Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte terza, capitolo 14

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Don Raimondo Albamonte duca della Motta era arrivato da poche ore, dopo un viaggio lungo e burrascoso da Genova a Palermo, sopra una galera della repubblica. S'era soltanto concesso un po' di riposo, per rimettersi, ed era corso al Palazzo Reale per sapere dal Vicerè qualche notizia sulle due donne.

Da Torino a Genova, da Genova a Palermo, quel cuore chiuso a ogni sentimento era stato torturato dai pensieri e dalle paure più tremende: non tanto per la sorte di donna Gabriella, che egli non aveva mai amato e della quale si era preoccupato assai poco, quanto per la figlia. Nelle sue viscere fredde e crudeli, dinanzi al pericolo di perdere quell'unica figliola, nella quale egli perpetuava la sua stirpe e il possesso della ricchezza, dinanzi al fantasma della morte sovrastante a quella creatura innocente, s'era ridestato veemente l'amore di padre, che vi pareva ignoto.

Ogni intoppo nel viaggio, le improvvise bonacce, le burrasche repentine che, o rallentavano il cammino, o deviavano dalla sua rotta la galera, lo trafiggevano con mille punture. Non si arrivava mai, dunque? Era così lontana la Sicilia da Torino?

Ad ogni ora in più gli pareva come se Violante discendesse un altro giardino della scala della morte: ogni giorno, al tramonto del sole su quell'immensità di mare e di cielo, egli si domandava: "Giungerò in tempo? La troverò viva?..".

E nel suo cuore il dolore ululava. Andava dal capitano, dal comito, dal nostromo, dal timoniere, domandando ansiosamente:

"Quanti giorni ancora? Ci sarà tempesta? Avremo venti favorevoli? Perché non fate remare più sollecitamente?... Ah, se fossi io l'agozzino! A quest'ora avrei rotto loro le costole! Fateli remare più presto... mettete tutte le vele!..."

Quasi quasi avrebbe voluto governare lui la galera. Se all'orizzonte scorgeva una vela, s'impadroniva del cannocchiale e la spiava con sospetto e trepidazione.

"Sarà qualche nave da corsa? Corriamo pericolo? Quanti cannoni abbiamo a bordo? Non bisogna lasciar si prendere, per dio!... Bisogna giungere a Palermo a ogni costo, e più presto che si può. Vi darò duecento scudi di più!..."

Ogni tanto rileggeva la lettera misteriosa che l'aveva fatto partire precipitosamente da Torino. Era breve, laconica, segnata dai soliti emblemi. Il giorno in cui la trovò sul suo tavolino ne riconobbe la scrittura e la forma, e impallidì. "Anche qui mi perseguitano?" ripetè.

Lo stesso pallore, lo stesso terrore lo assaliva ogni volta che prendeva la lettera per rileggerla.

"Signore; avete gettato in carcere una povera donna e un ragazzo: un uomo fugge la giustizia empia armato da voi. Vostra moglie e vostra figlia risponderanno per quelli. Esse sono in potere nostro. Affrettatevi a venire. Sta in voi riaverle".

Dapprima non aveva voluto prestare fede a questa lettera. Come era possibile che i Beati Paoli si fossero impadroniti di donna Gabriella e di Violante? Violante non era chiusa nel monastero?

Era corso al palazzo della Consulta a trovare don Nicolò Pensabene o don Francesco Aguirre o qualche altro dei siciliani, che il re aveva condotto con sè a Torino, per sapere se erano giunte notizie da Palermo e l'aspetto costernato dei suoi compaesani era bastato per dargliene la conferma. Con lo stesso corriere, infatti, era venuta una relazione del Vicerè che, in base alle prime voci, attribuiva il ratto delle donne ai corsari e chiedeva una flottiglia per la sicurezza del regno, non bastando le galere di Sicilia, poche e malandate.

"I corsari? I corsari? Credete siano i corsari?..." s'era messo a gridare esasperato.

Ora si sfogava col Vicerè, che in tanto tempo, più d'un mese e mezzo, non aveva fatto nulla. Se si fosse trattato di corsari, e transeat; ma i corsari non c'entravano.

"Questa è opera dei Beati Paoli!... Ecco la loro lettera. Capisce vostra Eccellenza? E per dio! i Beati Paoli non le avranno certo mangiate vive. Dov'è dunque la giustizia? Dove sono, che fanno le compagnie rurali?... Io avevo quasi sgominato questa setta, l'avevo quasi distrutta!... Intanto, se mia figlia fosse morta?..."

