono circondato di lampi: poi, spentosi l'ultimo bagliore e l'ultima eco, la strada ricadeva nel silenzio e nelle tenebre.

Blasco e Coriolano non parlavano; ciascuno pareva seguisse un suo corso di pensieri.

Ronde a quell'ora difficilmente se ne vedevano e del resto non fermavano i gentiluomini o, se li fermavano, bastava che essi pronunciassero il loro nome perché il caporonda si sberrettasse umilmente. Giunsero alla piazza Marina in mezzo alla quale, nell'ombra, la lugubre forca disegnava le sue braccia nere. Essi videro con raccapriccio una forma umana pendente da un laccio, girare su se stessa, al soffio del vento. Nel pomeriggio un ladruncolo era stato impiccato e lasciato sulla forca come esempio. Non sarebbe stato tolto che la mattina appresso.

In fondo alla piazza sorgeva cupo e severo il palazzo del Sant'Offizio, l'antica e veramente regale dimora dei Chiaramonte, non più dimora di magnificenze e di cortesie, ma fosco antro di tormenti e di dolori.

Mentre Blasco e Coriolano attraversavano la piazza, l'orologio, col quale i frati deturparono il bel palazzo, suonò le ore e, nel silenzio e tra quelle cose tristi; i colpi parevano gemiti disperati di angoscia.

"Venite, andiamo da questa parte;" disse Coriolano.

Entrarono nel vicolo buio che costeggia il palazzo; Coriolano alzò l'indice, mostrando la sommità dell'edificio, e disse:

"Vedete quelle finestre? Da quel lato sono le Filippine. Voi ignorate che cosa siano, non è vero? Sono le prigioni più anguste e più orribili del Sant'Offizio e furono costruite ai tempi di Filippo III, per chiudervi i rei di fellonia. Ora vi si fanno languire coloro sui quali maggiormente infierisce la crudeltà del tribunale... e v'è chiusa una donna, rea di avere compiuto un atto di carità. Che direste e che fareste, Blasco, se avessero preso fra Giovanni da Randazzo e fra Bonaventura da Licodia e li avessero gettati qui dentro, a morirvi di disagi, di rigori, di torture, per avervi salvato dalla morte?"

Blasco alzò gli occhi inorriditi e strinse i pugni: quella ipotesi gli adunava nell'anima tutte le collere e tutte le vendette.

"Andiamo," disse Coriolano. "Qualche volta, nel cuore della notte silenziosa, escono da quelle finestre lunghi gemiti di gente che vi fa mille morti.."

Percorsero il vicolo, uscirono dinanzi la chiesa di S. Nicolò della Kalsa e poichè Porta Felice era aperta, uscirono fuori. Coriolano voltò a sinistra risalendo lungo la Cala, il vecchio porto difeso dalla Garita e dal Castello, pieno di galere e bastimenti di piccolo tonnellaggio, i cui fanali accesi si riflettevano in lunghi e mobili zigzag rossi nel seno delle acque. Percorsero tutta la curva della Cala, fino ai piedi della Chiesa di Piedigrotta. Il Castello si protendeva, irto di cannoni, le cui bocche apparivano fra gli spalti. Il mare batteva sui vecchi muri saraceni, entrava nei fossati che giravano intorno, passava sotto il ponte. Qualche soldato passeggiava sui terrapieni con l'archibugio sulla spalla. Coriolano si fermò, e anche qui stese il dito verso la porta, chiusa dal ponte levatoio tirato su.

"E lì, in un sotterraneo, è chiuso vostro fratello Emanuele! Andiamo, Blasco."

Lo trascinò quasi per la strada di S. Sebastiano. Blasco disse:

"Perché non avete tentato di fare evadere questi prigionieri?"

"Perché le loro celle non hanno finestre esterne."

"Eppure," riprese Blasco, "si dovrebbe tentare... Forse sarebbe la soluzione più spiccia."

"Ma non la più sicura. Bisogna invece affrettare il giorno della giustizia."

Blasco pensava a quelle due prigioni così spaventevoli e provava un brivido di raccapriccio e nel tempo stesso un sentimento di vergogna. Di che cosa si era doluto egli? Che cosa era la sua sventura, di fronte a quella più grande di Emanuele suo fratello? Egli, in fondo, non aveva nè poteva accampare diritti al cospetto della società; Emanuele sì, e tuttavia gli erano tolti e negati. Egli era solo e nessuno pativa per lui; ma Emanuele aveva una famiglia di adozione dispersa, torturata per cagione sua... Erano tre vittime. Tre? E forse Violante e un po' anche donna Gabriella non soggiacevano alla stessa fatalità che colpiva gli altri?

