Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte terza, capitolo 27

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Verso mezzodì, don Girolamo si recò da Coriolano; dal solito passaggio segreto nessuno poteva vederlo entrare. Trovò il cavaliere della Floresta alterato da una collera sorda che si rivelava dalla contrazione delle mascelle.

"Ebbene!" disse fra i denti, appena entrato don Girolamo; "Caifasso è sbottonato..."

"Eh!" esclamò stupito il razionale.

"Ed è ancora allumato."

"Possibile!... Tre salassi!"

"Avete le mani di ricotta!... una vergogna!..."

Vi fu un minuto di silenzio. Don Girolamo domandò:

"Ma com'è sbottonato? da sè?."

"L'hanno tirato fuori..."

"Che?... Sono entrati laggiù? Hanno trovato il passaggio?..."

"No. Sono entrati dalla corte del palazzo della Motta, scavando..."

"E come lo sapevano? Chi poteva dirlo?..."

Coriolano si strinse nelle spalle; don Girolamo capì e con mal celato rimprovero osservò:

"Ho capito! è stato certamente quel maledetto bastardo!... L'avevo detto a vostra signoria, che ci avrebbe portato sfortuna, che ci avrebbe creato imbarazzi!... Vostra signoria non volle mai prestarmi orecchio. Ecco che ora siamo da capo... Perché non mi lascia libero? Una carabinata, di notte, non gliela leva nemmeno Dio!..."

"Non movete foglia senza ordine mio. Anche lui è vittima di ingiustizie."

Don Girolamo borbottò qualche cosa incomprensibile e stette un po' in silenzio, preoccupato da quelle notizie che pareva gli sconvolgessero i disegni. Coriolano taceva; con le mani nelle tasche della sottoveste, guardava in alto, come chi cerca qualcosa o si riconcentra in un'idea.

Dopo un po' don Girolamo domandò:

"E che si fa ora per Caifasso?"

"Nulla. Bisogna vedere e studiare. Ora più che mai è necessario astutare la lanterna. Se arriva a cantare può imbrogliarci... Capisco che infine noi possediamo tutte le armi, ma qualcuno di noi potrebbe pagarla... Andrò io a far visita. Voi intanto recatevi dal notaro Di Bello, fingete di trattenervi nello studio e sorvegliatelo..."

"Oh, siamo sicuri per questo. Il poveretto ha tanta paura addosso, che non oserà neppure farsi vedere."

"Ragione di più per sorvegliarlo e prevenirlo. La paura è pessima consigliera. Intanto tenete l'Orbo alle costole di Nino Bucolaro..."

"Lo tengo già..."

"Ho notizie di Matteo Lo Vecchio."

"Sì? È morto davvero?"

"Quel malandrino è ancora vivo: si trova nel castello del principe, curato con tutte le premure possibili e pare che guarisca."

"Bene. Gli romperemo i denti, perché non morda."

"Se ne parlerà dopo. Per ora lasciamolo stare: può servirci. E un testimonio. Avete nulla a dirmi?"

Don Girolamo allora gli raccontò quello che era avvenuto tra lui ed Emanuele, e come il giovane già conoscesse il suo stato. Coriolano l'ascoltò in silenzio corrugando le ciglia.

"Il mondo è degli ingrati," disse poi; "Emanuele ha i vizi del padre e l'anima dello zio, senza alcuna delle virtù. Ma ciò riguarda lui; non muterà la nostra condotta, certamente. Vuol dire che si vedrà se sarà il caso di affrettarsi."

Lo congedò con un gesto; don Girolamo gli domandò:

"S'ha da pizzicar la vecchia al refettorio?" "Non adesso."

"Mi dirà vossignoria quando dovrò sonar la campana... Ma, in ogni caso, dove?"

"Fuori Porta d'Ossuna..."

"Sta bene."

Quando don Girolamo se ne andò Coriolano ordinò la sua carrozza e si recò a visitare la duchessa della Motta, dove s'incontrò con Blasco e avvenne quel breve diverbio e la sfida che, nonostante Coriolano sapesse celare ogni commozione sotto la sua maschera fredda, pure gli scavarono nel cuore un gran solco.

Ormai tra lui e Blasco era rotto ogni vincolo. Egli aveva fatto assegnamento sul giovane, e quasi gli avrebbe voluto preparare la successione in quel regno tenebroso nel quale il suo gesto era ciecamente ubbidito. Giovane, solo, senza avvenire, respinto dalla società, ribelle per abito e per istinto, coraggioso, bello, intraprendente, aveva tutte le qualità per guidare un esercito, fuor che la prudenza; sperava di fargliela acquistare rimorchiandolo nella setta, abituandolo a quella lotta mascherata, agli infingimenti del boa, sicuro di riuscirvi e di fare di Blasco il più terribile nemico delle autorità legali...

