Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte terza, capitolo 15

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Don Raimondo era rientrato nel suo palazzo, fremendo d'odio, assetato di vendetta, rodendosi dentro per la rabbia della sua impotenza. Egli era venuto a patti con Blasco sotto la minaccia di quelle rivelazioni che lo avrebbero distrutto, ma ciò appunto gli aveva acceso nell'anima una fornace di odio contro quel bastardo. Dimenticò persino Violante, la sua Violante, nell'impeto di collera al quale si abbandonò, trovandosi solo nel suo studio. Dov'erano quelle carte? Le possedeva il bastardo? Bisognava riaverle; e poi, un colpo di pugnale o di carabina, di notte, era più efficace che farlo arrestare in virtù del bando che gli pesava sopra... Arrestato, sarebbero venuti fuori i Beati Paoli a strapparglielo con altre minacce, e la vendetta gli sarebbe sfuggita.

Ruminava disegni e controdisegni, quando il servo venne ad annunziargli la visita di Matteo Lo Vecchio.

"Fatelo entrare!" gridò "fatelo entrare!..."

Il birro entrò inchinandosi; don Raimondo lo investì:

"Ebbene, i banditi possono dunque risuscitare e passeggiare impunemente per Palermo, adesso che io non sono più vicario generale!..."

"Eh!... non è questo che dovrebbe stupire vostra signoria illustrissima, ma che si aprano le porte del Sant'Offizio!" rispose con qualche insolenza il birro; e aggiunse cambiando il tono: "Del resto, vostra signoria illustrissima m'insegna che qualche volta è prudente lasciar passeggiare un bandito e fargli acquistare quasi la certezza che nessuno lo disturbi... Come fa il gatto? Lascia correre il topo; quando lo vede allontanarsi, pumf! un salto e una zampata... Io so di chi intende parlare vossignoria... Lo seguo e lo tengo d'occhio per altre ragioni... Bisognerebbe narrare a vossignoria una lunga storia, ma non conta: le dirò solo che il signor don Blasco..."

"Il quale, secondo voi, era morto e sepolto..."

"Proprio così: che colpa ho io se invece di lui sono morti i topi? Il malandrino ne sa più di noi; se l'è scampata bella, ma non sfuggirà..."

"Voi siete un imbecille..."

"Se ciò fa piacere a vostra signoria, lo sarò, ma se le dirò che appunto facendo l'imbecille ho scoperto qualche cosa che riguarda precisamente vossignoria illustrissima?"

Don Raimondo trasalì; il tono di quelle parole aveva qualcosa di sarcastico e di pungente. Che cosa intendeva dire il birro?

"Riguarda me? Che cosa può riguardarmi?"

"Certi pezzi di carta che sono in potere del signor Blasco da Castiglione."

Don Raimondo impallidì; quali fossero questi pezzi di carta egli non dubitava; l'allusione era evidente, tuttavia finse stupore e domandò:

"Che carte?"

"Carte che bastano per consegnare un uomo alla venerabile Compagnia dei Bianchi..."

Don Raimondo si sentì gelare il sangue, ma ricacciò nel più profondo dell'anima la sua commozione, e la sua maschera impenetrabile non ebbe che una contrazione di mascelle.

"E che importa a me di coteste carte?" disse.

"Importa più di quello che vossignoria crede... perché si riferiscono a vostra signoria illustrissima... Non già che io creda a quello che contengono, tutt'altro! Sono birbonerie, calunnie da pigliare a legnate chi le scrisse... Ma intanto potrebbero parere cose gravi..."

Il duca della Motta si sentiva stringere la gola da una mano di ferro. Chi aveva fatto conoscere al birro l'esistenza di quei documenti? E che ne sapeva lui? Li aveva letti? Era un altro partecipe di quel segreto, che egli supponeva seppellito con le ultime vittime? Tentò di ridere e di indagare.

"Ah! ah! Quello che dite ha tutta l'aria di una cosa molto seria... E ci sarebbe da spaventarsene... Si direbbe che voi conosciate il contenuto di quelle carte!..."

