Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte terza, capitolo 16

Italiano English

Violante s'era seduta dietro la finestra della sua camera dalla quale si dominava la valle e guardava fuori la distesa di gioghi che andavano affievolendosi nella lontananza, tra umidi vapori della terra. Grossi cirri di nebbia ondeggiavano sulle cime dei monti aspri e nudi. Giù si stendevano ampie distese di terreni che parevano abbandonati, sparsi di piante selvatiche, piccole, rade o a macchie, senza un albero, senza una casa o una capanna. Talvolta una torre solitaria; tal altra un chiuso di pietre per raccogliervi le greggi nella notte; fra un colle e l'altro, o ai piedi di una giogagia qualche macchia scura: un bosco; o qualche macchia biancastra: un borgo o una città.

Violante vedeva anche un tratto del sentiero che conduceva sulla rocca, in cima alla quale sorgeva la sua prigione. Quel sentiero, uscendo di fra alcuni massi che lo nascondevano, svoltava di li a poco per il fianco della rupe. Da quando la zia Nora le aveva rivolto le parole incoraggianti e accennato a Blasco, Violante si poneva a spiare dalla finestra quel tratto del sentiero, dal quale doveva certamente venire Blasco. Di lì, infatti, vedeva ogni tanto salire la mula che portava le provviste al castello e ne aveva inferito che quella era la strada d'accesso, e che di lì sarebbe venuto Blasco.

Ella preferiva passare le giornate in questa dolce aspettazione, che tenendola lontana dalla matrigna, le risparmiava quelle scenate violente e odiose, che aprivano solchi nel suo cuore e limitava i suoi contatti ai momenti non troppo lunghi dei pasti, nei quali non poteva esimersi dal trovarsi accanto a donna Gabriella; nondimeno questa, o perché nella solitudine diventava più triste, o perché il vedersi fuggita dalla figliastra eccitava tutti i mali sentimenti che le si erano annidati nel cuore, entrava talvolta nella camera della fanciulla e trovava sempre un pretesto per tormentarla.

Una sera nel preparare la camera per la notte, la zia Nora disse a Violante:

"Verrà domani."

Il cuore della fanciulla cominciò a picchiare con violenza; non c'era bisogno di domandare e tuttavia chiese confusa e rossa:

"Chi?"

"Il signor don Blasco."

Blasco!... Finalmente egli sarebbe venuto; non v'era che quella notte ma come le sarebbe parsa lunga! E a che ora sarebbe arrivato? All'alba, le prometteva il desiderio; a sera, la disanimava il timore: così le trascorrevano le ore fra queste due voci interne che se la contendevano: ma rimaneva sempre quella grande certezza, che aveva nome domani. "Verrà domani - pensava la fanciulla. - Perché non era venuto prima?". Mentalmente ella si rivolgeva questa domanda, che rimaneva senza risposta; quel Blasco che le stava dinanzi agli occhi interiori non parlava, ma guardava. Come sarebbe venuto? A questa nuova domanda un senso di spavento le agitò il cuore. Gli uomini che la custodivano, che non permettevano che esse uscissero, che non lasciavano avvicinare alcuno al castello; quegli uomini che, mentre si mostravano servizievoli e rispettosi, come vassalli, avevano qualcosa di duro e di inflessibile e di minaccioso, avrebbero lasciato portare via lei e la matrigna, senza opporre resistenza? E se l'uccidevano? Quest'idea la empì di tanto sgomento, che le parve davvero di vedere Blasco ucciso; e allora si sentì capace del sacrificio di sè per la salvezza del giovane.

"Che egli non venga, che io non lo veda, che io rimanga qui, sempre, purchè egli non abbia alcun male".

Ma un'altra voce la incoraggiò. Di che aveva paura? Chi era prode e coraggioso quanto lui? Egli avrebbe abbattuto e vinto ogni ostacolo e nessuno avrebbe resistito al suo braccio. La fede nell'invincibilità del suo liberatore, della quale aveva avuto una grande prova, affiorava in lei e in qualche modo attenuava le ansie e i timori del pericolo.

