Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte terza, capitolo 19

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La sera stessa in cui la signora Francesca ed Emanuele rimisero il piede nella loro casa, per tutto il vicinato fu una festa: le vicine salirono in folla; chi baciava la mano alla signora, chi le domandava come stesse e tutte le assicuravano che avevano provato una gran pena per il suo arresto e più ancora per quella condanna immeritata. Oh! se avessero domandato informazioni a loro, la buona signora non avrebbe patito tanto. E che cose erano accadute da quando l'avevano arrestata!... I birri avevano invaso il quartiere: una vera battaglia, proprio! anche per le scale della casa!

La signora Francesca guardava intorno. Si vedevano infatti le tracce di quell'invasione nel disordine che regnava nella casa. Ella pregò una vicina di andare su dal pittore Bongiovanni a partecipargli il suo arrivo. Pellegra scese di corsa, con un grido di giubilo, e nel suo impeto abbracciò Emanuele, credendo di abbracciare la signora Francesca: di questo equivoco il giovanotto approfittò, baciando in bocca la fanciulla, che si disciolse con un grido, se non di gioia non certo di dispiacere.

Il pittore scese pian piano, ripetendo per conto suo un discorso che si era preparato, ed entrò, dicendo:

"Benvenuta! benvenuta!... Ma sapete che la cosa è grave... grave! La Vicaria, sapete; non si scherza mica! La Vicaria; l'ha detto a me, se mi immischio in certe cose... Perciò, signora Francesca, mi rallegro... ma lontano. Capirete, la Vicaria non piace, a me non piace!..."

Sorrideva guardando tutti come per raccoglierne l'approvazione. La sua demenza andava crescendo e lo rendeva ridicolo. Pellegra lo lasciava dire, redarguendolo qualche volta e impedendogli, quando poteva, di dire e compiere qualche sciocchezza. Ma ora nessuno gli badava. La signora Francesca e Pellegra si erano date attorno, da buone massaie, a rassettare la casa spolverando, spazzando, ed Emanuele un po' le aiutava, un po' stuzzicava don Vincenzo, che ripigliava la sua lamentela:

"Ah! la Vicaria, è una cosa grave! Tu vieni di là, figlio mio, e puoi dirlo... Ti pare che io possa patire una pena simile? Ne morirei, ne morirei... E Pellegra? La povera figlia!.. Ah, figlia mia sventurata! figlia mia sventurata!"

Si metteva a piagnucolare come se realmente fosse lì lì per essere arrestato e mandato in carcere. Allora Emanuele, che se la godeva, lo rabboniva.

"Ma no, non c'è paura, è finita ogni cosa, sa; si figuri che è venuto a prendermi in carrozza il duca medesimo..."

"Il duca? Proprio lui? In carrozza?..." ripeteva don Vincenzo a bocca aperta. "Ma allora siamo tutti amici? Oh per bacco! perché non me l'hai detto prima?...

Bisogna bere, bisogna fare baldoria! Pellegra, figlia mia, va' a prendere due bottiglie... due di quello vecchio!... Quello che m'ha mandato padre Messana da Partinico... Sentirete che vino! Viva l'allegria!... Oh, oh!... Ma quella faccenda della Vicaria, quella faccenda! quella poi, no!... Niente carcere."

Nel frattempo giunsero don Girolamo e Andrea e allora fu una festa per tutta la casa. Il pittore si mise a ballare e a gridare:

"Il vino, Pellegra, va' a prendere il vino. Voglio ubriacarmi, per la barba di Michelangelo!..."

"Ma sicuro che bisogna festeggiare il nostro arrivo!" disse don Girolamo di buon umore.

Improvvisarono una cena con delle fritture calde comperate dal friggitore della piazza del Capo e stettero fino a notte inoltrata, ridendo delle sciocchezze del pittore. Pellegra ed Emanuele si erano seduti accanto. Il giovanotto era uscito dal Castello assai mutato: aveva preso un fare da uomo che sa il mondo, e di sotto la tavola stringeva la mano della fanciulla con delle strette che la facevano arrossire.

Per prendersi giuoco del pittore, don Girolamo propose di giocare a tressette, lui, Andrea e don Vincenzo, che accolse la proposta battendo le mani. Si raccolsero perciò da una parte della tavola, mentre la signora Francesca sparecchiava, e dall'altra parte della tavola Pellegra ed Emanuele rimasero come isolati in una mezza luce che confondeva i loro contorni. Nessuno poneva attenzione a loro, i giocatori badavano alle carte, la signora Francesca a rigovernare e rassettare. Essi dunque si potevano considerare soli. Emanuele guardava Pellegra dilatando le narici, come puledro avviato alla pastura tra le giumente; desideri nuovi pulsavano nel suo sangue e lo spingevano ad audacie che sgomentavano o facevano montare delle caldane sul volto della fanciulla.

