Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte terza, capitolo 13

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Antonino Bucolaro non aveva potuto chiudere occhio tutta la notte, pensando a quei documenti, dei quali, per altro, fino allora egli non aveva mai saputo che cosa contenessero. Egli era uno dei più attivi fra i Beati Paoli, ma non era ancora pervenuto ai più alti gradi, quelli cioè di giudici ai quali nulla più era segreto, fuor che il volto del capo supremo, noto solamente a don Girolamo Ammirata, che era il segretario generale, e quindi il direttore della setta. Gli altri venti giudici, i quali discutevano e deliberavano sui reclami, erano scelti dopo un tirocinio in cui si rivelavano degni, e quando si verificava qualche vacanza.

Antonino Bucolaro era stato iniziato da don Girolamo Ammirata, del quale era diventato amico, per relazioni di affari. Era entrato da qualche anno, e si era fatto notare per zelo e operosità; era stato "esecutore", poi "relatore". Don Girolamo gli aveva posto affetto e fiducia e lo aveva scelto per suo confidente. I "relatori" conoscevano gli esecutori, ed erano coloro che ricevevano le denunzie e i reclami o che appuravano le notizie; istruivano i primi atti e rimettevano ogni cosa al segretario. Spesso erano chiamati a fornire schiarimenti verbali ai venti dell'alto tribunale, che però stavano col viso mascherato.

In parecchie contingenze, don Girolamo aveva sperimentato il Bucolaro e se ne era lodato. Pensava di aver fatto un buon acquisto per la setta e ne parlava spesso con Coriolano, col quale dapprima si vedeva la mattina a S. Matteo. Ora che era colpito di bando, si vedevano di notte in una casetta solitaria fuori Porta d'Ossuna, quella stessa dove era stato portato Blasco ferito dai sicari del principe di Iraci.

Antonino Bucolaro sapeva dove si nascondesse l'Ammirata; era il solo che lo sapesse e faceva da mezzo di comunicazione fra lui e gli "esecutori". Ogni mattina, all'alba, prendeva lo schioppo, chiamava il cane e se ne andava a caccia presso il fiume Oreto, che abbondava allora di anitre selvatiche. Questo apparentemente: in realtà, quando era sicuro che nessuno ponesse più attenzione a lui, si inoltrava fra i sentieri e si avviava verso S. Ciro; dinanzi ad una casa, alle falde del colle, trovava don Girolamo e Andrea con gli schioppi fra le gambe, che aspettavano. Antonino riferiva tutti i fatti del giorno; riceveva gli ordini del segretario, li comunicava agli altri relatori, e se si trattava di compiere qualche incarico, avvertiva la società se c'erano riunioni straordinarie, con un mezzo semplicissimo: un banditore, seguito da un ragazzetto che portava, quando del pane, quando dei maccheroni, andava per le strade gridando che nella pasteria del Capo o nel forno vicino S. Agostino i maccheroni di ottima qualità si vendevano un tanto a rotolo o che il pane di buon peso, secondo le forme prescritte, era abbassato di un terdenari a rotolo. Quelle due botteghe erano no te agli affiliati, che vi si recavano col pretesto di fare delle compere e davano un'occhiata rapida e indifferente alla bottega. Se vedevano tre lampade accese dinanzi a tre immagini sacre: l'Immacolata che schiaccia il serpente, i Santi Pietro e Paolo coi loro emblemi, S. Michele Arcangelo con le bilance in una mano e la spada fiammeggiante nell'altra, quello era segno che alla mezzanotte di quel giorno c'era assemblea nella grotta. Salvo gli affollati, nessuno poteva intendere quel linguaggio, in un tempo in cui le botteghe erano piene di immagini e di lampade. Quando le lampade erano due, una dinanzi alla Vergine Immacolata e l'altra dinanzi ai Santi Pietro e Paolo, il convegno era ristretto ai relatori: gli esecutori non intendevano quel segno. Quando invece era accesa una sola lampada dinanzi a S. Michele Arcangelo, il convegno era per l'alto tribunale e nè esecutori, nè relatori conoscevano tale segno. Il fornaio e il pastaio appartenevano ai venti giudici. Si comprende che il banditore ignorava di essere uno strumento e gridava in buona fede.

Un altro mezzo semplicissimo era quello al quale ricorrevano gli esecutori o i relatori, se avevano bisogno di conferire con qualcuno dei superiori immediati: giacchè gli esecutori non comunicavano che coi relatori, questi coi giudici, i giudici con don Girolamo Ammirata che, d'altronde, conosceva tutti nella sua qualità di segretario e direttore.