Non chiuse occhio tutta la notte, e la mattina si levò dal letto con una impazienza febbrile. Alla zia Nora, venuta a rifare la camera, domandò con voce trepidante:

"A che ora giungerà il signor Blasco?"

"Non lo so: questo non lo so..."

Violante pensò un minuto e domandò ancora:

"Lo sa la signora duchessa che arriverà il signor Blasco?"

"Oh no; non c'era bisogno di dirglielo. E poi non mi ordinarono di dirlo anche a lei..."

"Dovevate dirlo a me sola?"

"Così è."

"Chi ve l'ha ordinato?"

La zia Nora alzò le spalle, come a dire: "Che domanda!...".

E non aggiunse altro. Violante si rimise alla finestra con gli occhi fissi al sentiero.

Anche donna Gabriella era nervosa e impaziente. La zia Nora le aveva annunziato il prossimo arrivo di qualcuno, ma gliel'aveva detto, in apparenza per confortarla, in realtà per prepararla:

"Speriamo che lei non resti qui più di questa settimana, e che passi il santo Natale nel suo palazzo."

"Che ne sapete voi?" aveva domandato vivacemente la duchessa.

"Io non so niente... Ma qualche parola udita..."

"E che parola avete udito?... Che parola?... Ditelo... Lo voglio..."

"Oh, Eccellenza, parole... che so io? Dicevano: "Ne abbiamo ancora poco di quest'esilio e torneremo a Palermo". Ecco quello che dicevano!"

"Chi lo diceva?"

"Ehi... gli uomini."

Donna Gabriella dedusse da quelle poche e monche parole che qualche novità era in vista e l'aspettava con impazienza. Quella lunga prigionia la aveva esasperata. Ma un nuovo pensiero la rese più irrequieta e nervosa: "Se quegli uomini parlavano solo di se stessi? Se la liberazione veniva soltanto per loro, con un cambio di custodi?". Aspettava perciò anche lei, non un liberatore, ma il giorno della partenza dei suoi custodi, per sapere qualche cosa della sua sorte: e quella mattina, seduta dietro la finestra, non avendo altro da fare, guardava giù quel tratto di sentiero che si scorgeva.

Così, nello stesso tempo Violante e donna Gabriella videro spuntare fra i massi due cavalieri, salire il breve tratto di sentiero visibile e sparire di nuovo dietro le alte rocce: tutte e due seguirono i due cavalieri con l'animo trepidante, non raffigurandoli, perché erano avvolti nei mantelli; ma Violante sapeva già chi era uno di essi. Tutte e due, vedendoli, ebbero un pensiero di gioia.

Violante pensò:

"È lui".

Donna Gabriella disse:

"Non è il cambio della guardia; dunque vengono a prenderci!..."

E contemporaneamente, per quel bisogno dello spirito di espandere e comunicare la propria gioia, esse uscirono dalle loro camere, s'incontrarono sulla soglia della porta comune con la stessa parola sulla bocca, una parola che esprimeva speranza, sollievo, contentezza, un cumulo di sentimenti:

"Viene gente!"

Donna Gabriella domandò subito:

"Come lo sai?"

"Li ho veduti dalla finestra."

La duchessa pensò: "Anche lei, dunque, è stata alla finestra; anche lei sapeva?...".

E aspettarono. In quella solitudine, l'arrivo di quei due cavalieri costituiva per donna Gabriella un avvenimento di grande commozione, perché v'era nella loro venuta qualche cosa di ignoto; per Violante la commozione era diversa: ella sapeva che uno di quei due cavalieri era Blasco.

"Chi saranno mai costoro?" disse donna Gabriella.

Violante fu sul punto di rispondere: Io lo so...

Ma tacque. Dopo quello che era avvenuto fra lei e la matrigna, temeva sempre di tradirsi e di tirarsi addosso le collere impetuose di donna Gabriella. Tacque e aspettò. La zia Nora entrò nella camera della duchessa, sorridendo, con le mani sui fianchi, dicendo:

"Vostra Eccellenza si prepari per partire; e anche la signorinella... Sono venuti a prenderle. Stiano allegre... anche gli uomini partono..."