"Sai," le diceva sottovoce, "io ti voglio bene, ma non come prima; ti voglio bene meglio e più... Se ci potessimo parlare da soli, ti darei tanti baci, tanti, tanti sulla bocca..."

Pellegra arrossiva ed impallidiva; l'idea di quei baci, che le pareva quasi di sentire sulle sue labbra, la turbava.

"Taci," balbettava confusa, "taci, non dire queste cose..."

Ma egli insisteva:

"Oh, si vede che non mi vuoi bene!"

"Io?... Non ti voglio bene io?... Sapessi quante lacrime ho versato per te, e quello che ho fatto!..."

"E allora perché non vuoi?"

"Che cosa?"

"Che io ti baci..."

"Perché... perché non sta bene..."

"E allora che cosa è cotesto amore? Quando si ama si desidera stare insieme con la persona amata, stringersela al petto, baciarla... Io ho tutti questi desideri e ne muoio!..."

"Oh, Emanuele!..."

"No, no; non chiamarmi... Tanto, sono persuaso che non mi ami..."

La signora Francesca s'avvicinò e i due giovani tacquero, ma appena la signora si allontanò, essi ripresero a parlare.

"Mio padre" disse Pellegra, "mi vuole condurre a Roma dai parenti; dice che sono grande ora e vuole che io non stia più sola..."

"E tu partirai?"

"Come no? Posso oppormi?"

"Vedi che non mi vuoi bene?"

"Mio Dio! che cosa vuoi dunque che io faccia per farti credere che ti voglio bene?"

Di nuovo la signora Francesca si accostò, ed essi tacquero. Emanuele se ne indispettì. Quando la sua mamma adottiva si allontanò, egli disse:

"Lo vedi? Non si può neppure dire una parola!..."

"Che colpa ne ho io?"

"Nessuna, lo so, ma intanto non possiamo parlare e io ho bisogno di parlarti... di dirti tante cose..."

"Mio Dio, che fare?"

"Ci vuole poco. Quando tuo padre dorme..."

"Oh, ma che dici?..."

"E allora non pensare più a me!"

Emanuele si alzò e si avvicinò ai giocatori, lasciando Pellegra pallida e quasi piangente. La fanciulla amava Emanuele con tutte le dedizioni e le sottomissioni di un primo amore; quel l'atto le diede uno strano colpo al cuore e abbattè le resistenze che l'istinto del pudore elevava contro le pretese del giovane. Ora lo guardava, sperando che egli le rivolgesse gli occhi, per pregarlo tacitamente di ritornare accanto a lei; ma egli si ostinava a guardare i giocatori, il che inacerbiva il dolore della fanciulla.

Finalmente egli la guardò distrattamente; ella lo pregò, lo supplicò con gli occhi umidi e con un cenno del capo. Con un'aria di degnazione, Emanuele si avvicinò un'altra volta, e sedette.

"Ebbene?" domandò.

"Farò come vuoi" rispose Pellegra.

"Allora stanotte..."

"Ma no, stanotte no. Come posso se la porta viene chiusa a chiave e la chiave la conserva mio padre?..."

Anche Emanuele vide sorgere contro di sè questo grande ostacolo. Don Girolamo o la signora Francesca solevano chiudere a chiave: non era dunque il caso di insistere.

"Piuttosto," disse Pellegra "domattina, presto, io salirò sul belvedere... Tu potrai venire nella vostra terrazzina."

"Lascia fare a me. Oh come ti voglio bene!"

L'indomani mattina essi si videro soli, sotto il cielo ancora nuvoloso, mentre ancora le case sonnecchiavano. Il belvedere della casa del Bongiovanni si levava sopra i tetti appena di due braccia e da una parte dominava una terrazza, più bassa del livello dei tetti di almeno tre braccia, e rimaneva perciò incassata fra i muri di tre case e quello del belvedere. Per salire sul belvedere bisognava avere una scala, ovvero avere l'arte di arrampicarsi, approfittando dei buchi e delle sporgenze del muro rozzo e senza intonaco. Pellegra non intendeva in verità che Emanuele si arrampicasse: essi potevano benissimo parlarsi ognuno dal suo posto, ma il giovane aveva altre idee per la testa.