Ecco invece che quel giovane gli sfuggiva, anzi gli si poneva risolutamente di fronte, per combatterlo, gli fermava il braccio punitore; gli sottraeva i condannati; rivelava, forse senza volerlo, il segreto della setta; diventava un nemico e per giunta pericoloso contro il quale si affilavano i pugnali vendicatori dei Beati Paoli. Egli era un nemico, che gli interessi supremi della setta stessa gli avrebbero domandato di eliminare e forse imposto, per la comune salvezza.

La fredda ragione non gli giustificava la condotta di Blasco, nè gli nascondeva o attenuava le conseguenze disastrose e terribili che ne derivavano; tuttavia un resto dell'antica simpatia gli rendeva duro e penoso formulare nettamente il giudizio; e se non gli suggeriva scuse o compatimenti gli dava un senso di sofferenza che lo infastidiva. Il suo cuore inflessibile e crudele sentiva forse il bisogno di qualche tenerezza, e, insensibile alle donne, cercandola nell'amicizia si era attaccato a Blasco, le cui qualità lo avevano colpito fin dal primo giorno. Ma ecco dunque che quel giovane amato, e sul quale egli aveva steso la protezione della setta, senza che se ne accorgesse, e che aveva cercato di restituire al suo posto, gli sfoderava dinanzi la spada, con l'atteggiamento rigido e severo di un giustiziere.

"Peccato!" mormorava il suo cuore dolente.

"Egli deve morire! - sentenziavano la ragione inflessibile e l'interesse. - Ha mancato al suo giuramento, ha tradito; deve morire, come sono morti, come morranno i traditori! è la legge!...".

Quella sera convocò il tribunale. Don Girolamo andò personalmente a invitare i compagni, compreso Andrea.

"Fuori, e dovunque ci incontreremo," gli disse don Girolamo, "noi non ci conosciamo neppure, e non voglio più saperne di voi, ma per quello che riguarda la società è un'altra cosa. Del resto è bene che il tribunale decida fra noi due, e chi ha rotto pagherà."

"Come volete," rispose Andrea.

I Beati Paoli si adunavano nelle catacombe di Porta d'Ossuna, delle quali fino a quella notte terribile tutti avevano ignorato l'esistenza, eccetto Coriolano e don Girolamo. Le catacombe di Porta d'Ossuna, scoperte ed esplorate più di mezzo secolo dopo, e ora visibili, non erano isolate. Esse, per via di cunicoli che il tempo coperse e cancellò, si collegavano all'altro gruppo di catacombe, che si stendevano sotto l'altura del Capo, e delle quali la grotta del vicolo degli Orfani non era che una estremità, forse il punto d'ingresso, rimasto quasi staccato dal corpo principale, per le fabbriche che vi erano sorte sopra, le cui fondamenta avevano interrotto o ostruito i passaggi. Coriolano, esplorando quei sotterranei, aveva scoperto che si poteva mettere in comunicazione la grotta dei Beati Paoli con le catacombe del Capo; e scavando una nicchia aveva trovato il passaggio, che poi aveva mascherato, perché rimanesse segreto agli stessi membri della setta.

Con don Girolamo, aveva, poi, esplorato quei sotterranei, spingendosi innanzi, e aveva trovato una scaletta scavata nel tufo, sulla quale era una botola, che il tempo, il fango, avevano quasi incollato agli stipiti. Dapprima con prudenza, poi rassicurati dal non sentire nulla, avevano picchiato più forte; il silenzio li aveva incoraggiati a maggior audacia. Coriolano aveva usato la sua forza, per fare leva con le spalle contro la botola, scuoterla, sollevarla con uno scricchiolio di legno infracidito. Si erano trovati in una stanza che pareva una cantina, un magazzino abbandonato, pieno di ragnatele, di sudiciume, in parte distrutto. Era una casa rovinata che dava dietro la chiesa del Noviziato dei padri Gesuiti, da non molto consacrata al culto; e forse era rimasta ancora in piedi, avanzo delle demolizioni fatte per costruire la chiesa. La scoperta era piaciuta a Coriolano, costituendo essa una specie di uscita segreta, per tutti gli eventi. Ridiscesi, e ripreso il cammino fra i meandri angusti, simili a fogne, essi raggiunsero ben presto un altro gruppo di catacombe. Un buco nella volta, otturato da sassi e terriccio, indicò loro un'apertura. Bastava. Vi ritornarono appresso: liberarono quell'apertura e si trovarono all'aperto, tra gli orti che occupavano la costa dell'antica ampia palude del Papireto.