Donna Gabriella pensò che se gli uomini partivano con loro ciò poteva significare che mutavano di prigionia e questa riflessione le oscurò la fronte e le fece pullulare al sommo dell'anima un'onda di sospetti. Ordinò alla figliastra col suo tono aspro e imperioso:

"Va' a preparare le tue vesti..."

Anche lei, aiutata dalla zia Nora, cominciò a raccogliere tutto ciò che le apparteneva. A un tratto domandò alla vecchia:

"Sono arrivati quei signori che ho veduto dalla finestra?"

"Eccellenza, sì... Ma è uno il signore; l'altro è un campiere."

"Di chi?"

"Mah!... forse del signore..."

"Dov'è questo signore?"

"Nella sala da pranzo..."

"Andate ad avvertirlo che desidero parlargli e che si prepari a ricevermi..."

La zia Nora fece un gesto col capo, che poteva significare: "Senti che tono!" - e uscì.

Un minuto dopo donna Gabriella entrava nella sala da pranzo con aria di sfida, intanto che Violante chiamava la zia Nora e le domandava sottovoce, rapidamente:

"Ebbene, zia Nora, è venuto?"

"Sissignora... È nella sala da pranzo... con la signora duchessa."

Senza sapere perché, Violante avvertì una stretta al cuore. Al sentire che la matrigna si trovava con Blasco avrebbe voluto correre e sentire quello che dicevano, se le regole della buona creanza glielo avessero consentito.

"Che cosa dicono?" domandò.

"Chi lo sa?..."

Donna Gabriella, entrando, non aveva veduto l'uomo che stava nella sala da pranzo, il quale guardando dalla finestra le voltava le spalle; nè parve che egli udisse il rumore fatto da lei nell'entrare. Bisognò che ella chiamasse:

"Signore."

Ma non appena Blasco, scosso da quella voce, si voltò, donna Gabriella mandò un grido di stupore:

"Voi?... voi, Blasco?"

Blasco le si avvicinò per baciarle la mano, da buon cavaliere, ma non sembrò stupito, giacchè evidentemente egli si aspettava quell'incontro; soltanto non potè dissimulare un lieve rossore.

"Sono io, signora duchessa, felicissimo di rendervi un servizio..."

Donna Gabriella lo saettò con gli occhi cupi e mormorò con amara ironia:

"È proprio a me che rendete un servizio?... Avete affrontato per me i fastidi di un lungo viaggio?... Ciò mi confonde e mi inorgoglisce, signore, perché non ero avvezza ai vostri sacrifici..."

Blasco la guardò con dolcezza fraterna e la sua voce parve empirsi di una tenerezza compassionevole e profonda:

"Credete forse che la vostra vita, che la vostra persona non mi stiano a cuore? Certo non sono venuto per voi soltanto, mancherei ai miei doveri di lealtà se dicessi questo, ma, credetemi, che se si fosse trattato di voi, sarei venuto allo stesso modo, per liberarvi da una prigionia..."

"Misteriosa per me; non per voi, a quanto sembra, dal momento che sapete dove ci hanno relegato e senza alcun pericolo potete aprirci le porte..."

L'ironia che diede il tono a queste parole fu così viva, che Blasco domandò:

"Che intendete dire?"

"Insomma," disse con asprezza donna Gabriella "toglietevi la maschera, signore!... e abbiate la lealtà o la franchezza di dirmi a che scopo ci avete fatto catturare..."

"Io? Credete che vi abbia fatto catturare io..."

"Oh, è inutile fingere, ma mettetevi bene in mente che, finchè sarò viva io, non raggiungerete mai il vostro intento!"

"Signora duchessa, credo che voi vi inganniate... Di che intento parlate? Io non ne conosco che uno solo. Darvi la libertà. In questo castello, del quale fino a tre giorni fa ignoravo perfino l'esistenza, vi sono cinque uomini devoti fino al sacrificio delle loro persone, che da oggi dipendono da me... soltanto da me. Orbene, signora duchessa, io metterò questi uomini ai vostri ordini e parto subito, rinunciando al piacere di accompagnarvi e di servirvi."

