Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte terza, capitolo 26

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Dopo aver deposto Blasco per terra, negli orti che si stendevano sul letto dell'antica palude del Papireto, Coriolano, don Girolamo e Andrea si allontanarono attraverso le piante, e girando in lungo riuscirono sullo stradale alberato fuori Porta Nuova. Essi costeggiarono le mura fino a Porta Termini e si attardarono fino alla alba per aspettare che la porta si aprisse, e, frammisti ai vetturali che venivano da Messina, entrare inosservati. Coriolano non si era tolta la maschera; quando fu il momento di entrare in città egli scambiò sottovoce qualche parola con don Girolamo, il quale, fatto un lieve cenno col capo, disse ad Andrea:

"Passa dalla casa di Nino Bucolaro, dagli il segno e aspettami con lui davanti S. Michele Arcangelo..."

Appena Andrea fu partito, Coriolano si tolse la maschera.

Alla Fieravecchia egli si separò da don Girolamo, e se ne andò a casa; don Girolamo si recò a S. Michele Arcangelo e vi trovò Andrea soltanto.

"Ebbene?" gli domandò.

"Ho dato il segno tre volte, ho bussato anche, ma non ho avuto risposta; anzi non si è fatto vivo nessuno..."

Don Girolamo si fece scuro.

"Il malandrino," disse, "non deve essere in casa. Dove sarà andato?"

Pian piano si avviarono verso San Cosmo, ignorando e non supponendo che la piazza fosse, per così dire, in stato d'assedio, ma quando scendendo dalla Guilla videro alle finestre, sulle porte la gente guardare incuriosita verso la piazza, e allo sbocco presso la chiesa videro guardie e soldati, si arrestarono ed ebbero paura.

"Diamine!" disse don Girolamo; "la faccenda è seria. Andiamo dalla piazza del Monte."

Infilarono la strada sotto l'arco di S. Isidoro, e dalla piazza del Monte, per la strada dei Lettighieri - ora detta delle Sedie volanti, - ritornarono verso S. Cosmo, ma anche da quella parte v'era un drappello di soldati dietro i quali si accalcavano dei curiosi. Don Girolamo e Andrea si mescolarono fra essi e diedero un'occhiata alla piazza, nella quale ardeva ancora qualche torcia a vento, la cui luce si affievoliva al chiarore del giorno. Essi videro il vicolo degli Orfani, la chiesa dei Canceddi, lo sbocco della strada S. Cosmo e di Porta Carini, guardati da soldati; pareva che tutto il presidio fosse accorso: ufficiali, algozini, andavano e venivano da un punto all'altro; in mezzo alla piazza c'era il capitano di città, arrabbiatissimo, che si sfogava con chiunque.

Don Girolamo raccoglieva le impressioni, i commenti, le dicerie della folla.

"Hanno trovato i Beati Paoli!"

"Ma che, non hanno trovato un corno!"

"Ve lo dico io! ..."

"Non sapete nulla."

"Sono entrati nella grotta!..."

"Davvero?"

"Dov'è la grotta?"

"Ma figuratevi! l'avevano sotto il naso!"

"Nel vicolo degli Orfani..."

"Ma no; sotto la casa del giudice Baldi."

"È qui nel vicolo!"

"Dice che vi sono due entrate!..."

"Chi l'avrebbe immaginato?.."

"Gesù! Gesù!... E li hanno trovati?"

"Avete udito le schioppettate?"

"Una battaglia!..."

"Poveri figli di mamma!..."

"Non potete immaginare lo spavento. Io dormivo, quando a un tratto bum! bum!; mi svegliai e volevo uscire; mia moglie mi dice: ma no, Peppe, non ti muovere; saranno ladri... le palle non hanno occhi, si sa!..."

"E ci sono morti?"

"Chi lo sa!..."

"Qualcuno ha fatto la spia, certamente!"

