Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte terza, capitolo 25

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Al monastero di S. Caterina era corso un volante per portare la gran notizia alle due sorelle di don Raimondo, e a pregar di mandare la fanciulla, Violante, a vedere il padre seppure sarebbe giunta a vederlo vivo. Ella aveva passato una notte triste, agitata da fantasmi e, dopo le preghiere del mattino, s'era buttata sul letto, più per nascondere il suo dolore che per dormire, quando una conversa venne a chiamarla per incarico delle zie e della badessa.

"Che cosa ci sarà di nuovo?" si domandò.

Ma quando scese nel parlatorio piccolo trovò le zie e la badessa che ragionavano sommessamente e parevano colpite da una notizia improvvisa quanto dolorosa. Appena entrò le due zie l'abbracciarono e la badessa le carezzò i capelli.

"Figliuola mia," disse questa "ti vogliono a casa tua: tuo padre sta poco bene..."

"Che cosa gli è accaduto?" domandò Violante spaventata.

"Un male da nulla. Improvvisamente. Ti farò accompagnare dal padre Mongitore, che è giù nel confessionale... C'è anche un volante della tua casa."

Ella non avrebbe immaginato mai di dover trovare suo padre nelle condizioni in cui lo vide e, credendolo morto, gli si buttò ai piedi singhiozzando. Soltanto la presenza di donna Gabriella che, entrata in quel momento, le rimproverò quelle manifestazioni di dolore, troppo violente, potè costringerla a soffocare il pianto e a moderarsi. Fu anche la matrigna che venuta la notte le ordinò di andare a dormire; ed ella ubbidì, o perché in quel momento di dolore e di debolezza forse subiva l'impero di tutto, o perché, dopo quello che era avvenuto la sera innanzi, l'aspetto e la voce di quella donna le gelavano il sangue.

Ora, levatasi, e pensando che poteva riprendere il suo posto accanto al letto paterno, ella veniva in punta di piedi, per non fare rumore. Per recarsi dalla sua camera nella stanza in cui - per quella circostanza - era stato posto il letto di don Raimondo, doveva attraversare necessariamente la saletta, dove Blasco e donna Gabriella avevano trascorso la notte.

Sopra il tavolino ardeva ancora uno dei becchi di una lucerna di ottone; l'altro s'era spento: la luce indebolita dal mancare dell'alimento illuminava appena un breve cerchio d'intorno, entro il quale le cose confondevano i loro contorni o s'indovinavano per qualche tocco più luminoso. Violante vide presso il tavolino una massa umana che le volgeva le spalle e si fermò titubante, ma l'immobilità di quella e il respiro lento e profondo l'avvertirono che il sonno pesava sopra quella massa non ancora bene distinta al suo occhio. Attraversò la sala lieve come una creatura impalpabile, voltandosi a guardare, e riconobbe il volto di Blasco. Il giovane s'era addormentato col capo rovesciato indietro sulla spalliera bassa di una seggiola a bracciuoli; la bocca appena socchiusa, nel volto diffusa una mestizia profonda. Violante si fermò un istante giungendo le mani, ma i suoi occhi discesero lungo il corpo del giovane, sepolto nella penombra, dove qualcosa di troppo voluminoso aveva attirato il suo sguardo...

Soffocò un grido di dolore e di meraviglia, e, sentendosi venir meno, si appoggiò pesantemente al tavolino.

Accanto a Blasco, ma molto più bassa, col capo appoggiato sulle braccia conserte su uno dei bracciuoli della seggiola, quasi toccando coi capelli il petto di Blasco, in un atteggiamento pieno di dolce intimità aveva veduto donna Gabriella. Dormiva. Forse il sonno l'aveva colta in quella posa di devozione e di abbandono.