Prima che il sagrestano di S. Matteo fosse arrestato, quella chiesa era l'ufficio delle denunzie. Un affiliato gettava qualche cosa nella cassetta dei Mali oblati, posta presso la porta della chiesa. Il sagrestano, chiusa la chiesa, apriva la cassetta; se trovava una moneta d'un terdenari con un buco in mezzo e delle ammaccature, significava che un relatore del tale quartiere voleva conferire con uno dei giudici del proprio quartiere; se non c'era buco, ma soltanto ammaccature, era un esecutore che aveva bisogno di parlare con un relatore del proprio quartiere. Le ammaccature andavano da una a sei; i quartieri erano sei, quattro interni e due rurali e ciascuno aveva un numero corrispondente alle ammaccature. Il quartiere del Capo, dov'era la grotta, era indicato dal numero uno. Il sagrestano portava le monete a Zi' Rosario, questi a don Girolamo che mandava subito quelle monete, in mezzo ad altre, in un sacchetto, a uno dei giudici o dei relatori del quartiere, il quale, a una certa ora del giorno, andava a sedere in una delle osterie convenute.

Dopo l'arresto del sagrestano e dello Zi' Rosario, s'andava allo "scaro" della frutta nel piano della Magione, con una sporta di limoni, gridando:

"A sciuorta i lumiunaaa!"

Antonino Bucolaro vi si recava ogni giorno, s'avvicinava al venditore, scambiava il segno di riconoscimento, riceveva e dava il convegno e ne riferiva a don Girolamo. Tutto ciò svolgendosi all'aperto e coi mezzi che rientravano nella vita ordinaria, non dava alcun sospetto e sfuggiva alle spie.

Sebbene corrotto già dalla prospettiva di arricchire, il Bucolaro non aveva rivelato il segreto di questi mezzi a Matteo Lo Vecchio, il quale, del resto, per non destare sospetti di spionaggio si limitava a concertare il ricatto al duca della Motta, e non aveva cercato di sapere altro. Antonino faceva dentro di sè un ragionamento che trovava perfettamente logico:

"Le carte furono rubate e, come dice Matteo Lo Vecchio, le ha probabilmente quel tale don Blasco, che era amico del duca della Motta, che fu arrestato a Messina e che ora non si sa dove sia. Dunque la società non le possiede più. I fatti, intanto, l'alto tribunale li conosce e può procedere senza bisogno di quei pezzi di carta. Che male c'è se possiamo ritoglierli al signor don Blasco per venderli al duca? Con ciò non mi impegno certo a sottrarre il duca alla punizione. Tutt'altro. Se c'è bisogno di tirargli un colpo di carabina, di notte, glielo tirerò io... E un birbante, che è meglio spedire all'inferno. Dunque?...".

Quando egli faceva questo ragionamento, era lontano dal sapere che Blasco era stato ammesso dinanzi all'alto tribunale. Egli non sapeva che Blasco si trovasse a Palermo, ospite di Coriolano della Floresta, e neppure che Coriolano della Floresta era il capo occulto e supremo che moveva le fila tenebrose della società alla quale aveva prestato giuramento di obbedienza cieca e di fedeltà assoluta. Per lui, Blasco era un nemico del quale bisognava disfarsi, se era vero che egli possedeva quei documenti famosi. Ma dov'era? Dove trovarlo? Denunziarlo alla società che, sguinzagliando le sue spie, lo avrebbe certamente scovato (così pensava), non gli pareva prudente, per paura di perdere quelle carte che diventava no la sua idea fissa e che rappresentavano per lui il sogno di una ricchezza senza fine. Dov'era?

Matteo Lo Vecchio, in un secondo abboccamento, si maravigliò di questa domanda. Come? Domandava a lui dov'era Blasco?

"Ma se è dei vostri!..."

"Chi?"

"Don Blasco, quell'avventuriero!..."

"Come lo sapete?"

"Lo so. Mi stupisce invece che non lo sappiate voi..."

"Non lo so... perché non lo è..."

"Ed io vi dico di sì.."

La sicurezza di Matteo Lo Vecchio sorprese Antonino Bucolaro; come poteva asserirlo? Quali prove ne aveva? Il birro gli ricordò il tentato arresto di don Girolamo ed Andrea, andato a monte, e soggiunse:

"Chi li avvertì? Chi fece la spia? Chi era a capo dei Beati Paoli nascosti? Lui, proprio lui. L'ho veduto io con gli occhi miei."

Antonino Bucolaro tacque; l'argomento, per lui che sapeva come era ordinata la setta, non era molto con vincente, ma bastava a gettargli nel cuore il germe di un dubbio o per lo meno a lasciarlo perplesso.

"Se fosse vero!" pensava dentro di sè.

Un sorriso interiore gli rallegrava il cervello, giacchè un pensiero maligno gli era affiorato dal fondo della coscienza: "Se tentassi il colpo da solo, e a Matteo Lo Vecchio dessi qualche paio d'once di colpi nello stomaco?".