"Eh! dai traditori non se ne guardò neppure Dio!"

"Se lo appurano, gli faranno la festa..."

"Potete aspettarvelo..."

"Ma non si può passare?"

"Signor caporale, scusate, si passa?"

"Bella storia l'ordine del capitano! e se io abitassi da quella parte?"

"Ma che ordine d'Egitto!..."

Sopravvenivano intanto degli ortolani coi somari carichi di "zimmili" pieni di cavolfiori e di insalate, dei vetturali col loro seguito di mule; le chiese sonavano per la messa; dalle case della piazza la gente usciva per le faccende; i cordoni dei soldati furono, senza che nessuno l'avesse ordinato, scomposti, e la piazza si empì di gente che andava e veniva. I commenti cominciarono a fioccare e non certamente favorevoli al signor capitano di città che era quell'anno il duca don Luigi Gaetani.

"Bella figura che ci hanno fatto!"

"Ma credevano di aver da fare con ragazzi?..."

"I Beati Paoli sono come gli spiriti; si vedono, si sentono e non si acchiappano mai!..."

I Beati Paoli avevano le simpatie di quel popolo incline ad ammirare tutto ciò che aveva del meraviglioso o che era un segno di ribellione alle autorità, delle quali esso non conosceva che i rigori e le violenze. Agli occhi suoi, la setta esercitava un ufficio di giustizia vendicatrice a favore dei deboli, ed era quindi la sua naturale e legittima difesa. Si capiva bene, dunque, la soddisfazione generale nell'apprendere che la forza pubblica aveva fatto un gran fiasco e che, se aveva trovato la stalla, i buoi erano però scappati; e il piacere di schernire l'insipienza dei capi e del signor capitano.

"Che mala figura!..."

L'esclamazione, ripetuta fra sogghigni e risate ironiche, e l'inutilità di ogni ricerca, consigliarono il capitano a ordinare il ritiro dei soldati. Egli lasciò dei picchetti ai due ingressi della grotta e abbandonò quel campo inglorioso del suo insuccesso.

Don Girolamo e Andrea salirono in casa, dove la signora Francesca stava in grande apprensione. Ella non era andata a letto, aspettando il marito; aveva udito i colpi di fucile ed era accorsa spaventata al balconcino, donde aveva veduto al lume delle torce a vento quel tramenio di soldati, e tremando s'era messa a pregare, raccomandandosi ai santi e non togliendosi dal balconcino, temendo di vedere da un momento all'altro spuntare dal vicolo il marito o ucciso o arrestato fra i soldati. E aveva tra scorsa tutta la notte in questa ansia dolorosa, sobbalzando a ogni rumore, spiando ogni gruppo, cercando di indovinare quello che avveniva.

Un primo senso di sollievo provò nel vedere le guardie e i soldati andarsene tra le risa e le baie della folla, ma quando vide il marito si sentì venire il pianto per la gioia.

"Che cosa è stato? Che cosa è avvenuto."

"Nulla, cose da nulla. Emanuele?"

"Credo che dorma... Non ci ho badato. Ho avuto la testa a voi. Che paura!... Ma come è andata?"

"Chi lo sa? Qualcuno ha dovuto guidare la giustizia..."

"È avvenuta qualche disgrazia?"

"Nessuna."

"Sia lodato Dio..."

La signora Francesca ignorava che cosa si fosse trattato quella notte nel tribunale dei Beati Paoli. Sebbene sapesse la parte che vi aveva il marito e conoscesse qualche segreto, specialmente riguardante Emanuele, tuttavia don Girolamo non le confidava mai le faccende di cui si occupava il tribunale nelle sue sedute, nè mai le aveva detto chi fossero i suoi compagni. Ella sapeva appena che Antonino Bucolaro e Andrea fossero della setta. La presenza di Andrea, insolita a quell'ora e l'aspetto di lui e del marito bastavano però a farle capire che ci dovevano essere delle grandi cose, ma, abituata a non intrigarsi, sottomessa al marito, non osava domandare nulla e si era posta da buona massaia a rassettare la casa.