Violante si sentì trapassare il cuore da una lama fredda; un senso di orrore, una pena indefinibile, un impeto di pianto le empirono il petto e tuttavia non poteva levare gli occhi da quel gruppo. Fece uno sforzo per entrare nella camera e forse non ebbe la forza di attenuare il rumore dei passi o di evitare gli urti. Donna Gabriella si destò, vide, senza riconoscerla, l'ombra della fanciulla, balzò in piedi confusa e le si avvicinò. Allora alla confusione si aggiunsero il dispetto, la collera, le gelosia:

"Tu!" gridò "tu! vieni a spiare? ..."

Il grido svegliò Blasco, che, temendo qualche sinistro, anch'egli scattò in piedi, impugnando la spada che aveva sul tavolino a portata di mano, ma si trovò dinanzi le due donne, e rimase come una statua, non spiegandosi che cosa fosse avvenuto, e quale nuova ragione le mettesse, in quell'ora, l'una contro l'altra.

Egli era stato così vinto dal sonno, che non aveva sentito punto che donna Gabriella nella notte si era avvicinata a lui e gli si era addormentata quasi sul petto; si stupiva ora di vederla minacciosa e torbida contro la fanciulla.

La duchessa ripetè stringendo i denti: "Vieni a spiare?..."

Violante ricacciò indietro le lacrime, rialzò il capo e, con una dignità superiore agli anni, rispose:

"No, signora; vado ad assistere mio padre."

Ed entrata nella camera andò a riprendere il suo posto ai piedi del letto, senza voltarsi, senza piegare il capo, senza tradire la menoma commozione. Ma donna Gabriella, cui il tormento della gelosia toglieva la prudenza, la seguì e le disse:

"Non occorre la tua presenza, quando ci sono io..."

"Voi, signora?" disse Violante, guardandola negli occhi.

"Ritorna in camera tua..."

"Spero che mi riconoscerà il diritto di rimanere qui!..."

I servi e il razionale, svegliati a quelle parole, s'erano alzati, confusi d'essersi lasciati vincere dal sonno e d'essere stati scoperti, e balbettavano parole di scusa; ma Violante li congedò:

"Andate a riposare; siete troppo stanchi; qui rimango io: andate!"

I servi e il razionale guardarono la duchessa irresoluti, come per domandare se dovevano ubbidire, ma Violante aggiunse imperiosamente:

"Ebbene? Mi sembra di avervi dispensato dal vegliare. Andate dunque..."

Benchè lo stupore di questo atteggiamento inaspettato avesse sulle prime sorpreso donna Gabriella, tuttavia riconobbe che la sua autorità ne veniva diminuita e offesa dinanzi alla servitù. Disse alteramente:

"Dimentichi che ci sono io?..."

"No, signora," rispose Violante "non dimentico nulla; ma le tolgo il disturbo di occuparsi di mio padre, e credo che se egli potesse esprimere il suo desiderio, non vorrebbe altri al suo capezzale che me..."

E rivoltasi nuovamente ai servi e al razionale che stavano da canto, impalati e un po' imbarazzati, aggiunse:

"Andate; anche la signora duchessa trova più conveniente che andiate a riposarvi."

Quelli s'inchinarono e uscirono; il razionale credette di offrirsi ancora: "Se mai, Eccellenza... io sono nella segreteria... mi faccia chiamare liberamente."

Quando furono usciti, Violante accostò un seggiolone ai piedi del letto paterno e vi sedette senza dire una parola. Donna Gabriella si sentiva divorare dal dispetto, dall'odio, dal bisogno di mettersi quella fanciulla sotto i piedi. Ricordando come aveva calunniato Violante innanzi a don Raimondo, provava una mortificazione iraconda per essere stata scoperta in un atteggiamento che dava alla figliastra pieno diritto di schiaffeggiarla con le più tristi parole di rivincita. Voleva a ogni costo sopraffarla, ritorcere contro di lei la sua stessa sconfitta, martoriare quel cuore doppiamente infranto.

"Non pretenderai certo," disse "che io ti lasci sola..."