Quest'idea gli empiva il cuore, la voce, il gesto di un dolore ineffabile. Un ansia, un terrore, un bisogno di correre, di fare, di dire...

Certo c'era la mano dell'Ammirata: chi infatti poteva avere interesse a commettere quella cattura, come mezzo per liberare la signora Francesca ed Emanuele? Liberarli? Ma sì! Lo avrebbe fatto per salvare, mettere al sicuro la sua figliola; poi... Ah, poi sarebbe venuta la vendetta!...

Il Vicerè gli promise che avrebbe messo a sua disposizione le compagnie rurali, anche quelle delle terre baronali: ma egli pensava che ci voleva ben altro che le compagnie. Ritornò a casa abbattuto, disfatto, e si buttò su una poltrona dello studio, come per coordinare le sue idee e studiare un piano, quando un servo gli annunziò una visita.

"Eccellenza, il signor Blasco da Castiglione..."

"Non ricevo, non voglio vedere nessuno!" gridò.

"E vostra signoria illustrissima avrebbe torto," disse Blasco freddamente, affacciandosi sulla soglia, col cappello in mano e una certa solennità nell'atteggiamento.

Don Raimondo lo guardò con stupore, poi con un senso di terrore. Nel vano della porta, con la portiera sollevata da un lato, immobile, Blasco parve la riproduzione vivente del ritratto di don Emanuele. Parve a don Raimondo che il fratello si fosse distaccato dalla tela, o fosse uscito dal sepolcro per domandargli conto di donna Aloisia e del piccolo Emanuele.

"Che cosa volete?" balbettò.

Blasco con un gesto congedò il servo, chiuse la porta, e avanzandosi fino al seggiolone di don Raimondo rispose semplicemente:

"Parlarle, signor duca... e zio!..."

Siccome s'era voltato per avvicinare una seggiola, non si accorse del balzo che don Raimondo fece all'ultima parola.

Blasco depose il cappello, sedette e lo guardò; comprese dallo stupore dipinto sul volto del duca l'effetto dello annunzio brusco della sua parentela, e disse:

"Vossignoria si stupisce, non è vero? Ma è proprio così; io ho l'onore di essere disceso direttamente dalle illustri reni di don Emanuele Alba monte, e d'essere nato nel castello della Motta. Se non fossi venuto a trovarla per cose gravi e molto serie, ci sarebbe da ridere un po' su questa parentela, ma..."

"Ma io," interruppe con asprezza don Raimondo "non ho nessuna volontà di ridere, nè tempo da perdere, signore; e quanto alla vostra nascita e alla vostra pretesa origine..."

"Piano!" gli diede sulla voce Blasco; "pretesa? Non pretendo nulla io; chi mi attribuisce un cognome e una paternità è una piccola fede del parroco, ma se dovessi dirle il mio pensiero, per quanto l'onore di essere un bastardo del suo signor fratello possa lusingarmi, non mi lusinga al punto da ambire l'alto onore... di aspirare ad essere parente di un... uomo come vossignoria... C'è troppa... differenza. Ma non è di ciò che io vengo a parlarle... signor duca; le ho detto che si tratta di cose gravi e serie..."

Don Raimondo pensò che Blasco volesse denaro; per troncare il discorso, si alzò dicendo:

"Signore, in questi momenti ho ben altri affari e più gravi a cui devo attendere..."

Blasco non si mosse; con un gesto indicò il seggiolone a don Raimondo.

"Suppongo, signor duca, che non vi possa essere cosa più grave della sorte di donna Violante e della signora duchessa..."

Don Raimondo mutò subito aspetto e tono.

"Che? Mia figlia? Sapete qualcosa di mia figlia?"

"Sì..."

"È viva?"

"Viva..."

"Oh Dio!"

I suoi occhi espressero una domanda angosciosa che lo spasimo dipintoglisi sul volto commentava. Balbettò:

"Viva... sta bene, ma?"

"Pura come il giorno in cui nacque, e onorata, come una santa."

Allora quell'uomo che aveva sparso la morte e aveva soffocato ogni sentimento di pietà, di umanità, sentì piegarsi i ginocchi, cadde per terra giungendo le mani e, scoppiando in singhiozzi e in lacrime, ripetè:

"Dio!... Dio!... vi ringrazio!..."

Poi prese le mani di Blasco in un impeto di gioia, di riconoscenza, di tenerezza, balbettando:

"Grazie!... Grazie!..."

