Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte terza, capitolo 12

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Donna Gabriella e Violante passavano i giorni nella aspettazione di un avvenimento ignoto, che non giungeva mai. Avevano domandato il nome del luogo dove erano state condotte, ma la vecchia serva aveva risposto in tono asciutto e sporgendo il labbro in modo caratteristico:

"Che so?..."

E nessuno lo sapeva. Era chiaro che un ordine severo era stato dato, cosicchè le due donne ignoravano dove si trovassero. Donna Gabriella però aveva cercato di rendersi conto dei dintorni, sforzandosi di riconoscere almeno quella cima di montagna e di avere una idea della campagna circostante.

Ella si trovava in un castello, le cui alte mura non parevano sormontabili e che inoltre sorgeva sopra una rocca, che a guardare da certe finestre dava il capogiro, tanto era alta e ripida. Giù si stendevano boscaglie, tra le quali serpeggiava una striscia d'argento. Di qua e di là colli si succedevano a colli e oltre i colli si dipingevano d'ogni parte catene di monti, come in uno scenario, l'una dietro all'altra d'un colore più cerulo e più tenue.

Non si scorgeva traccia di borgo vicino: pure, quando l'aria era serena e il vento spirava, giungeva lontana nel castello l'eco di una campana. Dunque, nei dintorni doveva sorgere qualche villaggio, qualche terra baronale nascosta fra i boschi.

Ella aveva potuto accorgersi che una parte del castello non era abitabile; qualche stanza aveva il tetto scoperchiato, qualche torre aveva i merli e una parte della sommità diruti; qua e là le cortine presentavano delle fenditure. La parte dove esse erano alloggiate era formata dal mastio, cioè dalla torre principale, solida fortezza quadrangolare che sovrastava tutto l'edificio, e che sorgeva in fondo alla corte ancora ben conservata.

Oltrepassare la corte ed entrare nelle altre ali del castello non era possibile. Le porte erano serrate e sprangate, qualcuna anche murata; evidentemente si voleva impedire a donna Gabriella o a chicchessia di allontanarsi oltre la corte e il torrione. Nella corte c'erano le stalle, ma esse non accoglievano che le due mule e tre cavalli. Di servi non se ne vedevano altri all'infuori della vecchietta linda e manierosa, di una specie di castaldo, di due villani che si sforzavano di compiere gli uffici di valletti, staffieri, paggi. Ogni notte uno di loro si metteva a dormire dietro la porta della camera delle donne, col fucile fra le gambe.

Fuori di queste limitazioni donna Gabriella e Violante non potevano dolersi del modo come erano trattate e servite. La loro stanza da toletta non mancava di nulla di quanto potesse occorrere a una dama; e rivelava la mano previdente e sapiente di una persona abituata agli agi e alle raffinatezze dell'abbigliamento signorile. Violante era rimasta stupita a vedere tutta una batteria di ferri per ondulare, inanellare, arricciare i capelli; forbicine, pettini, vasetti di pomate, alberelli per tinture, polveri e acque odorose: cose di cui nel monastero non aveva idea.

Il guardaroba era fornito di vestaglie, di accappatoi e pantofole ricamate; i due lettini e la tavola avevano biancheria fine; le posate e il vasellame da mensa erano di argento. Donna Gabriella poteva credere veramente di trovarsi in una sua villeggiatura tra i suoi vassalli.

Il primo sgomento, quel senso di terrore, da cui erano state prese tanto lei che Violante, a poco a poco erano svaniti; esse si domandavano ora quando quella loro prigionia che le isolava dal mondo sarebbe finita. La solitudine e il mutismo dei servi avevano costretto donna Gabriella a cercare nella figliastra una compagnia, ma non le avevano suggerito dei sentimenti di benevolenza o di compassione: anzi, tutte le volte che sorprendeva la fanciulla pensierosa e con gli occhi vaganti per la campagna, un'idea, un nome le correvano al cervello e i suoi occhi si incupivano e corruscavano. Era sicura che Violante pensasse a Blasco. Ed era vero.

Da quando le parole della matrigna avevano fatto nel suo cuore la luce, Violante aveva perduto quella cara in coscienza, che le faceva trascorrere felici gli albori della sua giovinezza. Ma questa luce, penetrando nel mondo ancora dormente delle sensazioni e degli istinti, li aveva destati ed essi si agitavano confusamente, turbandola con desideri indefiniti, che qualche volta la inducevano alle lacrime.

