Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte terza, capitolo 23

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Blasco restò per terra, coi gomiti sulle ginocchia, il capo nascosto fra le palme, muto, con gli occhi arsi da lacrime di rabbia e di dolore, in preda a un profondo abbattimento. I suoi sforzi non avevano salvato l'uomo che d'altronde spregiava, e lo avevano staccato dalla setta e da Coriolano; fra lui e il cavaliere s'era scavato un abisso, pur riconoscendo che Coriolano aveva avuto per lui una grande tolleranza e che lo aveva risparmiato. Egli era isolato e perduto nel mondo: la notte circondava la sua persona e l'anima sua.

Cominciò a piovigginare; delle gocce fredde gli caddero sul collo, gli discesero per la scollatura, che il suo atteggiamento lasciava scoperta. Quel senso di freddo lo riscosse; levò il capo e si guardò intorno. La prima alba rompeva l'ombra, diffondeva un barlume pieno di tristezza, rendeva visibili le lacrime che scendevano dagli alberi. Blasco si trovava in un orto, basso, incassato fra un poggio e le mura della città. Riconobbe dopo un istante di concentrazione uno di quegli orti che si stendono fuori Porta di Ossuna, sull'antico letto della palude del Papireto. Si levò in piedi, e si accorse di non avere cappello, nè armi e che le sue vesti erano in disordine; avviarsi e rientrare in città in quell'abbigliamento era lo stesso che farsi notare e, forse, consegnare nelle mani della giustizia. Sapeva di essere ancora sotto bando e non poteva contare più sull'aiuto di nessuno; cadere nelle mani delle guardie non era nelle sue intenzioni. Bisognava dunque affrettarsi, trovarsi un ricovero e un mezzo per ritirare le cose sue dal palazzo della Floresta, e provvedere al suo avvenire.

Lentamente prese la via per uscire dall'orto, ricercando con lo sguardo da che parte ve l'avessero portato e riordinando intanto le sue idee. La prima che gli affiorò alla mente fu quella, già accarezzata altre volte, di trovare un vascello e partire, andarsene in Francia o in Spagna, gettarsi nelle avventure delle guerre, riprendere la sua vita vagabonda, senza domani, fino a che una stoccata o una palla lo togliessero dal mondo, ma, appena quest'idea gli si delineò, una domanda balzò imperiosa: "E Violante?".

E dietro il nome della fanciulla gli apparve l'immagine di don Raimondo: un groviglio di panni, ammucchiati per terra, nell'immobilità lugubre e raccapricciante della morte. Provava uno sdegno, una mortificazione, una collera contro di sè, accusandosi di non aver saputo difendere abbastanza quel miserabile che la propria viltà e la inumanità inflessibile dei suoi giudici gli facevano apparire degno di commiserazione. Ora gli parve anche empio abbandonare lì quel cadavere sanguinante, sottratto alle lacrime e alla pietà filiale. La morte cancellava i delitti e lo rendeva sacro. Oh! potesse, se non altro, consegnare a Violante quella spoglia, poichè non aveva potuto serbarle vivo il padre!

Quest'idea lo travagliò, lo tormentò.

Il palazzo Albamonte non era lontano e vi giunse che era ancora buio, nondimeno trovò il portone aperto e la servitù in grande costernazione. I due portantini dopo aver aspettato più d'un'ora all'angolo della strada, non vedendo più ritornare il padrone, cominciarono a provare un po' d'apprensione che andava aumentando con l'inoltrarsi della notte. Si spinsero, guardarono le porte delle case, tendendo l'orecchio, ma le case erano immerse nel silenzio profondo del sonno, e nessuna porta dava indizio che vi fossero persone in veglia. Girarono per la salita di S. Cristina, per il vicoletto dei Pellegrini, per la discesa della Cattedrale; dappertutto la stessa solitudine, lo stesso silenzio.

"Che vuol dire ciò?"

Non trovavano spiegazioni; se don Raimondo avesse avuto abitudini galanti, ci avrebbero riso, ma egli, per questo lato non aveva mai dato l'ombra di un sospetto, e faceva una vita austeramente casta; doveva dunque trattarsi di qualche disgrazia.

"Che sia ritornato a casa?"