Qui, dunque, Coriolano convocò il tribunale. Vi avevano praticato un ingresso, da una buca, che pareva una fenditura nella costa del tufo, che si levava quasi a picco sul letto della palude, e che mascherava tanto bene l'ingresso che nessuno se ne accorgeva.

La seduta fu grave. Coriolano espose la condizione in cui si trovava la setta. Un bando era stato promulgato quella mattina stessa, che prometteva grandi premi a chi avesse scoperto, rivelato e indicato alla giustizia i membri di quella "perniciosa setta"; altri bandi erano seguiti. La sede era stata murata; spie, guardie, i tribunali, il Sant'Offizio, tutto era in moto. La giustizia conosceva qualche nome; qualche arresto insignificante era stato fatto, e da esso si poteva forse, con la tortura, con la corruzione, andare risalendo per trovare i capi. Era stato ordinato l'arresto di Blasco da Castiglione, di don Girolamo e di Andrea.

Essi quella sera avevano avuto l'agio di nascondersi; ma occorreva trovare loro un mezzo di uscire dal regno, di ricoverare in Toscana o a Roma, o forse meglio mandarli in Spagna, dove sarebbero stati più sicuri. Quanto alla società era prudente, fino a che fosse passata quella furia, tacere, eclissarsi, quasi per far credere che si fosse disciolta e dispersa; bisognava far perdere ogni traccia. Chi aveva bisogno di far pervenire una notizia al capo poteva farlo mettendo dinanzi alla statua dell'Ecce Homo dei Biscottari la mattina a quindici ore una candela accesa, con una croce segnata in basso, e aspettando a mezzanotte dinanzi la buca di quel sotterraneo.

Qualcuno domandò la parola. Era don Girolamo.

"È ricominciata per me," disse "la vita randagia. Ma questa volta salperò, andrò con la famiglia fuori regno, per vivere più tranquillo. Qui ora non mi resta più nulla da fare... ma prima di separarci domando che siano dichiarati traditori e abbandonati alla vendetta della società due che abbiamo ritenuto fino a ieri come nostri compagni e hanno avuto la protezione della società. Io li denunzio formalmente: sono il signor Blasco da Castiglione, del quale tutti hanno visto l'atteggiamento e la ribellione, e Antonino Bucolaro che, tradendo i fratelli, è diventato spia di Matteo Lo Vecchio. E di questo che affermo ho le prove sicure."

Un mormorio di approvazione e di minaccia accolse quelle parole. Tutti gli occhi, attraverso la maschera, si volsero al capo, ma Coriolano rimaneva immobile, in silenzio, come un nume, senza dare segno di approvazione o di disapprovazione.

Uno dei Beati Paoli prese la parola:

"Se Antonino Bucolaro ha tradito, e il fratello Beato Paolo che lo accusa ne fornisce le prove, sia giudicato e punito; ma, quanto al signor Blasco da Castiglione, io prego i miei fratelli di non precipitare nessun giudizio. Egli, è vero, ha cercato di opporsi alla nostra giustizia e ha disubbidito alle leggi della nostra santa società, ma ha fatto la spia? Ha tradito il nostro segreto?... Forse egli agì per bontà d'animo, per pietà, senza considerare il passo che dava; ma nego che ci sia tradimento: e non mi pare, cari fratelli, che debba essere punito come Bucolaro..."

Un altro confratello intervenne:

"I nostri statuti, che abbiamo giurato sul santo Crocifisso di rispettare e fare rispettare, sono chiari e precisi e non ci sono scuse. Chi disubbidisce è reo di morte. Egli ha disubbidito e si è ribellato a mano armata... Di più ha cavato dal sotterraneo don Raimondo ed ha violato il nostro segreto."

Andrea disse:

"Udiamo la parola della Sapienza."

La "Sapienza" era il capo, Coriolano. Egli disse:

"La legge si faccia!"

Bisognava nominare gli esecutori della legge e Coriolano riprese:

"Eseguirò io la giustizia."

L'adunanza si sciolse; i Beati Paoli uscirono a uno a uno, dileguandosi nell'ombra notturna; ultimi uscirono don Girolamo e Coriolano.

Questi gli domandò:

"Che cosa contate dunque di fare?"