"Di che ha paura vostra signoria?" rispose la fanciulla voltandosi a mezzo sull'alta sedia. "D'altronde non ci sarà lei nell'altra stanza... col signor Blasco? Lì staranno con più agio, che dinanzi a questo letto..."

Donna Gabriella si morse le labbra, e Blasco, che non capì le ragioni dell'ironia dolorosa di queste ultime parole, mormorò dolcemente, ma con un tono di rammarico assai simile a un tenue rimprovero:

"Violante!"

"Nulla, signora... Ma penso. con soddisfazione che.... ora, non potrà più accusarmi d'essere l'amante del signor..."

"Disgraziata!" gridò donna Gabriella interrompendola col gesto e con la voce e facendo l'atto di afferrare la fanciulla.

Ma Blasco non gliene diede il tempo; la trattenne, rimproverandola:

"Ma che fate.."

Violante, che s'era alzata; col gesto indicò il ferito; e tutti e tre lo videro in quell'istante aprire gli occhi e guardarli con una espressione di dolore, che non trovava nella voce la via di manifestarsi. Quello sguardo arrestò e agghiacciò donna Gabriella, penetrò nel sangue di Blasco, chiuse quelle bocche in un silenzio pieno di pensieri, di sgomento, di pietà, secondo l'animo di ciascuno. Violante si avvicinò al letto e domandò dolcemente:

"Desidera qualche cosa, signor padre?"

Don Raimondo girò gli occhi verso di lei e la guardò lungamente; le sue labbra si agitarono impercettibilmente, ma non ne uscì che un gemito. La fanciulla stette a contemplarlo con gli occhi pieni di lacrime; poi, seguendo la direzione dello sguardo paterno, vide che si posava sopra la duchessa e Blasco. Ella credette di interpretarlo.

"Signore" disse volgendosi a Blasco "ve ne prego, lasciatelo tranquillo..."

La parola era rivolta al giovane, ma evidentemente la preghiera toccava anche la duchessa. Donna Gabriella alzò le spalle con un moto di disprezzo.

"Accompagnatemi, signore" disse imperiosamente, stendendo la mano, per appoggiarla al polso che ancora Blasco non le porgeva.

Blasco si sentiva come inchiodato; una folla di pensieri, di sospetti, di domande, gli affluiva nel cervello; vi era nell'atteggiamento duro, altero, rigido di Violante, come nella confusione di donna Gabriella, un mistero che non giungeva a decifrare. Avrebbe voluto interrogare la fanciulla, averne qualche spiegazione; se mai discolparsi e difendersi, ma la duchessa lo aspettava, irritata per l'indugio:

"Signore, vi ho pregato di accompagnarmi..."

"Perdonatemi," disse Blasco "ma tutto quello che succede qui dentro è così strano, ed io mi sento così imbarazzato, senza saper nulla, che mi sembra legittimo il desiderio di domandare qualche spiegazione..."

Violante freddamente, ma non senza amarezza, gli rispose:

"La signora duchessa può spiegarvi tutto meglio di me... Abbiate la bontà di seguirla..."

Gli imponeva direttamente di uscire; perché? Di quale colpa era reo agli occhi della fanciulla? Guardò la duchessa, che lo aspettava, in una posa piena di signorile dignità e con una luce di malvagia soddisfazione sul volto. Violante aveva voltato loro le spalle e aveva ripreso il suo atteggiamento dinanzi al padre, che con gli occhi attoniti seguiva i gesti dell'uno e della altra, a mano a mano che parlavano, come se non udisse bene le parole, o non capisse quel che sonavano. Donna Gabriella si indispettì della irresolutezza di Blasco; disse irritata:

"Vi aspetto!"

Allora egli lentamente, col capo basso, il cuore tumultuante, le porse il braccio, sul quale la duchessa appoggiò la mano, e l'accompagnò nella saletta dove avevano trascorso la notte.