L'immagine di Blasco le stava dinanzi agli occhi ed ella ne provava un senso di godimento che non sapeva esprimere, ma qualche volta delle fiamme improvvise le salivano in viso e si sentiva ardere gli occhi. Ella sapeva ora che amava Blasco. Credeva che l'amore fosse tutto in quel pensiero costante, in quel non so che di misterioso, che le faceva desiderare di vederlo, di udirlo, di stargli accanto; e questo le pareva una cosa tanto audace, che se ne commoveva e se ne vergognava.

"Oh, sì, è vero; - pensava spesso - io l'amo; io l'amo".

Ma improvvisamente la prendeva un senso di paura. Ella vedeva sopra di sè lo sguardo iracondo di donna Gabriella, e si sentiva venir meno.

"Perché? - pensava, - perché ella mi guarda così? Che male le fo io?".

Un giorno donna Gabriella, che era molto nervosa, le disse: "Tu pensi a lui?"

Sulle labbra le corse una menzogna, voleva rispondere: no, ma non era abituata a mentire e tacque, se non che la porpora del volto e l'imbarazzo risposero per lei e questa rivelazione riempì il cuore di donna Gabriella di un'amarezza piena di sorda collera, e rinnovò contro la figliastra quell'astio e quella bramosia di rappresaglie e di torture, che le emozioni del ratto avevano sopito.

E da quel giorno ricominciò a essere più aspra, più tormentosa, in tutti quei momenti in cui era indispensabile trovarsi a contatto con Violante, provando una soddisfazione feroce a punzecchiarla e a denigrare Blasco.

"Che speri?" le disse una volta; "Che speri? Sposarlo? Non sarà mai, finchè sarò viva, e se morirò presto, tuo padre non sarà così sciocco da acconsentire, te lo giuro."

Fu un'altra idea, un'idea non ancora affacciatasi che donna Gabriella gettò nel cuore della fanciulla e vi aggiunse nuovi turbamenti. Sposarsi? Stare sempre con Blasco, soli in un'altra casa, senza sospetto?

Quest'idea la confuse, la sgomentò e le empì il cuore di gioia nel tempo stesso. Prima di allora non aveva pensato mai al matrimonio; ora le pareva la via più naturale che avrebbe dovuto seguire, dal momento che ella amava Blasco. Ma pure la faceva trepidare, per quel timore istintivo di un ignoto misterioso e terribile, di cui ella sentiva come le vibrazioni lontane.

Un'altra volta donna Gabriella le disse:

"Vergogna! alla tua età pensare a queste porcherie!..."

Quali? Di che porcherie parlava? Voler bene a un uomo, sposarsi, era dunque una cosa indegna? E perché? Molte sue compagne di educandato, erano uscite dal monastero per maritarsi, ed ella aveva sentito più volte raccontare le grandi feste di sposalizio che celebravano le famiglie delle sue compagne; feste che erano sorgenti di tripudio anche per la città, e per le quali si stampavano perfino sonetti; e mai da nessuno, neppure da suor Maria Cristina, che aveva un odio formidabile per il mondo, Violante aveva udito quel giudizio così raccapricciante.

"Bel matrimonio con un avventuriero, scappato dalla forca! Non lo sai, dunque, che è ricercato dalla giustizia perché è un bandito? Non lo sai che ha ammazzato alcune guardie, e che a Messina uccise perfino tre guardie reali? Chi sa quanti assassini e ruberie ha commesso!... Chi è? Donde è venuto?... Non lo sa nessuno. Non è del nostro ceto;... sarà qualche figlio di villani, scappato via! La forca lo aspetta. Dopo che l'avranno impiccato, lo taglieranno a quarti e l'appenderanno allo Sperone. Ti porterò poi a vedere i quarti del signor Blasco da Castiglione!..."

Violante impallidì e chiuse gli occhi con un grido di orrore e di dolore, alla visione degli avanzi sanguinolenti, appesi alla forca dello Sperone: spettacolo di crudeltà, di ribrezzo, di terrore, non infrequente in quei giorni. Poi si domandò se era vero quello che diceva la matrigna e il cuore le diceva di no, ripugnandole il credere che un uomo così bello, così generoso, così leale, così prode, potesse essere un avventuriero, un bandito, degno di morire sulle forche.

Ma intanto il sospetto, il dubbio, la paura le erano entrati nell'anima.

Così la povera fanciulla passava quei giorni intristendo, e donna Gabriella rodendosi dentro, e diventando anche lei pallida e triste; e i giorni si succedevano senza alcuna novità, sempre uguali, fra le medesime punture, i medesimi asti. Qualche volta, quando i nervi la trasportavano, la duchessa inveiva contro don Raimondo e contro Violante.

"Tutto per colpa di tuo padre!... Tuo padre è uno scellerato; ed io patisco per causa sua. Che c'entro io con le bricconerie che ha commesse lui? Perché non le risolvono con lui e con te?... Oh, come vorrei vendicarmi! come vorrei vendicarmi!..."