Era una frode sulla frode: approfittando delle indicazioni del birro, egli avrebbe direttamente contrattato col duca della Motta, eliminando ogni intermediario, e il guadagno sarebbe stato tutto suo. L'appetito destato diventava avarizia ingorda e perfida.

Se Blasco apparteneva veramente alla setta, don Girolamo certamente doveva saperlo; bisognava dunque cominciare di là. La mattina, recatosi a caccia al solito, andò a trovare lo Ammirata, al posto consueto, per fare la relazione degli avvenimenti della giornata. Quando ebbe finito, domandò come era sua abitudine: "Nulla?..."

Erano già cominciati i sospetti sopra Antonino Bucolaro e da qualche giorno l'Ammirata alla sua domanda rispondeva sempre: Nulla. Quella volta aggiunse dopo un breve silenzio:

"E domani non venite..."

"Perché?" domandò Antonino Bucolaro con un improvviso sospetto.

"Perché parto... Un affare. Aspettate che vi mandi a chiamare."

Nella notte doveva essere compiuto il ratto di Violante dal monastero di Montevergini; in altri tempi, don Girolamo avrebbe dato incarico ad Antonino di procurargli tutto ciò che occorreva: scale, corde, uomini; ma questa volta non credette di metterlo a parte del segreto. Il giorno appresso da uno degli esecutori, seppe del tentativo, dell'intervento improvviso e miracoloso di un uomo che aveva impedito loro di portare via la "monachella" e come non aveva potuto sapere la sorte toccata al "guardiano" e ad Andrea. Antonino Bucolaro allora comprese che don Girolamo non aveva più fiducia in lui, e ne ebbe paura. Aspettò qualche giorno, ma don Girolamo non mandò a chiamarlo.

"Non vediamoci più," disse a Matteo Lo Vecchio; "ho gran paura che ci tengano addosso le spie... Del resto finora non ho potuto sapere nulla. No, don Blasco non appartiene alla società."

Si scoraggiava. Matteo Lo Vecchio se ne impressionò, temendo che Antonino Bucolaro gli sfuggisse, cosa che certamente poteva riuscirgli di grave danno, ora che il suo segreto era in possesso di un altro. Bisognava usare molta prudenza, sì, ma non lasciarsi scappare il Beato Paolo, che gli poteva essere utile per altre imprese: per esempio, quella di snidare dal suo covo la setta.

Passò qualche altro giorno e per la città si sparse la notizia che una nave barbaresca aveva assalito la feluca nella quale viaggiava la duchessa della Motta con la figliastra, e che le due donne erano state tratte in schiavitù. Una paranza da pesca, nelle acque di Solunto, aveva trovato la feluca in balia delle onde, senza un uomo sulla tolda, come una nave fantasma: i barcaiuoli, abbordatala, con stupore avevano veduto che i marinai erano legati e gettati nel fondo della feluca. Lì avevano liberati e così la feluca aveva riportato la notizia a Palermo. Per la città fu uno sgomento, un correre, un domandare altre notizie; il Vicerè ne fu stupito, addolorato, ma nè lui nè Matteo Lo Vecchio credettero che le due donne fossero state rapite dai corsari. I corsari non avrebbero abbandonato la feluca e lasciato l'equipaggio, che invece poteva avere un valore sul mercato degli schiavi, o poteva essere adoperato sulle galere barbaresche. Doveva essere un secondo e riuscito sequestro. Per il Vicerè fu uno schiaffo che lo fece andare su tutte le furie. Mandò corrieri ed ordini per tutto il regno, minacciando rigori straordinari ai capitani che non fossero stati solleciti e zelanti, e spedendo anche due galere ad esplorare le coste, a raccogliere notizie e indagare.

Anche Antonino Bucolaro capì che i corsari non c'entravano e che invece era stata opera dei Beati Paoli, e n'ebbe la conferma; la cosa lo mortificò e lo indispettì profondamente. Lo mettevano dunque fuori da ogni deliberazione? Che badassero a loro: egli non aveva da fare che un solo passo e li avrebbe perduti tutti!...

Matteo Lo Vecchio andò a trovarlo di notte a casa.

"Il Vicerè promette un premio di duecento scudi a chi saprà indicare dove sono state portate le due signore..."

"E che volete che sappia io?"

"Certo, potreste saperlo meglio di me. Credete ai corsari, voi? Sul serio? Non canzoniamo. Cento scudi voi, cento io. Più una somma! Questo affare non esclude l'altro, più grosso."