"Il mio compito ora si può dire esaurito," disse Andrea; "quello che giurai a me stesso l'ho conseguito e ora che potrò baciare la mano del mio padroncino, se anche mi cogliesse un fulmine o mi mandassero sulla forca morirei contento..."

"Non abbiamo paura di morire sulla forca."

"L'abbiamo scampata bella... E, scusate, ora che abbiamo quell'atto che cosa si farà?"

"Per bacco... si porterà al Vicerè o alla grande corte civile... non so; è quello che vedrà il capo. Egli sa tutto..."

"Io non ho che una febbre; quella di vedere il padroncino nel suo palazzo, di cacciare via gli intrusi..."

Don Girolamo scosse il capo.

"Chi lo sa? Non dimenticate che c'è il bastardo..."

"Ah! se non fosse sangue della buon'anima del mio padrone, a quest'ora avrei sbarazzato io il terreno! Che cosa vuole? Che pretende? Avete visto come difendeva quel birbante? Ci vuole coraggio..."

"Baccaglio!"

"Avete ragione."

Don Girolamo si alzò e andò nella camera di Emanuele.

Ma, nel momento stesso in cui vi entrava, si udì la sua voce stupefatta dire:

"Francesca, dov'è Emanuele?"

"Come, dov'è" rispose attonita la signora Francesca; "in camera sua che dorme..."

"Non c'è..."

"Come? Come?"

E la buona donna, tralasciando il suo lavoro, corse a vedere anche lei. Il letto era vuoto con le coperte in disordine.

Don Girolamo aggrottò le sopracciglia, guardò intorno e si accorse che le vetrate del balconcino, sebbene sembrassero chiuse, non erano serrate coi ferri; le aprì e guardò. Quel balconcino dava in una terrazzina interna, che formava il fondo di una specie di pozzo di luce, sul quale si aprivano le finestre del piano superiore e c'era una scala a piuoli, che serviva per salire in un soppalco della cucina. Don Girolamo vide che la scala a piuoli era appoggiata sotto una finestra del terrazzo e che gli ultimi piuoli non erano così distanti dalla finestra che un giovane della statura di Emanuele non giungesse col petto al davanzale. Intuì ogni cosa.

"Adesso," gridò "lo piglierò io, e, parola d'onore, gli darò una lezione."

Rientrò e prese una chiave, aprì una porticina e si lanciò su per una scaletta di legno, tra lo stupore della moglie e di Andrea. Poco dopo si udì un calpestio rumoroso che scendeva quasi a precipizio e si vide comparire Emanuele rosso di collera e di dispetto seguito da don Girolamo che gridava:

"Te l'ho proibito, per dio!... Te l'ho proibito!... è una cosa indegna... Ti chiuderò in un convento!..."

La vista di Andrea, invece di mortificare il giovane, lo eccitò.

"Chi?... Chi chiudete?... Ma finitela una volta!..."

"Ah, malcreato!"

"Badate a voi!" gli gridò Emanuele con collera orgogliosa; "badate a voi!..."

"Minacci?..." esclamò don Girolamo con stupore e ira insieme. "Osi anche questo?"

"Non minaccio, ma infine dovete stare al vostro posto..."

"Parli così? Parli così a me?... Te lo darò io il posto!..."

Staccò dal muro una ferula e si mosse per sferzare Emanuele, ma Andrea si frappose con atteggiamento risoluto di difesa, esclamando:

"Questo no!... Non ve lo permetterò!..."

"Voi?... Voi levatevi, per dio!... Chi siete? Levatevi!..."

"Levatevi!" aggiunse con superba iattanza Emanuele; "non ho bisogno di voi!... Lasciatelo venire, se ha cuore."