Violante si ribellava; non poteva sentire ingiuriare suo padre, del quale ella non sospettava e che credeva illibato.

"Perché, signora madre, offende anche mio padre? Che cosa le ha fatto? Egli è pure suo marito!..."

"Taci tu, non hai il diritto di parlare. Tu sei della stessa razza. Razza di vipere!... Tuo padre?... Lo so quello che vale!..."

Le sue invettive contro Blasco, contro don Raimondo, contro Violante, diventavano più acri ed aspre, quando la prigionia, impedendole qualche capriccio o desiderio, le appariva più rigorosa e insopportabile. Ciò che gliela rendeva ancora più insopportabile era appunto il non sapere, nè poter sapere, quando sarebbe terminata, nè ciò che precisamente si voleva da lei. Aveva interrogato la vecchietta più volte, ma non aveva potuto cavarle di bocca una spiegazione.

Le aveva domandato il nome ed essa aveva risposto con riverenza:

"Nora, per servirla; sono la zia Nora, la madre di Baldassare lo stuccatore..."

"Siete qui a servire?..."

"A servire vostra Eccellenza."

La risposta era ambigua.

"Chi è il vostro padrone?..."

"Ma vostra Eccellenza; chi vuole che sia il mio padrone?..."

Donna Gabriella non potè cavarle altro dalla bocca. Un'altra volta le domandò: "Chi s'aspetta?"

Voleva almeno sapere se in quel castello si aspettasse qualcuno, per avere la chiave del mistero che avvolgeva non tanto la sua cattura, quanto la dimora in quel luogo ignoto, isolato, tagliato fuori dal mondo. Ma la zia Nora rispose evasivamente:

"La grazia di Dio!"

"Staremo molto tempo qui?..."

"Quanto vuole Dio!..."

Erano risposte che avrebbero fatto disperare anche l'animo più tranquillo. Donna Gabriella se ne sentiva scoppiare: l'aspetto chiuso, impenetrabile di quella vecchietta, che pareva plasmata dal dio Segreto, l'accendeva di mille collere, e qualche volta le metteva nelle mani una smania di percuotere.

Erano passati così circa quaranta giorni; l'inverno si avvicinava, e su quel colle soffiavano venti freddi; nelle stanze, la sera, si pativa. La prospettiva di passare l'inverno in quella bicocca era veramente spaventevole. Donna Gabriella non poteva fare a meno di pensare che quella era la stagione dei ricevimenti, dei balli in cui le altre dame si divertivano, circondate da corteggiatori, troneggiando in quei piccoli Olimpi, che erano le sale dei grandi palazzi signorili, scintillanti di specchi e di lumi; e allora le si empivano gli occhi di lacrime di dolore e di rabbia e in un impeto irrefrenabile scoteva per i capelli la figliastra gridando:

"Vorrei vedervi morti, te e tuo padre!..."

Il suo sgomento crebbe, quando una mattina vide entrare uno dei villani con una cassa, dalla quale la zia Nora trasse delle coperte pesanti e dei mantelli. Ciò le parve indizio sicuro che la prigionia non sarebbe cessata tanto presto, e ne ebbe una impressione così cocente che si percosse le tempie disperatamente. Violante però non parve così disperata, anzi una certa gioia le illuminava il volto.

Entrando nella camera di lei, per mettere le coperte sul letto, la zia Nora le disse:

"Ho un'ambasciata per vostra Eccellenza."

"Per me?"

"Ssì... è una cosa che non deve saperla nessuno..."

Violante arrossì e la guardò con curiosa aspettazione.

"Il signor Blasco manda a salutarla e dice che fra giorni... Ma, zitta!..."

Violante non potè nè ringraziarla, nè esprimere alcuna parola di promessa. Al solo udire il nome del giovane, il cuore cominciò a batterle con tale e tanta violenza, che le mancò il re spiro e il volto le arse di tale fiamma, che parve le si disseccassero gli occhi. Blasco! Blasco sapeva dunque dove ella fosse, Blasco sarebbe venuto a trovarla. Forse a liberarla.