Indugiarono ancora un pezzo, da buoni servitori fedeli alla consegna. Un colpo di pistola, che la notte rese ancora più forte, li fece trasalire; ebbero paura di qualche sinistro e si misero a cercare, chiamando:

"Eccellenza! Eccellenza!..."

Si spinsero così verso la piazza di S. Cosmo, dove videro delle lanterne e della gente armata; trepidando si avvicinarono, ma non appena furono veduti, vennero arrestati e legati.

"Chi siete? Che cercate?"

La livrea li salvò: l'ufficiale riconobbe al lume della lanterna lo scudo dalle bande verdi. Essi riferirono di aver lasciato all'angolo della strada sotto S. Cristina il loro padrone e di non averlo più visto; l'avevano aspettato due ore, lo avevano cercato, temevano qualche sinistro, ma non sapevano spiegarsi la sua scomparsa. Desideravano andare al palazzo: chi sa, che non fosse ritornato per altra via? L'ufficiale li trattenne un poco, poi si risolse a lasciarli andare, accompagnati da un birro. Essi si avviarono al palazzo con l'anima tremante.

Alla torre di Montalbano nessuno aveva veduto il duca; l'arrivo dei due servi, il loro smarrimento, i colpi di pistola o di focile che avevano rotto il silenzio notturno, misero in orgasmo la servitù; si sparsero per i vicoli più reconditi, nel dubbio che dei malandrini l'avessero assassinato per derubarlo. E per tutto il resto della notte s'aggirarono per il quartiere, arrestandosi dinanzi al teatro dove si era svolto il sotterraneo duello fra le guardie e i Beati Paoli, senza pensare che appunto laggiù, nelle tenebre e nel mistero, si decideva la sorte dell'uomo che essi cercavano, e mentre andavano cercando di qua e di là, don Raimondo agonizzava sotto i loro piedi.

Dalla strada di S. Cosmo, dal vicolo degli Orfani, le guardie uscivano, nere di fumo, sporche, colleriche per l'inutilità delle ricerche, inveendo contro i servi, contro i curiosi che si affacciavano da ogni parte, che accorrevano. Esse avevano frugato la rotonda, i due corridoi e le nicchie, non persuadendosi donde quegli uomini in nero si fossero dileguati. Li avevano veduti al fioco riflesso delle fiamme, attraverso il fumo, vagare come fantasmi e dileguarsi in fondo, a uno a uno, avvolti nel fumo: spettacolo pauroso, che in quegli animi rozzi e superstiziosi aveva evocato visioni infernali.

Non avevano trovato nulla; il sotterraneo era breve e non ci voleva gran tempo a rovistarlo. Misero sossopra la casa Baldi, fecero aprire le povere case a pianterreno adiacenti. Invano. Erano demoni? Erano spiriti? Erano incantati? Si raccontavano tante e così straordinarie storie di spiriti che si dileguavano al tocco di un dito, o che non si giungeva mai ad afferrare. Questa credenza cominciò a entrare nell'animo di ognuno, e quel sotterraneo, che forse era una bocca dell'inferno, parve così pieno di misteri e di paure che, per uscirne, giudicarono inutile ogni ricerca.

Così abbandonarono l'impresa, lasciando guardie alle due porte d'ingresso, quella del vicolo e quella di casa Baldi, e riconcentrandosi nella piazza di S. Cosmo, per aspettarvi gli ordini del capitano di città.

I servi ritornarono al palazzo Albamonte, sconfortati, atterriti, non sapendo che pensare; il giorno che si affacciava malinconico e piovoso li trovò oppressi da quel doloroso silenzio pieno di sbigottimento, che si ha quasi paura di rompere con voci troppo alte. Essi si guardavano e bisbigliavano, in quel gran palazzo, dal quale mancavano tutti i padroni, come se un grande castigo fosse piombato sopra la famiglia, per disperderla e annientarla.

Così li trovò Blasco, presentandosi. in disordine com'era, pallido e smarrito. La sua apparizione in quello stato suscitò apprensioni e timori; gli si affollarono dintorno; egli ignorava quale scena si fosse svolta fra don Raimondo e donna Gabriella; disse:

"Svegliate la duchessa; ditele che ho bisogno di vederla subito!..."