Don Girolamo schizzava fuoco:

"Corpo di Dio! fin che starai sotto il mio tetto sei sempre il mio figlio adottivo e ti picchierò!..."

Alzò la mano, ma Andrea tentò di afferrargli il braccio:

"Don Girolamo, non picchiate!..."

"Ah! per Cristo! volete dunque che sfoghi sopra di voi?... Ma andate via, uscite!... Qui sono io il padrone!... uscite o mi pento di quello che ho fatto!"

La signora Francesca si intromise cercando di calmare il marito.

"Avete ragione, don Girolamo, ma perdonategli; non sa quello che dice, e vedrete che se ne dorrà..."

"Io? Tutt'altro!" interruppe Emanuele con un sogghigno. "Non ho di che dolermi!..."

"Lo sentite... ma si perda il mio nome, se..."

Ributtò da parte Andrea e vibrò un colpo che Andrea fu sollecito a parare col gomito, afferrando nel tempo stesso la ferula, per impedire a don Girolamo di battere il giovane. La signora Francesca, con un grido, si era gettata in mezzo. Emanuele però serbava un atteggiamento di sfida. Don Girolamo aveva quasi perduto il lume degli occhi; ora si sfogava, con Andrea.

"Uscite!" gridava "uscite!... fuori di qui!.."

"Don Girolamo!" supplicava la moglie.

"Uscirò, sì;" rispondeva Andrea "ma non solo... Per dio! siete ammattito?"

"Sì! farò cose da pazzo!... Cotesto ingrataccio, cotesta vipera che ho nutrito nel mio petto!..."

"Se mi avete nutrito, non temete: saprò pagare il vostro dispendio, appena mi metterete in possesso del mio patrimonio!"

A queste superbe parole di Emanuele, don Girolamo allibì: la sua collera rimase come sopraffatta dall'inaspettato; c'era in quella boriosa e crudele risposta tutta una rivelazione.

"Cosa? Patrimonio?... Che ha detto?..."

La signora Francesca si smarrì; Andrea, credendo forse più di quel che era, esclamò:

"Come? Egli dunque sa!"

"Sì" disse Emanuele con un tono di trionfo: "so che se sono cresciuto in questa casa, umilmente, so pure che sono un signore e mi aspetta un altro stato. E so che mi si deve rispetto, e che se qualcuno deve comandare, sono io!"

"Ah! finalmente!" gridò Andrea con gioia; "finalmente posso levarmi d'addosso il peso di questo segreto! O Eccellenza, padrone mio!.."

Si buttò in ginocchio dinanzi a Emanuele e, presagli una mano, gliela baciò con rispetto, tra la commozione di piacere e di stupore del giovane e lo sbalordimento di don Girolamo che ripeteva ancora:

"Come lo sa?... Chi gliel'ha detto?"

La signora Francesca tremava. Emanuele, che in fondo non sapeva nulla più di quanto gli aveva detto la signora Francesca, moriva dalla voglia di conoscere quello che Andrea e don Girolamo immaginavano che egli già sapesse. Quell'Andrea che gli baciava la mano, e gli dava dell'eccellenza e lo chiamava padrone, che pareva vinto da una grande commozione, gli si offriva ora allo sguardo come il solutore dell'enigma che tuttavia poteva decifrare. Ma intanto lo stupore di don Girolamo, le parole e il gesto di Andrea, confermandogli che egli doveva essere il discendente e l'erede di una grande famiglia, accrebbero quella burbanza, quella boria, quella vanità, che lo rendevano quasi odioso.

Don Girolamo si riscosse.