"Illustrissimo, sì..."

"Lo conoscete? Voi? Come?"

"Le ho avute nelle mani..."

"Voi le avete avute nelle mani... e non le avete trattenute?..."

La sua voce pareva ingrossata dalla collera. Matteo Lo Vecchio, dunque, aveva avuto in potere quelle carte terribili e schiaccianti; egli sapeva quello che contenevano; era anche lui un'altra anima, un'altra voce che poteva a un tratto sorgere contro di lui; era un altro nemico in potenza che bisognava prevenire e del quale bisognava disfarsi.

"Come ve le siete fatte strappare?" domandò don Raimondo fingendo di non credere alle parole di Matteo Lo Vecchio.

"Vostra signoria dubita forse?" rispose il birro. "Crede che io inventi? Il ladro delle carte, colui che me le ha prese è il signor Blasco..."

"Blasco?"

"Proprio lui: il signor Blasco da Castiglione me le ha rubate. Io le avevo sottratte, so io con quale pericolo della vita... e contavo di donarle a vostra signoria illustrissima, per mostrarle la mia devozione, il mio attaccamento, ma quel malandrino me le ha prese... Come ha fatto a scoprirle? Non ho potuto ancora penetrarlo. Intanto è certo che le abbia lui... Ora, vossignoria illustrissima comprende perché io, pur potendo arrestare il signor don Blasco, lo lasci andare liberamente..."

"Bisognava arrestarlo e perquisire la sua casa..."

"Se avesse una casa sua..."

"Dorme forse all'aperto?..."

"È ospite del signor cavaliere don Coriolano della Floresta..."

Don Raimondo spalancò gli occhi. "E don Coriolano ospitava un uomo di quel genere? Dava dunque asilo ai malandrini? Per dio! non gli bastava forse, l'esempio del principe di Mezzojuso, che era stato arrestato e gettato nel Castello appunto per favoreggiamento di banditi? Ecco un uomo da denunciare al Vicerè... Forse era un complice, forse anche lui conosceva il contenuto di quei documenti terribili; anche lui era un nemico dal quale difendersi". Volle vedere se veramente Matteo Lo Vecchio conosceva il contenuto di quelle carte, anche per riscontrare e verificare quello che Blasco aveva detto. Interrogò il birro, il quale gli espose per filo e per segno ciò che aveva letto nel processo istruito dai Beati Paoli, pur frammezzando la sua esposizione con proteste e manifestazioni di stima verso un signore così illustre come il duca della Motta.

"Si vede che è tutta una montatura di gente che vuol fare qualche grossa "componenda" a vostra signoria illustrissima."

"Sì, proprio!" disse don Raimondo col cuore ancora tumultuante, afferrandosi a quell'ipotesi.

Ormai non gli restava più nulla da sapere: anche il birro sapeva tutto ed era un soggetto pericolosissimo che, o bisognava legare a sè in modo indissolubile, o bisognava sopprimere. Intanto era necessario avere quei documenti che erano diventati il suo incubo.

"Sarei curioso," disse "di vedere cotesti scartafacci!..."

"È quello che penso di avere nelle mani, se vostra signoria illustrissima mi aiuta..."

"Figuratevi!... Siete sicuro di riuscire?..."

"Ho un filone..."

"Sarebbe a dire?"

"Ho potuto trarre dalla mia uno dei Beati Paoli, un amico di don Girolamo Ammirata..."

"Ahi.."

"E con lui andiamo seguendo passo passo quello che la setta fa... Bisognerebbe però frugare nella camera del signor don Blasco... e per farlo si dovrebbero corrompere i servi... Capirà..."

Don Raimondo capì; trasse da uno stipo un sacchetto di denari e lo gettò fra le mani avide del birro:

"Eccovi del denaro..."

"Grazie; mi metterò subito all'opera..."

"Non date sospetto... Procurate di impadronirvi di quelle carte, sebbene non mi facciano paura e siano delle sciocchezze; ve le pagherò a peso d'oro."