Nel suo soggiorno nel Castello aveva imparato parecchie cose, fra le quali anche l'arte di arrampicarsi. Studiò il muro e sorrise; in un minuto Pellegra lo vide salire su e balzare nel belvedere, e prima che avesse avuto il tempo di riaversi dalla sorpresa, si sentì stringere e soffocare, quasi, fra le poderose braccia di Emanuele e sentì la bocca di lui sulla sua.

Provò uno smarrimento, una confusione, una paura indicibili.

"Oh no, Emanuele, no! lasciami! così no!"

Scoppiò in pianto e quel pianto sgomentò il giovane:

"Perché? Perché piangi? Che ti ho fatto? Buon Dio, è così dunque che mi vuoi bene?..."

Cercò di rabbonirla, carezzandola, dicendole qualche parola dolce, che contrastava con la violenza dei suoi modi e la persuase a sedere per terra, stringendosi a lei per parlare. Si dissero le cose più insignificanti e più futili, talvolta anche sciocche: parlarono di sposarsi e di non lasciarsi più.

A poco a poco Pellegra, affascinata da quel sogno a venire e dalle parole di Emanuele, e forse anche dal contatto, dal calore, dal sentirsi vellicare il volto dai capelli di lui, si sentì trascinata ad abbandonargli la bocca e si baciarono lungamente, intensamente, in quel primo sbocciare della sessualità, che a loro sembrava profonda passione.

La voce del pittore che chiamava Pellegra li destò da quel dolce smarrimento: essi si promisero di rivedersi l'indomani alla stessa ora. E si rividero. Emanuele rientrò in casa che pareva un ebbro; a mezzodì, a tavola, egli disse un'altra volta a don Girolamo:

"Io voglio bene a Pellegra, e non voglio altra moglie fuori che lei."

"Tu hai ancora la bocca che ti puzza di latte," gli rispose don Girolamo.

"Io? Ma io sono un uomo, alla fine; non sono più un ragazzo!"

"Oh, senti! ma sai che davvero hai preso delle arie? Ma sta' zitto! non sono discorsi da fare alla tua età. Del resto tu non sei libero di sposare chi ti pare. Ci sono tante cose da considerare... E mettiti in testa, una volta per sempre, che Pellegra non sarà mai, non potrà mai essere tua moglie..."

"Perché?" domandò Emanuele tra stupito e impermalito.

"Il perché lo saprai quando sarà tempo..."

"E perché non ora?"

Don Girolamo guardò fissamente, con stupore quel galletto che all'improvviso rizzava la cresta e rabbuffava le piume.

"Ma sai," gli disse "che dal Castello sei uscito un po' impertinente come non eri stato mai? Che cos'è cotesta novità? Mi secca!..."

"Ma..."

"Ma sta' zitto, adesso: non hai il diritto di parlare..."

Emanuele arrossì e i suoi occhi lampeggiarono di collera. Guardò don Girolamo e gli lanciò una frase che lo ferì nel profondo del cuore:

"Infine" disse, "voi non siete mio padre, siete mio zio; ma non ho mai saputo come e perché siete mio zio, nè chi vi ha dato autorità sopra di me."

Don Girolamo impallidì; la signora Francesca, col volto alterato da una dolorosa meraviglia, mandò un grido, e giunse le mani. Era proprio Emanuele che parlava a cotesto modo altezzoso e irriconoscente? Lui, il piccino che aveva raccolto e allevato col suo latte? Che aveva amato come un figlio? Egli se ne stava torvo e scontroso, sgomento forse della sua stessa audacia e pentito di essersi lasciato trasportare troppo oltre, ma risoluto a non cedere di un passo e a non disdirsi.

"È vero!" mormorò don Girolamo col cuore gonfio; "hai ragione; io non sono tuo padre e non ti ho mai spiegato come va questa parentela... Hai ragione. La parentela? Ma chi può dire fino a che punto siamo parenti noi? Forse non lo siamo punto... Autorità? non ne ho legalmente, perché la gran Corte civile non ti ha affidato alla mia tutela; ma una notte, una fredda notte d'inverno io ti raccolsi di mezzo alla strada, e tu eri nato da pochi giorni... raccolsi te e tua madre moribonda, e vi portai a casa mia; e quella donna lì, Francesca, mi era moglie da qualche anno e avevamo una creatura. Tua madre morì, non potè darti una goccia del suo latte e mia moglie divise il petto fra te e la mia creatura; e dopo sei mesi tu eri forte e vigoroso, e la mia creatura morì; forse morì perché tu eri più forte e più prepotente e prendevi tutto per te: e allora diventasti l'unico figlio... Autorità legale non ne ho, certo, e tu hai ragione, ma ho sopra di te qualche altro diritto, che forse non comprendi ancora... Va'! va'! Coteste tue parole ti rivelano... So io quello che dico. Comunque, bada a quello che ti dico: io ti impedirò di sposare la figlia di un pittore, come ti impedirei di sposare qualunque fanciulla del nostro ceto. Te lo impedirò... E basta ora, e sta' zitto. Finchè non avrai ventun anno, e starai qui, in questa casa comando io..."