"Il padrone?... Il duca?... Sua Eccellenza?..." gli domandarono ansiosi.

"Andate ad avvertire la duchessa!" insistette Blasco.

"Ma la signora duchessa è partita da stanotte!..."

"Partita!" esclamò Blasco; "partita? Per dove?"

"In casa di parenti, del principe di Carini..."

"E... donna Violante?"

"Nel monastero... Ma il padrone?"

Blasco si strinse il capo fra le mani. Disse:

"Datemi un cappello e una spada! E due uomini di buona volontà vengano con me!..."

Si offersero in parecchi. Blasco ne scelse due e si avviò per il vicolo degli Orfani, ma trovò la porta custodita. Girò per la strada di S. Cosmo, ed anche la porta della casa Baldi era custodita. Entrare non si poteva; che fare? Ritornò indietro quasi sconfitto, col capo basso: i servi lo seguivano in silenzio, senza sapere che cosa significasse quell'andirivieni. Per via, Blasco si ricordò di alcune parole udite giù nel sotterraneo. Don Raimondo era stato assassinato sotto la sua stessa casa... Ecco una via. Da che parte e come però discendere? E quale parte della casa corrispondeva sul sotterraneo?

Ricordò ancora che il suolo sul quale si era svolta la rapida e lugubre scena era lubrico per fango, e che dalla volta gocciolava dell'acqua infiltratasi attraverso i meandri del tufo. Dunque sopra dovevano corrispondere vasche, o fonti, e, in ogni modo, strutture soggette alle infiltrazioni dell'acqua. Entrò nella corte, in fondo alla quale, appoggiata alla parete, era una vasca, su cui l'acqua scorreva perenne da una cannella di bronzo. La vasca era piena e dai lembi l'acqua colava per terra. Il muro e il terreno erano coperti di uno strato verde, limaccioso, nel quale cresceva qualche tenue fronda di capelvenere.

"Forse là" pensò Blasco; e rivoltosi ai servi: "Chiudete il portone, e non entri nessuno; procurate delle pale e dei picconi."

Un minuto dopo, egli e i servi scavavano furiosamente intorno alla vasca, strappavano i ciottoli e le lastre, cavavano terra e terra. Da un'ora lavoravano: il giorno era sorto e illuminava quei volti febbrili. I picconi urtavano nel tufo; un colpo risonò cupamente, ripercotendosi con un senso indefinito nell'animo di tutti. Blasco si sentì rimescolare il sangue tra i capelli. Lì sotto era vuoto.

Blasco cominciò a tastare il terreno, come per ricercare dove risonasse di più; tra l'angolo della corte e la vasca, i colpi diedero un rumore più sonoro, allora si mise furiosamente a intaccare il tufo, per aprirvi un vano; uno dei colpi affondò, v'era del terriccio; a un secondo colpo delle pietre si staccarono, e sprofondarono.

Blasco mandò un grido di gioia e si ripose al lavoro febbrilmente, aiutato dai servi. Una larga buca si aprì a un tratto, al loro sguardo, per lo sprofondarsi di sassi e di terriccio che caddero giù col rumore cupo di una cesta di rottami che si rovesci. Era forse un antico lucernale che dava lume al sotterraneo, in tempi antichissimi, murato e mascherato da detriti e da terra, accumulatavi, e sepolto sotto i ciottoli. "Una corda e una lanterna! gridò Blasco.

I servi erano stupefatti di quello che vedevano; accorrevano e ubbidivano a ogni cenno. Corsero nelle scuderie e tornarono con quanto era stato chiesto. Blasco si chinò per terra e immerse la lanterna accesa dentro la buca per osservarla. Effettivamente si spalancava sotto una vasta cavità, della quale le tenebre non lasciavano vedere il fondo e le pareti. Era un pozzo? Una cisterna? Era il sotterraneo? Egli non ne dubitò; prese un lungo palo, poggiandolo di traverso sull'apertura, vi legò in mezzo un capo della corda e ne lasciò cadere l'altro capo; mollò, il fondo non era così in basso da destare apprensioni. Disse:

"State attenti a quel che vi ordinerò."