Mentalmente don Raimondo aggiunse: "Salvo a farti sparire dalla faccia della terra un'ora dopo che mi avrai consegnato le carte".

Congedò il birro e quando fu solo si abbandonò alla disperazione che fino allora aveva represso nel profondo dell'anima.

"Tutti! tutti! - gridava rabbiosamente percotendosi la testa coi pugni: - tutti dunque sanno? Tutti?! il mio non è più un segreto! da ogni parte, da ogni ombra sorgono testimoni e denunciatori; ed io sono in loro balia; io sono alla mercè dei più miserabili!... Ho dunque seminato la mia strada di morti, ho fatto spargere lacrime e sangue intorno e dietro di me per seppellire nelle tenebre il mio segreto, e dalla terra, dall'aria da ogni parte mille bocche lo gridano e lo divulgano! Non potrò mai dunque sperare di stendere il silenzio e l'oblio d'intorno a me?".

E nel suo cuore gonfio corse l'idea di una vendetta gigantesca, con la quale potere sopprimere d'un colpo tutti quei nemici occulti e palesi che lo circondavano, lo insidiavano, l'opprimevano. Sopprimerli! Potere di tutte quelle teste fare una testa sola e troncarla con un colpo di mannaia gigantesca! "Ah, voi siete il bastardo di don Emanuele della Motta e tu ne sei il figlio legittimo? Andate a raggiungere la cara ombra paterna! E voi siete i Beati Paoli? Andate a godere il premio della vostra beatitudine!".

Con le narici dilatate anelava ad una vendetta spietata, tanto più crudele e spaventevole, quanto più grande era il terrore che lo faceva tremare.

Terrore superstizioso e infrenabile dal quale si sentiva soggiogato e avvilito. Vendicarsi? Ah, sì, era il suo sogno, ma intanto "quelli" erano i più forti e lo avevano in potere loro, e potevano, se egli trasgrediva di un pollice, buttarlo fra le braccia del boia. Erano i più forti e la loro forza veniva dal mistero, dall'ignoto: quanti erano? Dietro quelli che egli conosceva, quanti ve ne erano che gli rimanevano ignoti e per ciò più terribili?

Questo pensiero gli faceva apparire la vendetta lontana e dubbia: forse dopo le prime vittime sarebbero sorti altri e nuovi vendicatori; forse, anzi, il suo desiderio di vendetta, i suoi tentativi potevano essere fomite e sorgente di nuove e maggiori rappresaglie contro di lui.

Fra queste angosce aveva quasi dimenticato la figliola; quell'impeto di paternità che, nell'ignoranza della tremenda minaccia che gli sovrastava lo aveva sospinto da Torino a Palermo e lo aveva fatto cadere ai piedi di Blasco da Castiglione, pareva si fosse affievolito dopo aver saputo che Violante soffriva integra e che gli sarebbe stata restituita. Non paventando più per lei, poteva pensare a sè. La figliola sarebbe venuta fra uno, due giorni, ma in quelle condizioni era quasi preferibile mandarla via, altrove, al sicuro, per lasciarlo libero, e per impedire che ella venisse a conoscere i delitti di cui era bruttata la coscienza del padre. Per un sentimento di delicatezza o di vanità, egli teneva a rimanere agli occhi di Violante l'uomo integro e immacolato che la figlia credeva.

In questo modo il suo cervello passava da una serie di pensieri ad un'altra non meno tormentosa: e tra l'una e l'altra trascorreva la notte vegliando e torturandosi.

Frattanto Matteo Lo Vecchio, uscendo dal palazzo degli Albamonte, si avviava in cerca di Antonino Bucolaro. Gli pareva tempo di agire, per tema che, approfittando delle circostanze favorevoli, come l'arrivo di don Raimondo in Palermo, Blasco traesse per sè, tutto il vantaggio dalla vendita di quelle carte. Era dunque necessario rientrare in possesso di quelle carte: cosa che, veramente, Matteo Lo Vecchio poteva fare da solo, visto che, nelle indagini per appurare chi deteneva quei documenti, Antonino Bucolaro gli era stato di pochissimo aiuto. Ma erano avvenute tante novità e altre imprevedibili potevano avvenirne, che era prudente tenersi stretto il Bucolaro, e comprometterlo in modo da obbligarlo allo spionaggio e al tradimento.