Emanuele aveva ascoltato questo discorso dapprima ingrugnato, poi con uno sbalordimento che si era mutato in confusione, infine con un sordo dispetto contro di sè e contro tutti, che alle ultime parole si trasformò in un senso di ribellione. Ma non parlò. Quella rivelazione inattesa, inimmaginabile, gli aveva chiuso la bocca. Egli era dunque un fanciullo disperso, un trovatello, un orfano di non so chi" qualcosa come un anonimo! Ecco perché l'avevano messo nel collegio dei Turchini!... E allora quel cognome che gli avevano dato e quella storia della madre morta di parto? Perché avevano mentito? E perché tutte quelle reticenze che egli intravedeva nelle parole di don Girolamo? C'era dunque un mistero intorno alla sua nascita? E che mistero? E quello che diceva ora don Girolamo era la verità, o era un'altra menzogna? Una cosa era certa, che fra lui e il razionale Ammirata non v'era alcun legame di parentela. Ebbene, allora egli poteva fare il comodo suo.

Andò a letto la sera col cervello pieno di tutte queste idee, che davano alla sua vita un nuovo indirizzo. La signora Francesca doveva certamente sapere di chi era figlio; ella poteva, anzi doveva dirglielo: gli voleva tanto bene, che non gli avrebbe negato quella confidenza. Il dilemma era preciso: o sapere chi era e come era in casa dell'Ammirata, o andare via per sempre. La sua mamma adottiva doveva scegliere.

Tutto questo non impedì ad Emanuele di vedere al mattino, sul belvedere, Pellegra. Le tacque però quello che aveva saputo e gli ostacoli che si frapponevano e continuò a ubriacarla con i suoi baci e con le sue carezze.

Ma don Girolamo andò a trovare il pittore e gli disse chiaro e tondo che la loro amicizia sarebbe durata solo a patto che sorvegliasse bene la figlia. E disse queste cose così aspramente e quasi minaccioso, che don Vincenzo n'ebbe paura.

"Non dubitate, non dubitate!... Farò come volete voi. Sicuro, che lo farò. Noi siamo buoni amici, per bacco!... E dobbiamo restare buoni amici!... Vedrete quello che farò... Pellegra? Ah sì? Ma l'accomodo io!... La manderò a Roma, a Roma, a Roma."

La paura rendeva bestiale don Vincenzo; gridò, minacciò la figliuola e voleva anche picchiarla.

"L'avrai fatta grossa!... certo l'avrai fatta grossa!... E vuoi cacciarmi in questo impiccio? Me? Con don Girolamo?... Quello mi appioppa una fucilata nella schiena, capisci?... Nella schiena, e mi ammazza!... Vuoi farmi ammazzare tu! ma io ammazzo te, prima!..."

Don Girolamo gli aveva imposto di sorvegliare Pellegra, ed egli non le lasciò muovere un passo, senza correrle dietro; e la notte la chiudeva a chiave nella sua camera, per cui la mattina dopo non potè andare su nel belvedere. Ma neppure Emanuele ebbe l'agio di andarvi, perché don Girolamo l'obbligò a seguirlo all'ospedale civico.

Il giovanotto recalcitrò.

"Ma che cosa volete che io vi faccia all'ospedale?..."

"Niente; starai con me."

Don Girolamo fu irremovibile ed Emanuele dovette ubbidire. Quando tornò a casa, il giovane fu preso da un accesso di collera così violento, che si stracciò i panni, e la signora Francesca ne fu tanto spaventata, che gli si inginocchiò ai piedi e, abbracciandolo, lo scongiurò piangendo:

"Emanuele! Emanuele!... per carità!..."

Emanuele pareva convulso e non le dava retta; col volto in fiamme e gli occhi pieni di lacrime, si percoteva le tempie, digrignando i denti. Quando potè parlare, disse alla sua mamma adottiva:

"Perché? Perché?..."