Donna Gabriella stette un po' irresoluta, poi riprese il suo posto presso il tavolino e indicò a Blasco una sedia in fondo alla stanza, donde non poteva vedere nè essere veduto:

"Sedete."

Ella ordinava imperiosamente, come se avesse colto altri in fallo, per un bisogno dello spirito di esercitare una rivincita, di nascondersi, di rifarsi e per desiderio di sopraffare, di vendicarsi sopra qualcuno. Blasco, però, non sedette; provava uno sdegno, una sorda ribellione contro quella donna che non sentiva rispetto neppure di quel letto ove agonizzava il marito, per abbandonarsi ai suoi istinti ciechi; non volle ubbidire a quel gesto imperioso, irragionevole, e disse:

"Io non ho più nulla da fare qui. Spero che don Raimondo guarisca. Per compiere il mio disegno, non occorre che io rimanga in questa casa, dove, del resto, col via vai di gente non sarei sicuro. Ancora non è giorno; le strade sono quasi buie e potrò mettermi in salvo..."

"Partite? Ve ne andate? Come? Perché?" domandò precipitosamente la duchessa.

"Perché è necessario."

"Io non vi lascerò uscire..."

"Voi non vi opporrete!" rispose Blasco con fermezza e dominandola con la sua volontà.

Allora ella si sentì infrangere il cuore e gli occhi le si empirono di lacrime.

"Perché volete lasciarmi?" gemette.

"Devo andare. Ho altre cose da compiere. Non posso lasciare l'opera mia a mezzo... Forse stanotte ritornerò... se sarà possibile... In ogni modo avrete mie notizie, non dubitate; e credetemi che io veglierò su questa casa..."

"Che importa a me di questa casa!" esclamò dolorosamente e dispettosamente donna Gabriella.

Ma Blasco non raccolse l'interruzione; prese il mantello, la spada e il cappello, e la salutò:

"Addio! siate più giusta e più umana; e ricordatevi che in questo momento voi avete un grande ufficio da compiere, perché voi sola rappresentate per ora la casa degli Albamonte."

Le baciò la mano con fredda convenienza e uscì: donna Gabriella non seppe trattenerlo, non seppe neppure dire una parola; alla tensione nervosa dei suoi impeti era succeduta per naturale reazione una debolezza di volontà e una prostrazione di forze, che non le fecero trovare altro sfogo se non nel pianto.

Blasco uscì ravvolto nel mantello, col bavero rialzato sul naso, e prese la strada di Porta Carini per uscire più presto dalla città. S'era già fatto giorno; qualche finestra schiudeva gli scuri, qualche volto sonnacchioso si affacciava dietro le invetriate. Le botteghe si aprivano. I gabelloti avevano già aperto la porta, dietro la quale stavano aspettando vetturali con una "redine" di mule cariche di barili o di sacchi, e carri tirati da buoi. Blasco si cacciò fra loro, e seguendo la linea dei bastioni a sinistra, raggiunse ben presto gli orti e per un sentiero ritornò al convento dei Cappuccini, dove avrebbe aspettato l'ora per il suo scontro.

Rispondendo evasivamente al frate che lo accompagnò, entrò nella cella e si buttò sul letto a pensare e riordinare le sue idee. Bisognava mettere Violante al coperto da ogni insidia e da ogni violenza della duchessa, e provvedere nel tempo stesso al suo avvenire. Non c'era che una via: rivelare ogni cosa ai Ventimiglia e ai Branciforti, ai parenti di Emanuele e di Violante, i due orfani, e metterli sotto la loro protezione. Scrisse due letterine, firmandole: "Blasco Albamonte" e, chiamato il fraticello, che era sul punto di andare alla questua, lo pregò di recapitarle al loro indirizzo.

"Caspita!... Sono i primi signori!" disse il frate; "sono amici di vossignoria illustrissima?"