Attraversando la piazza di S. Cosmo, guardò la casa di Girolamo Ammirata, i cui balconi erano chiusi, ma da certe fessure traspariva qualche filo di luce, segno evidente che, nonostante l'ora tarda, lì si vegliava.

"Naturalmente c'è festa e lì dentro ci saranno don Girolamo e Andrea. Che colpo!... Se passasse una ronda!...

Ma a quest'ora le ronde dormono beatamente. E se andassi al quartiere di S. Giacomo? Non è mica lontano... Sì, è vero, non è lontano, ma intanto che vado a chiamare qualcuno, essi hanno tutto il tempo di dileguarsi... ci stanno tante spie!... E poi, forse è meglio per ora lasciar correre!...".

I suoi pensieri presero un corso nuovo. Il birro aveva veduto nel pomeriggio don Raimondo uscire dal Palazzo reale, nella sua carrozza, e n'era rimasto stupito.

"Come? - si era detto. - Il duca a Palermo? Da quando? Certamente era venuto per la sparizione delle due donne... Eh! ci voleva altro che il Vicerè!...".

Si era messo a correre dietro la carrozza e aveva potuto raggiungerla e sedere sul predellino posteriore, come un monello, facendosi così trasportare e seguendo il duca da presso, senza esserne veduto. Lo aveva in questo modo seguito - non senza un certo stupore - fino al Sant'Offizio, dove non aveva tardato a conoscere quello che don Raimondo era andato a farvi; la qual cosa gli era parsa così meravigliosa e inaspettata, che si era segnato con la mano sinistra. Dopo avere atteso un bel pezzo, aveva veduto uscire dal portone del palazzo don Raimondo e la signora Francesca ed entrare nella carrozza.

"Toh! toh!... toh!..

Ma è vero quello che vedo, o traveggo?... Che cosa vuol dire questo?... Tutto avrei potuto immaginare, tranne una cosa simile! Ci deve essere sotto qualche grossa diavoleria. Occhio, Matteo!...". Ma il suo stupore si era mutato in sbalordimento, quando aveva veduto la carrozza recarsi al Castello, a rilevare Emanuele: gli era parso che il mondo si fosse capovolto e che gli uomini camminassero col capo in giù. Quanto aveva veduto gli era sembrato appartenere al regno dell'impossibile e dell'incredibile, non arrivando col suo cervello a penetrare nelle ragioni che avevano obbligato il duca a quel passo.

"Certo, - pensava - ci dovevano essere grandi novità! l'uomo è furbo e se fa questo ci deve essere il suo tornaconto".

Ora, passando dinanzi a quella casa, faceva la medesima osservazione: "ci doveva essere il suo tornaconto!". E un vago presentimento gli faceva temere per i suoi disegni.

"Nino Bucolaro deve sapere qualche cosa. Diamine, l'avranno invitato certamente!... Una festa di famiglia come questa!".

Era giunto a Ballarò, quando gli sembrò di udire dei passi dinanzi a sè ma l'oscurità della strada non gli lasciava vedere le persone che camminavano. Affrettò l'andatura, senza fare rumore, e gli sembrò di scorgere due ombre, una delle quali riconoscibile, o quasi, all'andatura.

"È lui? Non è lui?... E l'altro chi sarai..".

Le due ombre, percorsa la piazza Ballarò, piegarono per l'Albergheria e si fermarono all'angolo della strada. Lo avevano udito? Lo avevano veduto? Forse, e non era prudente fermarsi o ritornare indietro, perché avrebbe destato sospetti. Gli convenne proseguire, come uno che vada per i fatti suoi, e passò dinanzi alle due ombre ferme, avvolte nei mantelli.