Blasco si sentiva commosso. Aspettò che quella crisi nervosa cessasse, per riprendere il discorso.

"È inutile dirle, e sarebbe troppo lungo, in che modo io abbia potuto conoscere perché, da chi furono rapite la signora duchessa e donna Violante; nè questo le importerà; ciò che ora importa è salvare, o meglio liberare le due donne..."

"Oh, voi lo sapete! voi siete lo uomo più prode che io abbia conosciuto. Volete una, due compagnie di soldati, uno squadrone di cavalleria?... Vi farò dare tutto quello che vorrete..."

"Sbaglia vossignoria, sbaglia. Prima di tutto bisognerebbe sapere dove sono..."

"Come? Non lo sapete?"

"No. In secondo luogo, vostra signoria non pensa che all'apparire di tanta forza, e al solo pensiero che si vogliano strappare le due signore con la violenza, coloro che le custodiscono ce le consegnino uccise?... No, no! nessun apparato di forza..."

"E che bisogna fare allora?"

"Venire a patti coi rapitori..."

"Chi li conosce?"

"Forse io...."

"E questi patti?"

"Prima di tutto occorre liberare la moglie di Girolamo Ammirata e il... nipote e fare revocare il bando che pesa sopra l'Ammirata..."

"E chi lo può?"

"Vostra signoria..."

"Ma sono cose che dipendono dalla giustizia..."

"Infatti, parrebbe così, ma vostra signoria sa che la giustizia l'ha fatta proprio vostra signoria..."

"Io non posso nulla sopra il Sant'Offizio."

"E allora, quando è così, non ho più nulla da fare. Vuol dire che lei abbandona l'unica figlia al suo tragico destino..."

"Ma no, no,... non dico questo. Vediamo. Io non so quali accuse gravino su queste persone, nè quello che i processi abbiano potuto accertare."

"Non vi sono processi; e quello imbastito per la signora Francesca Ammirata è una menzogna... Ma non ci perdiamo in discorsi inutili. Ogni ora che passa è preziosa. Vostra signoria può tutto. Pensi che si tratta della vita di donna Violante."

Don Raimondo si strinse il capo fra le mani; l'amore paterno combatteva con l'odio e con la paura. Blasco continuò freddamente e pesando le parole:

"E badi, vostra signoria, che la vendetta dei Beati Paoli - perché ormai sa bene che si tratta di loro non si arresterà alla prigionia delle signore; cadrà spietatamente sopra di lei, trascinandola dinanzi alla giustizia di sua Maestà come colpevole di scelleratezze incredibili..."

Don Raimondo illividì, i muscoli del volto gli si contrassero, tentò di mostrarsi sdegnato e di assumere un'aria di sfida.

"Minacce!... Ah! le solite infamie, le solite calunnie."

"Verità!" interruppe Blasco.

"Io li sfido!... Siete voi uno dei Beati Paoli? Ebbene comincerò da voi vi farò arrestare, vi farò mettere alla tortura, vi farò dare i tormenti più atroci, vi strapperò dalla bocca tutti i segreti!..."

"Fatelo pure, e domani riceverete in un sacco le teste di donna Gabriella e di donna Violante; e il Vicerè riceverà una denunzia formale con la accusa di avere fatto uccidere da un sicario una certa Maddalena, cameriera di donna Aloisia della Motta, vostra cognata, fresca di parto; di avere tentato di avvelenare vostra cognata due volte, con polveri fornite dalla fattucchiera Peppa la Sarda; di avere soppresso donna Aloisia e il piccolo Emanuele, unico e vero erede del titolo e dei feudi della casa Albamonte; di aver fatto uccidere Giuseppico vostro sicario; avvelenato Peppa la Sarda; fatto strangolare nelle carceri senza processo formale due poveri diavoli; dato incarico al birro Matteo Lo Vecchio di avvelenare me; e infine di essere usurpatore fraudolento del patrimonio che spetterebbe al legittimo erede!... Ce n'è di avanzo, signor duca, per farvi tagliare la testa, in piazza Marina; dieci volte, se si potesse!"

Don Raimondo aveva ascoltato quella requisitoria diventando pallido, poi livido e poi plumbeo; a mano a mano che Blasco parlava, risorgevano intorno a lui le immagini delle vittime e gli pareva che lo opprimessero e lo soffocassero; con un gesto convulso cercava di fermare le parole del giovane; lo spavento gli impediva di parlare. Quando Blasco finì, con quella visione del supplizio che egli quasi vide e sentì, radunò le sue forze per tentare una difesa:

"Non è vero!... Non è vero!..."