Antonino Bucolaro non promise nulla. Scoprire! Come? Ogni passo che avrebbe fatto, avrebbe destato il sospetto: bisognava affidarsi al caso. La mattina dopo se ne andò a caccia, ma per vedere don Girolamo. Lo cercò invano al solito posto; si spinse su per la costa della montagna, visitò anche le grotte. Nè don Girolamo, nè Andrea vi si trovarono. Erano partiti? Erano fra i rapitori delle donne? Si nascondevano altrove perché temevano di lui?

"Ah, perdio! se mi mettono con le spalle al muro, io canto!".

Seguitava intanto a frequentare i convegni notturni dei Beati Paoli, senza poter dire di essere trattato con diffidenza, e gli si commetteva qualche incarico di lieve importanza evidentemente per non dargli sospetto. A una riunione vide finalmente don Girolamo.

"Non ci siamo più veduti" gli disse.

"Ci vediamo ora."

E dopo un minuto di silenzio trattolo in disparte in un corridoio della grotta:

"Bada a te, Bucolaro!" gli disse sottovoce; "io t'ho sempre avuto in buon concetto; bada a te..."

Antonino trasalì, ma seppe contenersi e rispondere con sufficiente tranquillità:

"Ma che discorsi mi fate? È la seconda volta, don Girolamo. Se dubitate di me, processatemi..."

"No, non ti farò processare; se il sospetto diventa certezza, ti uccido io con le mie mani..."

"Fate pure. Che volete che vi dica? Soltanto voglio avvertirvi d'una cosa: che, ammazzando me, fareste correre pericolo a tutta la società... perché non sapreste quello che so, che vo appurando io, nel vostro interesse, anzi nell'interesse di tutti..."

Don Girolamo fece una smorfia di dubbio.

"Non mi credete? Ebbene si tratta di quelle carte che vi furono rubate e di altre notizie che a poco a poco vo raccogliendo per la nostra sicurezza. Non avete capito che io fo la spia della spia?"

"Come? Le carte?" domandò vivamente don Girolamo.

"Precisamente. L'amico sa che cosa contengono; almeno se quello che dice risponde perfettamente al loro contesto."

"E che cosa dice?"

Antonino Bucolaro gli riferì quello che per sommi capi Matteo Lo Vecchio gli aveva riferito. Don Girolamo se ne stupiva, ma il suo volto pareva chiuso a ogni impressione. Rispondeva o commentava con un: Uhm! che non significava nulla. Ma intanto si domandava come mai il birro sapesse il contenuto di quelle carte, noto soltanto a lui, all'alto tribunale e ad Andrea; lo stesso Antonino, pur sapendo che esse formavano il processo, ignorava quello che contenessero.

"Ora se egli sa tutto questo, vuol dire che deve sapere dove sono queste carte... E io sto cercando di strapparglielo dalla bocca..."

Girolamo Ammirata lo guardò fisso negli occhi e gli domandò lentamente:

"E tu che gli dai in cambio di queste notizie?."

"Oh!" rispose sorridendo il Bucolaro, "nulla che possa compromettere... Notizie di nessun conto e che lo allontanano dalla verità..."

"Bada. Il birro è furbo. Ti coglierà."

"Non abbiate paura!..."

Il discorso finì a quel punto. Separandosi, Antonino Bucolaro si passò la mano sulla fronte e la trovò madida di un sudore freddo. Aveva vinto una battaglia, ma non poteva dire che era decisiva!

Uscendo, prima di separarsi, don Girolamo gli disse:

"Sii guardingo e prudente, e cerca di sapere dove sono quelle carte. Temo che le abbia il birro; anzi certo le avrà lui!..."

"Dove volete che venga a trovarvi?" gli domandò il Bucolaro.

"In nessun luogo. Se mi occorre verrò a trovarti io..."

Avviandosi a casa, Antonino diceva fra sè: "Egli crede che le carte le abbia Matteo Lo Vecchio; dunque la società non le possiede: e quel signor Blasco, se le ha lui o non è punto fratello o, se lo è, è un traditore! Non se n'esce. Don Girolamo non vuole che io vada a trovarlo. Dunque ha cambiato dimora e dubita di me..."

Stava per aprire la porta di casa, quando un'ombra uscì dal vano buio di una porta accanto; Antonino sguainò la spada, ma una voce nota lo rassicurò:

"Sono io; state cheto!..."

"Don Matteo..."

"Proprio. Ho saputo che stanotte avete avuto adunanza e vi ho aspettato. Entriamo, perché la notte è umida..."

"Avete qualche cosa da dirmi?"

"Una interessantissima. Ho incontrato a tre ore di notte il signor don Blasco da Castiglione..."

"Eh!?"

"Usciva dal palazzo del cavaliere della Floresta... un signore..."

"Entriamo, entriamo!" disse vivacemente Antonino Bucolaro spingendo dentro il birro.