"Ah! pagarmi!" disse amaramente; "vostra signoria vuol pagarmi quel che ho speso?... Ma se tu mi dessi tutto il tuo patrimonio, tutti i tuoi titoli, non giungeresti mai a pagare quello che ho fatto per te, quali rischi, quali pericoli ho corso e quante volte ho esposto la mia vita... Ma neppure la tua vita basterebbe a ripagarmi!... Va'! il tuo sangue non mente; me ne accorgo. Ed hai ragione; tu solo hai il diritto di comandare... Noi siamo, è vero, quelli che ti salvarono e che hanno lottato per non lasciarti spogliare del tuo, ma, comunque, siamo povera gente e tocca a noi ubbidire!... è giusto. Domani. ti accompagnerò dai parenti di tua madre; io non ho più nulla da fare per te. E quando uscirai, chiuderò quella porta, perché non ti venga mai la tentazione di entrare... I tuoi denari? Puh! Se avessi voluto averne sacchi pieni così ti avrei dato... a chi so io, che t'avrebbe comprato a peso di oro."

"Don Girolamo!" supplicò ancora la signora Francesca.

"Don Girolamo," aggiunse Andrea, con un tono fra la preghiera e il risentimento "non mi paiono discorsi degni di voi..."

"Lasciatemi parlare, almeno!... Il suo denaro! L'avrebbe forse, se io non lo avessi sottratto alla morte? Se non lo avessi nascosto e non avessi affrontato i pericoli che ho corso? Ma tienili per te!... Chi ne vuole? Mi brucerebbero... Oggi qui, domani altrove, e se ti incontrerò farò vista di non conoscerti!... Ma, fino a che starai qui, mi ubbidirai. Se i tuoi parenti vorranno darti per moglie la figlia di uno spazzaturaio, non m'importa: contenti loro, contenti tutti; ma che io metta una mano a imbrogliarti con una qualunque, non ci pensare neppure!... E dirò tutto ai tuoi parenti; non voglio scrupoli... Intanto starai qui, in questa stanza... Vedrai che i tuoi parenti ti leveranno cotesti grilli. In un convento! là o qualche mese in un castello, e tu sai come ci si stia!"

Tacque: aveva la bocca amara e il petto gonfio di dolore e di collera. Anche gli altri tacevano, sopraffatti dalla giustezza di quello siedo; soltanto Emanuele se ne stata torbido, astioso, superbo, come se avesse sostenuto un grande sforzo a tollerare quelle parole. Dopo un istante disse freddamente:

"Perché non mi conducete presto dai miei parenti? Alla fine, è ormai troppo tempo che sto qui; avreste dovuto farlo prima..."

"Lo sente?" disse don Girolamo; "lo sentite anche voi, che l'avete allattato, Francesca? Voi che non avete voluto lasciarlo, quando volevo portarlo al principe di Geraci..."

"Ah!" gridò Emanuele con impeto di piacere: "sono dunque il figlio del principe di Geraci?..."

"Tu?... Ma come? Non sai dunque di chi sei figlio?..."

"Non lo sa?" disse Andrea con stupore; "ma allora..."

"Ma le tue parole?..."

"No, non so tutto, ma ora me lo direte... Infine devo saperlo. Me lo direte voi" aggiunse il giovane, rivolgendosi imperiosamente ad Andrea.

"Eccellenza, sì."

"No, Andrea, non ancora;" disse don Girolamo astioso.

"Perché? Non mi pare che sia il caso di tacerglielo. E poi è il mio padrone e non posso disubbidirgli... Vostra Eccellenza è figlio della memoria sempre benedetta del fu mio padrone don Emanuele Albamonte duca della Motta."

"Albamonte!" esclamò Emanuele, con uno stupore nel quale c'era un certo rincrescimento di non essere un principe. "Sono allora un Albamonte!"

Si ricordò di don Raimondo, dei suoi lacchè, del supplizio inflittogli nel Castello, e le sue narici, si gonfiarono di odio e di desiderio di vendetta. Come era duca quell'uomo? Come gli aveva usurpato nome, stato, ricchezza?... Se il duca era lui, Emanuele, quale legittimo erede, don Raimondo doveva dunque lasciare il palazzo, consegnargli il patrimonio e ritornare nell'ombra come un privato!... Questo era evidente; ed egli si sarebbe goduto la vendetta magnifica di fare cacciare quell'uomo dai servi medesimi che l'avevano prima servito! Questo pensiero lo empì di tanta gioia, che non gli dolse più d'essere duca, invece che principe.