"Badi, signor duca, di non negare."

"Le prove... dove sono le prove?"

"Le hanno. Hanno tutto un pro cesso formale; con le deposizioni di coloro stessi che furono gli strumenti del delitto, deposizioni scritte, firmate da testimoni che sono viventi, e che verranno domani a fornire altri preziosi particolari. Io ho letto questo processo..."

"Voi? l'avete letto? Dove? Come? Quando.."

"Per un caso, un mero caso, Ne ho avuto orrore... E ora vostra signoria sa quello che deve fare..."

Don Raimondo era prostrato, vinto, avvilito; il suo segreto era in mano di molti, ormai, e quel processo rappresentava la sua condanna. Credeva di avere chiuso per sempre le bocche che potevano denunziarlo e quelle bocche avevano già parlato dinanzi a testimoni ancora vivi, che egli non conosceva, che non poteva colpire; credeva di avere quasi distrutto la setta, colpendola nel cuore, ed essa invece gli sorgeva contro armata formidabilmente e più potente e terribile di prima; credeva di poter vivere tranquillo, onorato, ricercato, dominatore, e gli si innalzava dinanzi alla mente la visione di un processo strepitoso, l'infamia, il palco e la mannaia del boia, la confisca dei beni, la miseria e il disonore perpetuo della figliuola, della sua Violante. Egli era in potere di quella setta misteriosa e implacabile! Uno spavento angoscioso s'impadronì del suo spirito; non ebbe più la forza di sfidare, di difendersi, di negare, pensò che la salvezza stava nel possesso di quelle carte, distruggendo le quali, avrebbe distrutto la fonte delle accuse e la base delle testimonianze e avrebbe potuto in un processo trionfare, o almeno spiegare le sue forze e combattere con probabilità di vincere o piegare i giudici in favore suo con l'intrigo e la corruzione.

"Blasco," disse con voce rauca per l'emozione, chiamando il giovane in modo confidenziale: "Blasco, voi siete mio parente, insomma... siete mio nipote... sangue di mio fratello... siete un Albamonte... Io sono pronto a riconoscervi... vi darò un appannaggio, un quartiere in questo palazzo... farò la vostra fortuna. Volete un grado di colonnello negli eserciti di sua Maestà? Ve l'otterrò... Farò revocare il bando contro di voi e contro l'Ammirata, scarcerare i parenti di costui... Farò tutto quello che mi imporrete, ma a un patto."

Blasco lo guardò con occhio interrogativo. Don Raimondo soggiunse:

"Voglio quelle carte!..."

"Impossibile, signore..."

"Perché impossibile? Perché? A che servono, quando io avrò acconsentito a tutto, quando avrò liberato i prigionieri? Voi dovete farlo, Blasco... anche per voi... Ve ne supplico... Promettetemelo."

"Ma io non posso prometterle ciò che non mi è dato di mantenere... Quelle carte non sono mie, quelle carte appartengono a Emanuele Albamonte, duca della Motta, che voi avete cercato di sopprimere e che è vivo!..."

"Che?... Emanuele?... Vivo?.. Ma io sono perduto!... perduto!..."

"Può salvarsi..."

"Come lo sapete voi?... È lui dunque che vi ha dato l'incarico? È lui che muove i Beati Paoli?... Come mai è vivo? Ah!..."

Improvvisamente si fece luce nella sua mente, il suo volto prese una espressione terribile di stupore, di odio, di gioia.

"Ah! è lui, lui, quel ragazzo che passa per il nipote dell'Ammirata? È lui Emanuele?... Ma dunque l'ho in potere mio!... Ah!... Orbene, signore, adesso a noi; il capo di Emanuele risponderà di mia figlia. O fra tre giorni mi si restituirà mia figlia o Emanuele morirà..."

Blasco non potè dominare un gesto di stupore: il coraggio della disperazione...; e il duca si affettava a quell'espediente con tutte le sue forze, cercando in una mossa audace la propria salvezza.

Blasco capì d'avere sbagliato la mossa, ma non si sgomentò; si alzò, prese il cappello e salutò il duca:

"Le domando perdono, signor duca; io non ho più nulla da fare... Ma badi a quello che ha detto: dinanzi a me, lei assume la responsabilità della vita e della libertà di Emanuele Albamonte.... uscendo di qua, io andrò da sua Eccellenza il Vicerè per mettere mio fratello sotto la sua protezione e quanto alla vita di donna Violante... ella saprà che suo padre non la stima tanto da sacrificarle i suoi odi e i suoi delitti. Addio, signore."