Matteo riconobbe in una di esse Bucolaro. Non si era ingannato. Ma l'altro? Chi era l'altro? Tirò innanzi verso la sua casa, e dopo una ventina di passi si fermò e si voltò, protetto dalle tenebre. Credette di vederlo, si accorse che le due ombre staccatesi dall'angolo della strada, si fossero dileguate.

Ritornò indietro, camminando in punta di piedi, e arrivò proprio in tempo per sentir chiudere un portoncino in una viuzza dietro la chiesa del Carmine e non ebbe più dubbio alcuno. Era Antonino. Ma l'altro sarebbe venuto via presto?

Aspettò circa un'ora, ma il portoncino non si aprì; allora modulò un certo fischio convenzionale e aspettò, ma il balconcino restò chiuso; aspettò ancora, ma invano. Se ne andò a casa. All'alba fu svegliato da un fischio simile al suo: si alzò, e in berretto da notte e mutande si affacciò dietro le vetrate. Antonino Bucolaro era giù sotto il balconcino, avvolto nel mantello col naso in aria. Gli fece segno di salire e tirò il cordone del saliscendi.

"Che diavolo vi viene in testa di chiamarmi quando io sono in compagnia?" disse il Bucolaro risentito.

"Avevo bisogno di vedervi..."

"Anch'io..."

"Chi era con voi stanotte?"

"Non l'avete riconosciuto? Andrea Lo Bianco."

"Oh, diavolo!... Se l'avessi riconosciuto gli avrei teso la rete..."

"Tempo perso... caro mio!... Don Girolamo e Andrea possono passeggiarvi sotto il naso... hanno un salvacondotto, al quale seguirà la grazia... E voi forbitevi il muso..."

"E questo miracolo, naturalmente si collega con la liberazione di Emanuele e della signora Francesca..."

"Precisamente..."

"Le cose precipitano, don Antonino: bisogna fare il colpo..."

"Credo che l'abbia fatto quel malandrino di don Blasco..."

"Come?"

"Si è incontrato stamane col duca... e poi ne è venuto tutto questo..."

"Ah, il brigante!..."

"Le carte a quest'ora il signor duca le avrà bruciate..."

"No; m'ha incaricato di ricuperarle..."

"Finzione!..."

"Eh, no! volete che io non m'accorga di una finzione? Quel brigante non le avrà ancora consegnate... Entro sera, bisogna levargliele. Io mi occuperò di lui; voi dovreste occuparvi del suo amico, il cavaliere della Floresta..."

"Non è possibile."

"Perché?"

"Perché don Blasco è partito..."

"Partito?"

"Da stanotte, per andare a prendere la duchessa e la duchessina, e consegnarle sane e salve al duca della Motta."

Matteo Lo Vecchio ebbe un lampo di genio, che gli illuminò il volto di una gioia feroce.

"Mi viene un'idea..."

"Sentiamola."

Il birro si chinò e cominciò a parlare a voce bassa. Antonino Bucolaro dapprima manifestò stupore, poi ammirazione, ma riluttanza; finalmente, persuaso dalle argomentazioni di Matteo Lo Vecchio, concluse:

"E va bene. Farò come dite."

"Fra due ore andrò dal duca; voi procuratemi quelle notizie. Ci vedremo a mezzodì..."

"Dove?"

"A casa vostra."

"Ma siete matto? Volete perdermi?"

"Non abbiate paura. Non mi riconoscerà nessuno."

A mezzogiorno infatti Antonino Bucolaro si vide venire incontro, sull'uscio di casa, un abate della provincia e mandò un grido di sorpresa:

"Ah! l'abate del Castello!... il confessore della signora Francesca!... Adesso vi accomodo io!..."

Ma alla risata di Matteo Lo Vecchio sbalordì:

"Voi!... Dunque anche allora... quando siete venuto?"

"Sì, sì; ne parleremo dopo, ma entriamo, così mi fareste riconoscere. Sono un povero abate del regno, venuto a trovarvi per un affare. una partita di vino da collocare... Mi spiego? Entriamo, dunque."