E, presa la lanterna, scese nella buca, tenendosi per la corda. Toccò terra, e misurò l'altezza: non era più di due canne. Allora illuminò intorno, e una gran gioia gli allargò il cuore: riconobbe il sotterraneo, e appunto la rotonda dove s'era svolta la fosca e feroce scena: don Raimondo doveva essere lì, o poco lontano. Rivolse la lanterna per terra e lo vide, ancora raggomitolato sopra di sè, immobile, come l'aveva lasciato. Gli si chinò, gli sollevò le braccia, gli voltò il capo, cercò di metterlo supino: il corpo non aveva ancora la rigidezza dei cadaveri, e cedeva; e sebbene fossero già trascorse cinque ore e si trovasse in quel sotterraneo, non aveva il freddo diaccio caratteristico della morte.

Gli appoggiò l'orecchio sul cuore ed esclamò, rialzandosi.

"Dio! è ancora vivo!..."

Allora cercò di sollevarlo e di portarlo sotto la buca e abbracciatolo per le ascelle, cercò di rimetterlo diritto, così da poterselo caricare; a quella mossa il capo di don Raimondo reclinò da un lato e scoperse due profonde ferite tra il collo e la nuca, e un'altra lunga, strisciante sul cranio.

Blasco fece uno sforzo e, caricatoselo sulle braccia, si avvicinò sotto il lucernale, gridando:

"Un'altra corda e un lenzuolo."

Glieli buttarono. Egli adagiò il corpo di don Raimondo dentro il lenzuolo, e legò fra loro, fortemente, le quattro cocche, così da formare un sacco; vi passò di traverso la corda che gli avevano gettata, e postosi l'altro capo alla cintola, si arrampicò su per la fune che pendeva dal palo, balzò nella corte, tolse il palo, e impugnato il capo della corda che aveva fermata alla cintola, disse ai servi:

"Su, piano, bisogna tirare...

È là!..."

Rabbrividirono; là? Il loro padrone era là? Chi ve lo aveva condotto? Come l'aveva trovato? Vivo? Morto? Cominciarono cautamente, in quattro, a tirare, senza scosse, fino a che il lugubre involto, che già s'era macchiato di fango e di sangue giunse all'orlo della buca, troppo stretta per lasciar passare il voluminoso fardello. Allora Blasco ordinò:

"Tenete fermo."

Egli e un altro servo inginocchiati da un lato e l'altro del lucernale, si chinarono sull'involto; cacciarono le mani nell'apertura donde travedevano i capelli di don Raimondo, e lo presero per le ascelle, traendolo delicatamente fuori. Un momento dopo quel corpo era disteso sopra un letto, spogliato e lavato.

"E ancora vivo," disse Blasco; "mandate per un cerusico."

Infatti, forse per l'impressione del fresco e pei movimenti subiti, parve che il suo petto si agitasse lievemente.

"Ora che ve l'ho dato, non ho più nulla da fare qui; andate ad avvertire la signora duchessa e donna Violante; addio."

Raccolse il cappello, prese nell'anticamera un mantello, vi si avvolse tirandosi il bavero sopra gli occhi e uscì, ma invece di dirigersi verso l'in terno della città, prese la direzione delle mura, uscì dalla Porta d'Ossuna e riguadagnò la campagna. Dove andare? Dove riposarsi dopo tante commozioni e tante fatiche? Ora si sentiva affranto e desideroso di solitudine: aveva un grande dolore, che gli stringeva l'anima in una morsa di ghiaccio e voleva almeno potergli dare libero corso.

Traendo don Raimondo dal fondo del sotterraneo e restituendolo alla figliuola, perché avesse almeno dalla sua pietà l'estremo tributo, gli pareva di avere compiuto tutto quello che poteva.

Era stato disgraziato, era stato sconfitto; le sue speranze, il suo sogno si erano dileguati dinanzi alla forza dei più. Ora non aveva più nulla da fare.

Nulla?

La visione di Violante respinta come una estranea dalla casa dove era nata, coperta di infamia dalla rivelazione delle colpe paterne, che gli pareva inevitabile, gli passò dinanzi alla fantasia. In fondo, la fanciulla non era forse un'Albamonte? E non aveva egli il diritto e il dovere di difenderla, di proteggerla ora che rimaneva orfana?