Blasco, dunque, pensava a lei... non era forse perché anche lui l'amava? Dal suo cuore, da ciò che ella sentiva e provava, intuiva e giudicava quali potessero essere i sentimenti del giovane, e quest'idea, mentre le faceva ardere il volto, le dava una gioia straordinaria mai provata, una consolazione piena di dolcezza. Le pareva di non essere più sola, di avere un protettore, di essere sicura. Blasco l'avrebbe tratta da quella prigione e l'avrebbe anche sottratta alle vessazioni della matrigna. Respingeva ora con fierezza tutte le insinuazioni di donna Gabriella contro il giovane: erano calunnie. Ella avrebbe domandato a Blasco se era vero quello che la duchessa aveva detto. Già non le aveva una volta inventato che Blasco era stato assassinato? Perché glielo aveva inventato? E perché quel livore? Perché quella persistenza? Tutti questi perché si affollavano nella mente della fanciulla, vi insistevano: ella se li rivolgeva, ci si fermava, cercava di penetrarne l'intima ragione. Era odio? Forse. Ma quell'odio che avvolgeva ugualmente lei e Blasco, che non avevano commesso alcuna colpa contro la duchessa, doveva nascere da qualche cosa che ancora sfuggiva alla fanciulla, inesperta del mondo e ignara che vi potessero essere amori non confessabili, anzi ignara del grande mistero dell'amore.

Tuttavia entrò nel suo cuore una specie di paura sospettosa, che le colorava la matrigna di una luce fosca. Ella ne tremò; il suo istinto le suggerì di nascondere la sua gioia: per la prima volta Violante fingeva e questa finzione che proteggeva la sua gioia le dava un compiacimento, come se avesse compiuto una rappresaglia o riportato una vincita sulla matrigna.

Ma donna Gabriella aveva l'occhio investigatore e acuto della gelosia; sotto la finzione scoperse che qualcosa di nuovo era penetrato nel cuore di Violante. Cominciò a pungerla per scoprirla:

"Quanti giorni sono passati che in grazia di tuo padre stiamo qui chiuse?"

"E forse il mio signor padre che l'ha ordinato?"

"Non fare osservazioni; non ti è lecito... So io quel che dico. Se tuo padre non avesse commesso delle scelleratezze io non sarei qui..."

Ritornava su quest'argomento che sapeva non garbare a Violante, ma la fanciulla taceva. Aveva stabilito di non rispondere a nessuna provocazione e aveva capito che la duchessa aveva voglia di ricominciare. Donna Gabriella si aspettava un atto di ribellione e si stupì del silenzio della fanciulla.

"Non rispondi?" le disse.

"Non so che dire, signora madre."

"Eh! lo so bene che non sai che dire: hai lo stesso sangue... Ma questa vita non voglio sopportarla, intendi? Tengano qui te, che sei sua figlia, non m'importa; tanto farai cattiva fine. Ma lascino partire me!..."

Violante tacque; un impercettibile sorriso le errò per gli angoli della bocca. Tenere lei!... Ma invece era lei, proprio lei, che possedeva la sicurezza di uscire presto da quel carcere. Donna Gabriella cominciava a trovare provocante il silenzio della fanciulla, e i suoi nervi cominciarono a vibrare, a tendersi, a oscurarle il cervello. Provava dei furori sordi che le davano una gran voglia di piangere, di strapparsi i capelli: la bocca le si empiva di amaro. Ebbe una crisi, scoppiò davvero in singhiozzi che sembravano romperle il petto. Violante ne fu sgomenta e commossa nel tempo stesso. Non aveva mai veduto piangere la duchessa, e quei singhiozzi disperati rimescolavano la sua pietà.

Giunse le mani gridando:

"Signora madre! ... Signora madre! Che cos'è mai?..."

Le si avvicinò domandandole:

"È forse per colpa mia che piange? L'ho fatta piangere io?... Se mai gliene chiedo perdono!..."

Tentò timidamente di prenderle una mano, ma al sentirsi toccare, donna Gabriella gettò un grido, come se l'avesse morsicata un serpe.

"Scostati!... Scostati!... Non mi toccare!... Non voglio essere toccata da te! da te!... Mi sei odiosa!..."

Violante indietreggiò d'un passo, guardandola con uno stupore doloroso.

"Ma che cosa le ho fatto io, per esserle odiosa?" domandò dolcemente ancora sotto l'impulso della commozione.

"Me lo domandi?" ribattè la duchessa con impeto. "Me lo domandi?..."

La sua voce strideva come metallo arrugginito: tutto il suo aspetto aveva un'espressione di violenza e di dolore nella quale pareva si riflettessero mille sentimenti diversi e agghiaccianti. V'era negli occhi un sarcasmo feroce che fece rabbrividire Violante. Non le disse altro, se non:

"Vattene! lasciami sola!"

Violante uscì in silenzio e si ritirò nella sua cameretta; la zia Nora, che pareva attenderla nel corridoio, l'accompagnò in camera e, sul punto di chiudere la porta, disse alla fanciulla:

"Non abbia paura, Eccellenza!... Non abbia paura. Qui ci siamo noi."

Violante la guardò stupita. Aveva forse veduto ed udito la vecchietta? E che cosa sapeva o aveva capito, per rincorarla in quel modo?