Si avviò verso la porta; Don Raimondo balzò e lo fermò per il braccio:

"Dove andate? Aspettate!" gli disse con voce cupa. "perdonatemi; che volete? Il dolore, lo sdegno, mi condussero troppo oltre. Avete ragione. Sì, avete ragione. Sono uno stolto. Ci metteremo d'accordo... Con chi debbo mettermi d'accordo? Con voi?"

"No! io ho voluto spontaneamente mettermi in mezzo per evitare uno scandalo che avrebbe travolto voi e vostra figlia... E vostra figlia è innocente! Ecco tutto. Ho pensato che voi siete padre e che deve premervi la vita di un angelo, che vi crede il migliore dei padri... Ho pensato che si può trovare una via, perché il silenzio si distenda sul passato ed Emanuele sia riconosciuto, e abbia in voi un padre, non un nemico; voi stesso, uomo di legge, avreste trovato la via... Non ho cercato il mio interesse, signor duca; io sarò felice quando avrò assicurato l'avvenire di mio fratello e di donna Violante e distrutto per sempre le ragioni che muovono la setta contro di voi... Quando ogni cosa sarà definitivamente sistemata, io vi giuro che avrete quelle carte, perché non rimanga alcuna traccia di un passato fosco e sanguinoso!...

Ora in lei, nelle sue mani, sta il compimento di questo mio desiderio, che mira alla tranquillità e alla felicità di tutti. Vuole? Io sono qui per lei. Non vuole? Andrò dal Vicerè e che si compia il destino."

"Il Vicerè vi farà arrestare..."

"Non importa. Crede dunque che la vita mi prema? Se mi premesse non la rischierei... Il mio arresto non salverà lei, nè sua figlia..."

Don Raimondo fremeva, batteva i denti, smaniava come se avesse la febbre; sentiva di non potersi sottrarre alla ferrea mano che lo aveva preso per i capelli, e che non era il caso neppure di tergiversare, nè di cercare pretesti. Blasco parlava con un tono così fermo, che non c'era alcun dubbio sulle sue risoluzioni. Cedette.

"Che cosa volete che io faccia?"

"Gliel'ho detto; bisogna cominciare con la liberazione di Emanuele, della signora Francesca e di don Girolamo Ammirata..."

"Procurerò di ottenerla..."

"Non deve dire "procurerò", ma l'"otterrò"."

"L'otterrò."

"Lo stesso giorno in cui essi saranno restituiti alle loro case, vostra signoria abbraccerà la signora duchessa e donna Violante."

"Chi me lo garantisce?"

"Io."

"Voi dunque potete molto sui Beati Paoli?" domandò don Raimondo con un lampo negli occhi, dilatando le narici, come un cane che fiuti la preda nascosta.

"In questo momento, sì... ed unicamente per salvarla... Oh, non creda perché io abbia stima di lei, tutt'altro; e neppure perché io porto, per caso, un nome che d'altronde non userò, ma per vostra figlia, per quella povera e innocente creatura che liberai una prima volta, con la forza, che voglio liberare anche ora, che voglio salvare, anzi; perché non è soltanto la vita che bisogna assicurarle, ma il nome, signor duca, il nome e la ricchezza!... Ella deve ignorare che suo padre è uno scellerato e che la ricchezza nella quale vive è usurpata; ella non deve vedere suo padre salire sopra un palco, fra i Bianchi, e posare il capo sotto la mannaia! .. Non deve maledire la vita e chi gliela diede!..."

Don Raimondo rabbrividì.

"Tacete! basta!... È superfluo discorrere ancora di ciò; corro subito dal Vicerè... purchè acconsenta. Volete accompagnarmi?"

"No; mi fido di lei. Si tratta, del resto, del suo interesse."

Qualche minuto dopo don Raimondo scendeva le scale del suo palazzo per entrare nella carrozza già ordinata, mentre Blasco si cacciava dentro una portantina modesta come quella di un medico. Separandosi, Blasco gli disse:

"Non occorre mandarmi una risposta. Saprò io stesso se Emanuele e la signora Francesca sono usciti dalle prigioni."