E fattosi alla finestra che dava sul cortile, gridò:

"Cristiano!..."

Un istante dopo un uomo, in giubbetto corto e stivali alti, con una pistola alla cintola, si presentò sulla soglia.

"Cristiano," gli disse Blasco, "quale ordine avete ricevuto?"

"Di ubbidire ciecamente a vostra signoria in tutto e per tutto."

"Sta bene. Ascoltami dunque. Da questo momento voi non riceverete ordini che dalla signora duchessa. Non riconoscerete altro capo che lei..."

"Se sua Eccellenza mi ordina di buttarmi da questa roccia io e i miei uomini, non ci penseremo due volte."

"Grazie, Cristiano; andate e aspettate."

Cristiano fece con la mano l'atto di baciare le mani dei signori e si ritirò; appena richiuse la porta, Blasco disse a donna Gabriella:

"Ed ora la mia presenza è del tutto inutile. Vi lascio..."

S'inchinò rispettosamente e si mosse. Donna Gabriella, rimasta fino allora muta, immobile, cupa, si riscosse e gridò:

"Dove andate? Rimanete!..."

"Perché?"

"Perché non credo a questa commedia... Voi o quel Cristiano, è la stessa cosa; sono sempre vostra prigioniera e so bene che esco di qui, per entrare in qualche altro carcere... soltanto ditemi, di grazia, che cosa pretendete..."

"Io? Che cosa volete che io pretenda? Quello che desidero, e per cui sono venuto ve l'ho detto. Debbo ripetervelo? Non mi credete; e io non posso costringervi a credermi... Ma avete torto; perdonatemi la franchezza... Se potessi dirvi come e per quali ragioni voi e donna Violante siete state catturate e in che modo io ho potuto sapere, dopo tanto tempo, dove eravate confinate, e come ho ottenuto la vostra libertà, certo mi credereste; ma dovrei rivelarvi segreti non miei. Il duca vostro marito, al quale ho promesso di ricondurvi, potrà, se crede, dirvene qualche cosa..."

"Mio marito? È dunque tornato?"

"Da quattro giorni..."

"Ed è a Palermo?"

"Dove aspetta voi e la figlia..."

"Sapeva dunque quello che mi era occorso?"

"Ne era stato informato."

"Da voi?"

"No, altri prevenne il mio desiderio..."

"Cotesti "altri che interesse avevano di avvertire don Raimondo?"

"Non lo so, nè potrei dirlo... Del resto che v'importa? Durante la vostra prigionia, sono sicuro non vi è stato torto un capello, nè vi si è mancato di riguardo; ora vi si restituisce la libertà e sarete accompagnata col massimo rispetto fino al luogo, dove il duca vostro marito vi riceverà... Di questo episodio non vi rimarrà traccia, fuor che il ricordo, come di un sogno... Al duca avrei voluto consegnarvi io, come gli avevo promesso, ma voi avrete la cortesia di scusare la mia assenza. Avete ordini da darmi?"

"Vi ho pregato di rimanere;" disse donna Gabriella con voce scura "poichè mio marito ci attende dalle vostre mani, ci accompagnerete..."

"Come volete..."

Donna Gabriella stette un minuto in silenzio, poi con un sorriso pieno di amarezza aggiunse:

"Certamente non vi dorrete della compagnia, poichè... non accompagnate me sola..."

Blasco si sentì una vampata sul volto, ma non rispose: donna Gabriella se ne accorse, e impallidì; le sue labbra divennero smorte ed ebbero un fremito di collera. Non seppe contenersi e, afferratolo per un braccio, investendolo con uno sguardo ardente, con una voce che pareva fatta di singhiozzi, riprese:

"Perché mi diceste di amarmi? Perché vi siete fatto signore dell'anima mia? Perché mi avete acceso nel cuore una passione che mi divora, che mi distrugge? Perché mi avete fatto sentire la voluttà dei vostri baci? Perché una notte, una notte ardente, il cui ricordo mi brucia il sangue, mi turba il cervello: una notte inobliabile, mi avete fatto bere alla coppa della gioia, mi avete fatto credere di possedervi tutto, anima e corpo, per sempre, fino alla morte, dopo la morte? Perché mi avete abbandonata? Che vi ho fatto? Che ti ho fatto, Blasco? Non mi ero tutta, tutta donata a te, mio signore magnifico? E tu mi hai gettata via con un pretesto... tu mi hai riempito il cuore di tutti i tormenti, di tutte le angosce, di tutti i furori, di tutte le disperazioni; tu mi hai abbeverato di fiele e d'assenzio; tu mi hai fatto e mi fai ardere d'odio... Soltanto di odio; e io vivo ora per questo odio e in quest'odio vi avvolgo entrambi, te e lei!... E, ascoltami bene: per giungere fino a lei, è necessario che prima tu mi uccida!..."

Blasco aveva ascoltato quell'onda impetuosa di parole con dolore, pietà, stupore, cercando di arrestarla col gesto, interrompendola con una parola.

"Duchessa... duchessa..."

Ella diede in un riso angoscioso:

"Duchessa!... Ecco qual è il mio nome, ora; ma quando la tua bocca cercava la mia e le tue mani fremevano di carezze, tu mi chiamavi Gabriella!... ora questo nome s'è cancellato dall'anima tua sotto l'impronta di un altro nome... Ma io scaverò con le mie mani quel nome e lo vedrai fiammeggiare e bruciarti di notte, implacabile, tenace come il mio odio, come la mia vendetta.."

"Gabriella... in nome di Dio!..."

"Dio? Perché invochi Dio? Che speri? Non ti salverà!..."

"Gabriella!..."

Ma la duchessa, vinta dal suo impeto, scoppiò in pianto e si abbandonò sopra un seggiolone. Blasco era commosso; la evocazione del passato, la passione non ancora domata di quella donna, il suo dolore, gli empivano il cuore di pietà e di tenerezza.

Prese la mano di donna Gabriella, chiamandola dolcemente e supplicandola:

"Gabriella, abbiate dunque pietà di voi e di me..."

Le si era chinato sopra e le sue parole le sfioravano quasi i capelli. In quell'istante la porta si aprì e Violante apparve, dicendo:

"Signora madre..."

Ma nel vedere Blasco in quell'atteggiamento, mandò un grido acuto, come ferita, e vacillò.

"Violante!" gridò Blasco con accento intraducibile.

"Ah! lei!" urlò donna Gabriella, balzando in piedi, cieca di dolore di gelosia, di odio; e afferrato dalla tavola ancora apparecchiata, un piccolo coltello da frutta, dalla lama a punta un po' ricurva, si slanciò sopra Violante, ruggendo: "Ah!... tu morrai!..."

Blasco vide, intuì, e in un baleno si gettò fra donna Gabriella e Violante che si piegava sulle ginocchia. Il coltello colpì, scese, segò la sottoveste di Blasco, sfiorò la pelle. Blasco le afferrò energicamente il polso, la disarmò, gettò lontano il coltello, rimproverandola:

"Disgraziata! Che fate?..."

Donna Gabriella sbarrò gli occhi, vide dinanzi a sè Blasco, sulla cui sottoveste chiara era affiorata una larga macchia rosseggiante; l'orrore le si dipinse sul volto; diede un passo indietro balbettando:

"Voi.. sangue!... Io..."

Blasco la lasciò e allora donna Gabriella si passò una mano sugli occhi e sulla fronte con un gesto automatico, poi, come forsennata, mandò uno strido e corse alla finestra...

"Signora madre!..." urlò spaventata Violante accasciata per terra.

Ma già Blasco si era slanciato, aveva afferrato per la vita donna Gabriella l'aveva deposta sopra un seggiolone, fremente, spaventato.

"Gabriella! Gabriella!..."

La duchessa mandò un altro strido e cadde in convulsioni, mentre Violante, esterrefatta, gridava:

"Signor Blasco! signor Blasco!... che cosa è dunque?"