"Sì."

Il frate mise le lettere nella bisaccia e se ne andò. Blasco aveva chiesto all'uno e all'altro signore un abboccamento per fatti gravissimi e che riguardavano le loro famiglie; li pregava di scusare l'ardire se, come avrebbe dovuto, non si recava egli stesso a riverirli fino nei loro palazzi, ma non poteva perché costretto da forza superiore. Dava loro appuntamento in due ore diverse, nella "selva" dei Cappuccini .

I due signori giunsero al convento all'ora stabilita, con le loro carrozze e l'uno e l'altro furono non poco sorpresi nel riconoscere in quel Blasco Albamonte, che li aveva invitati e che essi credevano di non conoscere, quel giovane Blasco da Castiglione, da loro reputato avventuriero di ignota origine. Blasco dovette per due volte rivelare la sua nascita, con suo fastidio; ciò che empì di stupore i due signori, i quali, sapendo che infine il giovane aveva sangue nobile nelle vene, parvero riconciliarsi con lui e lo guardarono con maggiore benevolenza. Ma il loro stupore raggiunse il colmo quando seppero che l'erede di don Emanuele, duca della Motta, il legittimo duca, il figlio di donna Aloisia viveva, salvato per miracolo, e che bisognava toglierlo ormai alla tutela dei suoi salvatore e restituirlo al suo grado, tanto più che v'era un atto, col quale don Raimondo riconosceva il nipote, e quest'atto era in potere del notaro Di Bello. Ora che don Raimondo era tra la vita e la morte, gli pareva necessario che i parenti materni del giovanotto provvedessero a integrarlo nel suo stato; ma intanto, per un riguardo alla casa, e per ovviare a qualunque inconveniente e non disperdere il patrimonio, proponeva di sposare Emanuele con Violante. Spettava ai parenti come tutori naturali dei due giovani - data la gravità delle condizioni di salute di don Raimondo, - regolarne d'accordo lo stato futuro. Tutte queste notizie, queste proposte non sbalordirono il marchese di Geraci, nonno di Emanuele, al quale l'idea che il figlio della sua povera Aloisia era ancora vivo dava una dolce e tenera commozione, e non sbalordirono nemmeno il principe di Butera, al quale la soluzione proposta da Blasco pareva la più logica e conveniente. Non presero per allora alcuna risoluzione; bisognava ave re nelle mani l'atto rilasciato al notaio Di Bello e raccogliere tutti gli elementi; in ogni modo occorreva aspettare che le condizioni di salute di don Raimondo si risolvessero in un modo o in un altro.

Blasco nelle sue rivelazioni aveva taciuto quanto poteva pregiudicare don Raimondo e quale parte avessero in tutti quegli avvenimenti i Beati Paoli; una cosa soltanto disse in un orecchio al principe di Butera: di proteggere Violante sua nipote, minacciata da gravi pericoli nella sua casa paterna.

Mentre i due signori, che avevano finito per trovarsi insieme, se ne an davano, il principe di Branciforti disse a Blasco:

"Ma voi, figlio mio, con questo bando che vi pesa addosso, che diavolerie avete commesse?"

"Nessuna, signor principe; ho voluto far bene, ne ho avuto male e ho dovuto difendermi. Ecco in compendio quello che ho commesso. Se sono colpito da un bando, lo devo a don Raimondo che ho salvato. Ma non importa. Vostra Eccellenza mi procurerà un imbarco. Il bando colpisce Blasco da Castiglione, ed io sono invece don Blasco Albamonte, dei duchi del la Motta. Blasco da Castiglione è morto, per la giustizia..."

"Diavolo! ecco un'idea che mi piace. Lasciate fare a me."

Blasco li accompagnò alle loro carrozze; quando furono partiti, egli sentì sgravarsi il petto e respirò, ma si sorprese una lacrima sugli occhi e sentì salirsi un doloroso singhiozzo.