Pensò che forse sarebbe stata una consolazione per la fanciulla farle arrivare una parola, un segno, e questo pensiero lo intenerì. Anche lei in quell'ora piangeva e si sentiva sola e sperduta nel mondo; anche lei, che in quel momento piangeva sul cadavere paterno, forse rivolgeva il pensiero a lui e cercava un consolatore.

Così pensando, attraverso orti e sentieri, egli era giunto al convento dei Cappuccini e gli parve che la mano di Dio l'avesse guidato. Entrò nel piccolo portico, le cui pareti erano coperte di numerose tavolette votive, di braccia e gambe di cera, imbrattate di rosso, e sedette sul muricciuolo posto fra i pilastri, aspettando forse qualche frate. A poco a poco il sonno lo vinse; allungò le gambe sul muricciuolo e si addormentò; un frate, nell'atto di chiudere la porta della chiesa, vistolo, gli si accostò e lo scosse dolcemente, poi un po' più forte:

"Signore!... Signore!..."

Blasco aprì gli occhi.

"Se vi occorre qualche cosa," disse il frate, "potete entrare in portineria."

"Eh! veramente ora non mi occorrerebbe che un letto, buon padre..."

"Nella forestiera non ne mancano. Se vossignoria" (guardatolo bene si era accorto di aver da fare con un gentiluomo) "se vossignoria ha bisogno di... non so se mi spiego... Qualche volta si sa... Qui è luogo sacro e c'è diritto d'asilo."

"Sì, sta bene, ma non occorre. Soltanto, sono un po' stanco ecco, ecco tutto."

"Vossignoria favorisca nella foresteria. Viene da lontano vossignoria?".

"Sì..."

"A piedi?..."

"Per voto alla Madonna" disse un po' rudemente Blasco, che si seccava per la curiosità del frate.

"Ah! per voto?... Alla Beata Madre Assunta!... Mi figuro che avrà portato la torcia; non è vero?"

"La compreremo..."

Erano giunti dinanzi a una stanza; il frate l'aprì.

"Vossignoria, favorisca; andrò ad avvertire il padre guardiano..."

Blasco entrò e si buttò su un seggiolone. Egli avrebbe potuto rimanere nel convento, indisturbato almeno fino a quando la giustizia, appurandolo, non avesse intimato al guardiano di sfrattarlo; del resto non contava di rimanervi a lungo, appena qualche giorno per riposarsi, rimettersi in ordine, ritirare la sua roba, e trovare un vascello per partire.

"Il frate questuante, - pensava, - mi farà questo piacere".

Il piacere era di andare prima al palazzo della Motta e poi al palazzo della Floresta; un altro luogo gli affiorava nel pensiero, ma non osava fermarvisi.

"Che bisogno ha veramente di me? I Branciforti sono suoi parenti, infine, per parte della madre, e sono una famiglia vasta e potente di feudi e di amicizie; essi non lasceranno Violante in balia del caso, e ne prenderanno cura... La difenderanno... certo, la difenderanno!...".

Il padre guardiano stava rivedendo i conti, e non credette necessario scomodarsi per ricevere il forestiero: ordinò che gli dessero da mangiare e da dormire, come si soleva, e si informassero se era un signore; forse in questo caso gli si sarebbe usata qualche altra cortesia. Così Blasco ebbe la fortuna di essere lasciato tranquillo, in quei momenti in cui l'animo suo era agitato da pensieri e da affetti diversi e contrastanti; potè riposare alcune ore, profondamente.

Lo svegliò il frate.

"Se vossignoria ha qualche comando da darmi, io vado in città..."

Ma certo che aveva incarichi da dargli! Ci aveva pensato tanto: c'erano le sue robe da ritirare e da chiedere notizie di Violante. Scrisse in fretta una lettera breve e secca, nella quale pregava Coriolano di fargli recapitare i suoi panni e quanto gli apparteneva alla grotta di Denisinni, a una certa ora. Non una parola di più, non un saluto, neppure l'indicazione del suo ricovero.

"Dal momento che siete così gentile, mi farete un favore segnalato, recando questa lettera al signor cavaliere della Floresta..."

"Ah, il cavaliere? Lo conosco: è un buon benefattore del convento."