"Ah! sono io dunque il duca della Motta!"

I suoi occhi brillavano di gioia, ed egli guardava intorno con superbo disdegno, meravigliandosi di aver potuto vivere in quella povera casa, fra gente inferiore che gli aveva dato del tu. Intorno a lui si era fatto silenzio, e pareva che una grande distanza si fosse subito interposta fra Emanuele e quelle tre persone che avevano rischiato la vita per lui. La differenza di grado aveva spezzato ogni legame e aveva innalzato una grande barriera fra loro. Ciascuno riprendeva la coscienza del suo grado e sentiva che gli antichi rapporti erano finiti lì, con quel nome e con quel titolo.

Emanuele disse freddamente a don Girolamo:

"Spero, avrete avvertito i miei parenti della mia esistenza..."

Don Girolamo fece segno di no. Era un po' imbarazzato, non sapendo quali forme dovesse adoperare verso il suo antico figlio adottivo, e ricorreva ai segni che non richiedevano formule di etichetta.

Emanuele riprese:

"Credo che ora sia necessario farlo sapere."

Aveva preso, non senza ostentazione, i modi da gran signore e ordinava come se quella famigliuola avesse avuto l'obbligo di allevarlo, di custodirlo, e ora quello di ubbidirgli. Ma l'imbarazzo di don Girolamo non poteva durare a lungo; egli riprese il suo animo, e rispose rudemente:

"Lo farò quando sarà il momento di farlo. Intanto la tua signoria illustrissima si contenterà di continuare a essere quello che sei stato; e il tuo signor Andrea, poichè non ha nulla da fare qui, mi farà il favore di andarsene e di non venire più in questa casa, se non quando glielo dirò io..."

Emanuele si fece rosso per il dispetto e per la vergogna; Andrea si mortificò.

"Mi scacciate, don Girolamo?..."

"Prendila come vuoi!..."

"Ma io voglio essere servito dai miei servitori!..." gridò Emanuele per prendersi una rivincita.

"E che siamo stati e che siamo noi, se non i tuoi umili servitori?" disse ironicamente don Girolamo; "non c'è bisogno di averne altri in casa..."

Andrea prese il cappello, lo rigirò fra le mani come uno che non sa risolversi, poi, masticando un po' le parole, si congedò:

"Basta... farò come volete... Siete in casa vostra e non posso parlare.... Vi saluto. Vuol dire che ci vedremo... E vostra Eccellenza non dubiti che come ho servito fino all'ultimo, fedelmente, la benedetta memoria del duca suo padre, servirò anche lei. Le bacio la mano."

"Abbiate pazienza, ve ne prego;" disse don Girolamo "e quanto a Emanuele non dubitate... l'ho avuto per figlio!..."

Emanuele non seppe trattenere Andrea; lo seguì con gli occhi, e quando lo vide sparire sentì venir meno parte del suo ardire. Guardò don Girolamo, quasi aspettando che parlasse, ma il razionale buttò la ferula sul tavolino e disse:

"Questa non occorre più, ma intanto tu entra in camera mia. Dormirai lì... E non fiatare!... Per ora il padrone sono io. Via!..."

Il giovane si sentì avvampare il volto; avrebbe voluto reagire, ma l'aspetto di don Girolamo era tale, che lo indusse a usare prudenza. Senza smettere la sua aria di padrone, e più da uomo che faccia un favore che da ragazzo che ubbidisca, entrò, nella camera. Don Girolamo ve lo chiuse a chiave, e se la cacciò in tasca. Poi, così vestito com'era, andò a buttarsi sul letto del giovane e si addormentò.