Alludeva naturalmente a quelle proibizioni che gli parevano arbitri violenti.

"Ditemi voi, perché? Se non me lo dite mi butto dal balcone!..."

La signora Francesca cercò di racquetarlo, ma Emanuele non intendeva cedere; più volte fece l'atto di lanciarsi verso il balcone; finalmente la povera donna, che si sentiva lacerare le viscere, gli disse:

"Te lo dirò; sta' tranquillo e ubbidisci, e te lo dirò."

"Ebbene?"

La signora Francesca parve perplessa, ma Emanuele minacciò.

"Ebbene, tuo zio ha ragione... Tu non puoi sposare una fanciulla civile, perché... perché non è del tuo rango!..."

"E che sono io? Sono principe?."

"Quasi... Finora si è dovuto tener celato, ma non è lontano il giorno che sarai riconosciuto... e avrai i tuoi titoli, un gran palazzo, servitù, feudi... E allora sposerai una dama... Ecco tutto!"

Emanuele la guardò con stupore: lui figlio ed erede di un gran signore ricco di feudi? E allora come mai era stato raccolto sulla strada? Come mai sua madre era morta ricoverata in casa di quel modesto impiegato? Quale mistero pesava sulla sua nascita? Ma forse quella era una storia!...

"Non è vero," disse "coteste fandonie raccontatele ad altri non a me..."

"Non è vero?" gemette la signora Francesca; "magari!... Oh, perché credi che lo zio sia stato perseguitato e io gettata in carcere? Appunto perché don Girolamo ha cercato e cerca di restituirti al tuo grado e di farti restituire la ricchezza che ti appartiene, e che ti venne usurpata!...

Sii buono, dunque, e ubbidiente... Noi lo facciamo per il tuo bene. Quando non sarai più il povero Emanuele, pupillo di don Girolamo Ammirata, e sarai conte, marchese, duca, quel che sia sia, sposerai una dama del tuo rango!... Non puoi sposare un'altra donna, perché sarebbe uno scandalo e il Vicerè non te lo permetterebbe... Ti relegherebbe in un castello regio, a Trapani o a Termini, e lei la chiuderebbero in un monastero. Si sa. Ciascuno nel suo ceto... Questa è la verità sacrosanta dinanzi a Dio che ci vede e ci ascolta!"

Emanuele rimase sbalordito a quella rivelazione, della cui verità ora non dubitava più; oppose un'ultima resistenza, più per non cedere subito e per curiosità, che per altro:

"Vi crederò quando mi direte il nome che porto..."

"Ah no! ho detto troppo... e se don Girolamo lo sapesse... Dio che dolori per me! Vuoi espormi a questi dolori? Per ora non puoi e non devi saperlo... per ora devi essere nient'altro che il nipote di Ammirata... Guai per te se si sapesse!... Tu non sai... e io non posso dirti di più; ti dico solo che sei scampato alla morte per miracolo... Non insistere per ora... Poi, forse fra breve, saprai tutto..."

Emanuele rimase cogitabondo. Il suo pensiero prese una direzione diversa, e delle aspirazioni nuove di grandezza e di potenza pullularono dal fondo della sua coscienza. Nobile, ricco, egli avrebbe potuto fare quello che gli piaceva e pareva; nessuno avrebbe potuto opporgli un divieto.

Pellegra? Gli piaceva, l'amava, l'avrebbe amata sempre. Quanto a sposarla... l'avrebbe sposata anche segretamente. Che gliene importava? Il Vicerè, il castello, il monastero... Storie! Egli sarebbe stato nobile e ricco!... Si sentiva prendere da una smania d'impero. In realtà, dato che egli era un signore, era il solo ad avere pieno diritto di comandare e imporre una volontà. Riconoscenza? Oh, sì. Egli avrebbe alloggiato nel suo palazzo i suoi benefattori, avrebbe dato loro una somma, e così avrebbe saldato il suo debito. Questi e altri simili pensieri cominciarono a formicolare nel suo cervello. Promise alla signora Francesca di stare tranquillo e di non parlare più di matrimonio; ma fece questa promessa con un certo fare da piccolo padrone, che sa non di ubbidire, ma di concedere.

"Ma intanto, - pensava - perché non potrò continuare a vedere Pellegra?".

Il sangue della razza si rivelava e la concupiscenza balenava sul volto di quel giovanotto ancora imberbe, che era uscito dalla Vicaria esperto nei misteri della vita e corrotto.