"Tanto meglio, ma... desidero che voi lasciate questa lettera senza dire neppure che la mando io... Non deve sapere nemmeno lui che io sono qui... Posso sperare?"

"Vossignoria non dubiti."

"E c'è un'altra piccola commissione... Andate al palazzo della Motta."

"So. Al Capo."

"Benissimo. Sarete cortese di domandare notizie del signor duca, e se la duchessina donna Violante si trova già nel palazzo."

"Vossignoria sarà ubbidita. C'è altro?"

"Nulla, grazie."

Il frate partì, e Blasco lo seguì col pensiero lungo la strada, calcolando il tempo che avrebbe impiegato per recarsi in città, eseguire le commissioni, sbrigare le altre sue faccende e ritornare. Dalla cella non volle uscire per tutto il pomeriggio, aspettando e vagando di pensiero in pensiero, e non trovando più nella sua vita una meta, un sogno, una speranza che ne illuminasse l'avvenire. Era dunque finita ogni cosa?

"Bah! - disse alzando le spalle con una noncuranza che celava l'intima amarezza - ah! che cosa m'ero messo in testa alla fine? Ma guardate un po', che ero più savio, quando mi si credeva matto, pazzie! pazzie!... Torna in te stesso, Blasco. Non vivevi forse bene prima di conoscere il cavaliere della Floresta e la duchessa della Motta e donna Violante e tutto questo mondo pieno di misteri, di artifici, di viltà, di colpe, di scelleratezze, d'ipocrisia? Perché ti venne in mente di venire in questa città, che sembra il nido di tutte le malizie? Sei forse qualche cosa di più ora che sai d'essere il figlio illegittimo sì, ma primogenito del duca della Motta? Primogenito? E chi sa che a un tratto non ne sorga un altro, posto che il mio signor padre seminava figliuoli. per terra e per mare? Lasciamo andare. La vita è una cosa assai triste e non bisogna aumentare le ragioni della sua tristezza. Pigliala come una buffonata, Blasco mio, e ti ci troverai meglio!...".

Ma tutta questa sua filosofia cadde, quando verso l'Avemaria il frate tornò. Aveva lasciato la lettera al palazzo della Floresta; - ma ciò importava a Blasco fino a un certo punto; - era andato al palazzo della Torre... Ah che disgrazia! il signor duca era tra la vita e la morte: l'avevano assassinato di notte, tre pugnalate!... terribili... Una cosa straordinaria! C'era il palazzo pieno di gente; tutta la corte, tutta la nobiltà, il capitano di giusti zia; anche il Vicerè, anche il Vicerè! ...

Per tutta Palermo non si diceva altro. Ciò che più sbalordiva era il sito dove l'avevano miracolosamente trovato! Volevano vedere tutti quel buco, pozzo o grotta che fosse: e si dovette chiudere il portone, perché la corte era piena di folla. C'erano la duchessa e la duchessina, sissignore, e anche i parenti. Una cosa straordinaria, in credibile... Chi l'aveva portato lì sotto? E come lo seppero?

Blasco lasciava dire; quello che gli interessava sapere era che Violante si trovava nel palazzo: il perché di questo suo interesse non gli si delineava nettamente nel cervello. Forse i perché erano parecchi; forse dei propositi non ancora ben definiti, delle speranze vaghe, delle intuizioni indeterminate, vagavano, fluttuavano nell'anima sua.

Quando il frate ebbe terminato la sua filastrocca, Blasco gli disse:

"Ora fatemi un favore..."

"Dica pure."

"Vorrei un uomo sicuro..."

"Ce l'ho... Il carrettiere, qui..."

"C'è da fidarsene?"

"Come di vostra signoria medesima..."

"Chiamatelo, ve ne prego."

Il frate eseguì l'incarico; Blasco diede delle istruzioni al carrettiere, che aveva quel tal aspetto caratteristico dell'uomo che sa farsi valere e sa imporsi: e due ore dopo egli riceveva la sua valigia, le sue armi e i suoi vestiti.

Allora si tolse le vesti infangate e sciupate dalle vicende di quella notte, si abbigliò in una maniera più conveniente, cinse la spada, s'avvolse nel mantello e uscì.