"Ah, don Raimondo! ... don Raimondo!...".

Si palpò il petto, come per rassicurarsi che il famoso plico fosse ancora lì e lo toccò, sotto la camicia. Pensò che forse i passi dei Beati Paoli erano stati fermati dalla perdita di quelle carte e che tale perdita li avesse costretti a impadronirsi di Violante e di donna Gabriella; forse avrebbe potuto pattuire, consegnare cioè le carte in cambio della libertà e della vita di Violante. Quest'idea gli parve in quel momento così buona, che fu veramente sul punto di trarre le carte e darle a Coriolano, dicendo: "Prendete, ecco il vostro processo: servitevene per liberare Emanuele e la moglie dell'Ammirata, e datemi Violante!...".

Ma la mano rimase nello sparato della camicia, fermata da un dubbio:

"E se Violante rimanesse ancora prigioniera come pegno, nonostante la restituzione di questi documenti?".

E poi un altro pensiero: "E se Coriolano consegnasse questi documenti al Vicerè?".

La voce di Coriolano lo riscosse. Come se avesse intuito quella battaglia interiore, il cavaliere della Floresta disse gravemente:

"Pensate, Blasco, che sebbene voi siete "naturale", pure siete il fratello maggiore di Emanuele, e gli dovete protezione e assistenza."

Fratello maggiore! Sì, era vero. Ma non aveva veduto quel ragazzo che due volte, e la prima volta se lo era veduto rizzarglisi contro come un galletto minaccioso; e la seconda l'aveva veduto altezzoso e quasi indispettito per il suo intervento. Ora ripensandoci gli pareva di indovinare in quell'atteggiamento una di quelle antipatie istintive e indomabili. Quanto a sè, interrogando il suo cuore, non vi trovava l'ombra di un sentimento fraterno, quel ragazzo gli faceva pietà e gli destava gli impulsi generosi nè più nè meno di un altro ragazzo, non legato a lui da vincoli di sangue. Blasco non conosceva questi vincoli; erano per lui nomi di sentimenti, non sentimenti effettivi, ma tutto ciò non diminuiva quest'obbligo; la comune sventura, anzi, glielo faceva apparire ancora più grave e incombente.

Ricordava d'aver promesso a Coriolano che avrebbe costretto don Raimondo a dare la libertà ai due prigionieri. Quando aveva fatto questa promessa, don Raimondo era per lui un estraneo, ora invece era suo zio, ma questa scoperta invece di incoraggiarlo lo sgomentava. Come zio, don Raimondo gli faceva un ribrezzo invincibile, come un rettile schifoso.

Così, passando da un'idea all'altra, Blasco andava in silenzio accanto a Coriolano. Erano ritornati nel Cassaro, e lo risalivano. Coriolano, come se avesse risposto a un pensiero, disse:

"Bisogna che Emanuele non solo sia liberato presto, ma anche reintegrato nel suo grado e nel suo patrimonio; egli deve pensare a voi, deve riconoscervi e provvedere al vostro stato."

"Me? Ah, no, Coriolano, v'ingannate. Egli non ha alcun dovere verso di me, ed io non accetterei mai dalla casa Albamonte una elemosina..."

"Come? Perché dite così!" esclamò il cavaliere della Floresta con stupore.

"Ciascuno ha il suo orgoglio; io ho il mio. Mio padre mi fece povero e "nessuno", nè si ricordò mai di avere abbandonato una povera donna incinta. Checchè dica la mia fede parrocchiale, io rimarrò povero e "nessuno" come sono stato per ventisei anni. Emanuele non saprà mai ch'io sono suo fratello, almeno dalla mia bocca non lo saprà; quando avrò compiuto il mio dovere aiutandovi a fare giustizia, partirò, andrò lontano, riprenderò la mia vita di cavaliere errante in ritardo, fino a che una palla non mi manderà all'altro mondo."

Coriolano lo guardò sorridendo e, scherzosamente, ma con intenzione, gli domandò:

"E Violante?"

"Violante?" rispose Blasco con voce che tradiva un'amara commozione. "Eh!... quando sarò tranquillo anche sul suo avvenire, che volete che io faccia? E che volete che sia io per lei? Una memoria, che i baci d'un uomo cancelleranno dal suo cuore."

E fino a casa non si dissero più nulla.