L'ora delle udienze era passata, ma per un alto magistrato che veniva da Torino e per la grave faccenda che teneva occupato il governo, il sequestro misterioso di due dame, e lo scacco della giustizia, non c'erano divieti di regolamenti. Don Raimondo entrò nel gabinetto da lavoro del Vicerè, conte Mattei, che gli domandò premurosamente:

"Ebbene? Ci son notizie?"

"Eccellenza, sì..."

"Si conosce dove siano le dame?..."

"Non si conosce: ho la conferma che siano state prese dai Beati Paoli... La morte è sospesa sopra di loro, se non si cede..."

"Cedere? Dobbiamo cedere? Su che cosa?" disse il conte, corrugando le sopracciglia.

"Senta, Eccellenza, io potrei agire e ordinare di mia iniziativa, perché ho ancora la patente di sua Maestà, che mi dà pieni poteri contro la setta e i malandrini, ma per rispetto all'autorità di V. E. non l'uso senza il consenso e d'accordo con l'Eccellenza vostra."

Senza entrare in particolari, nè fare il nome di Blasco, gli dimostrò la necessità di sbrigare il processo contro Emanuele, processo che, non rivelando nulla a carico del giovanotto, doveva necessariamente finire con l'ordine di scarcerazione, salvo che, per essere più spicci e perché ne venisse maggiore onore alla magnanimità di sua Eccellenza, non decidesse di graziare il giovane e ordinarne la scarcerazione.

Il conte Mattei se ne meravigliò. Se non c'era nulla contro il giovane, se era stato arrestato, imprigionato, torturato per semplice sospetto o, peggio ancora, per rappresaglia, perché lo si era tenuto in carcere tanto tempo? Che giustizia era quella? E che onore ne veniva a sua Maestà da questi procedimenti arbitrari? Bisognava rimediare. Mandò un segretario, giù nelle stanze del Tribunale, per leggere il processo, ma il processo non conteneva altro che il verbale - come si direbbe ora - della tortura inflitta al giovane.

"Ma che processi sono cotesti!..." gridò il conte sdegnato.

Egli ordinò tosto che Emanuele fosse posto in libertà. Don Raimondo si fece dare l'ordine:

"Se permettete, andrò io stesso a dare questa consolazione a quel ragazzo."

Uscendo dal Palazzo Reale don Raimondo pensava: "Questa è andata liscia, ma col Sant'Offizio sarà più difficile. Del resto, per ora patteggiamo, poi ci penseremo. L'avranno da fare con me!...".

Un perfido sorriso gli errò sulle labbra sottili. L'inquisitore generale che presiedeva il Sant'Offizio era Monsignor don Giovanni Ferrer, uno spagnolo avido, fanatico, borioso, che si doleva di non aver potuto ancora celebrare un auto-da-fè completo, cioè col suo bel rogo acceso a gloria di Dio. Strappargli una vittima era una impresa difficile; forse non c'era che un mezzo: tentarne l'avarizia, col pretesto di fare donazione di una somma al santo tribunale. E a questo mezzo dovette suo malgrado appigliarsi don Raimondo.

La campana dei morti squillava nel cielo notturno, quando la signora Francesca, stupita e come trasognata, si recava nella carrozza del duca della Motta al Castello, per ricevere e abbracciare fra le lacrime il giovane Emanuele, non meno sbalordito di quella improvvisa scarcerazione, e di vedere la sua seconda madre in quella carrozza. Ma quando si accorse di don Raimondo che se ne stava in un angolo, quasi nell'ombra, e lo riconobbe, una fiamma improvvisa gli salì al volto e i suoi occhi scintillarono fra lo stupore e l'odio.

"Ah!... lui! lui!..."

Il giovane lioncello digrignò i denti, odorando la vendetta, ma la maschera fredda e calma di don Raimondo si era aperta a un sorriso benevolo:

"È forse una cosa così strana che dopo essere stato, per dovere, il vostro giudice, sia per coscienza e per carità cristiana il vostro liberatore? Datemi dunque la vostra mano e state sicuro della mia protezione..."

Il duca gli porse la mano; la signora Francesca, il cui cuore vibrava ancora dì commozione, con uno sguardo pregò Emanuele: il giovanotto lentamente diede la sua mano, ma al contatto di quella fredda e umidiccia del duca ebbe un brivido di ribrezzo. Era la mano di un morto o il corpo di un rettile? In quell'istante i suoi occhi si incontrarono con quelli di don Raimondo. L'odio li illuminava sinistramente.