"Consegnerò Emanuele ai parenti. Ora che non posso più sorvegliarlo, e che neppure posso andare fugacemente a casa mia, è la sola via che rimane. Lasciarlo con mia moglie, adesso che sa di chi è figlio, e che è montato in superbia, sarebbe lo stesso che fare morire quella povera donna di crepacuore... Lo consegnerò, o meglio lo farò consegnare ai parenti, e partirò con Francesca per la Spagna..."

"Sta bene. Vi procurerò io i mezzi. Per Antonino Bucolaro penserò io... Prima che partiate, ci vedremo."

Si separarono. Coriolano ritornò a casa pensieroso. Aveva assunto sopra di sè un grave compito per sottrarre Blasco alle insidie dei Beati Paoli, ma ne sentiva ora tutto il peso e tutta la responsabilità. Punire; lo voleva la legge ed era inevitabile armare il braccio; aveva sentenziato e assunto di dover essere egli stesso e non poteva sottrarvisi. Intanto a ventidue ore del giorno seguente egli doveva battersi con Blasco, dinanzi alla nuova sede dei Beati Paoli. Ecco: battersi, uccidere in duello, era un espediente che toglieva ogni odiosità alla vendetta o giustizia della setta. Blasco avrebbe avuto l'agio di difendersi; Coriolano, se mai, l'avrebbe ucciso o ferito gravemente (di ciò non dubitava) con tutta lealtà. Questo pensiero lo tranquillizzò e lo fece dormire fin quasi a mezzodì.

Egli aspettò l'ora convenuta, occupandosi al solito di tutte le cose sue e provvedendo alla incolumità dei suoi consoci; poi, quando gli parve tempo, si cacciò un paio di pistolette nelle tasche della sottoveste, prese una spada, la migliore, flessibile e leggera, s'avvolse nel mantello e uscì in portantina.

Passò dinanzi al palazzo della Motta e si informò della salute del duca, con quella compitezza che gli era abituale, si consolò sentendo che aveva dato segni di conoscenza, augurò pronta guarigione e pregò che dicessero alla signora duchessa che sarebbe ritornato.

Uscì da Porta d'Ossuna, e fatta fermare la portantina la congedò, dicendo che sarebbe ritornato a piedi. Quando si fu assicurato che i servi non potevano più vederlo, fece un largo giro, e, da una siepe rotta, entrò negli orti. Camminò per un tratto; scorse Blasco seduto sopra un sasso con le braccia incrociate, aspettando. Al rumore dei passi il giovane levò il capo, riconobbe Coriolano e si alzò, salutandolo freddamente, ma non senza una certa commozione che non seppe padroneggiare.

Coriolano trasse dal taschino un orologio e guardò.

"Sono ventidue ore precise, signore; spero non vi avrò fatto aspettare."

"No, signore," rispose Blasco "anch'io sono giunto or ora."

"Siccome la questione che dobbiamo accomodare è di sua natura riservata per le circostanze che la determinano, non ho creduto di incomodare qualche amico per farmi da testimonio; mi accorgo che anche voi avete preso la stessa risoluzione..."

"Infatti" disse Blasco.

"Cosicchè, quando volete, io sono agli ordini vostri.."

"Anch'io," ripetè Blasco, togliendosi il cappello, la giamberga e la sottoveste, e rimanendo in maniche di camicia.

Coriolano fece altrettanto. Quando, scelto il terreno, si posero l'uno di fronte all'altro con le spade in pugno, Coriolano gli disse:

"Vi avverto, signore, che io farò di tutto per uccidervi. Voi siete stato condannato come ribelle e violatore del giuramento fatto. Ho voluto risparmiarvi una morte indegna di voi, con una pugnalata o un colpo di carabina alle spalle e ho riservato a me il compito di eseguire la giustizia. Così voi non morirete ignobilmente, ma da cavaliere: non direte che vi si assassina, ma che vi si uccide lealmente dandovi tutti i mezzi di difendervi. È l'ultimo riguardo che io ho voluto usarvi, per la considerazione che ho avuto per voi."

"Fate il dovere vostro, signore," disse Blasco cupamente "e credete che vi sono grato di questa deferenza. Però devo lealmente avvertirvi che ho rivelato al principe di Butera e al marchese di Geraci l'esistenza di Emanuele..."

"Avete fatto bene; vi dirò anzi che avete prevenuto il mio proposito. In guardia, dunque."

Incrociarono le lame, che stridettero l'una contro l'altra con un rumore che faceva rabbrividire; Coriolano cercò di indovinare il giuoco di Blasco, ma si accorse subito che questi non ne aveva nessuno, e non offriva che una debole resistenza passiva. Conoscendolo, se ne stupì e abbassò il ferro.

"Signore," gli disse, "non sono venuto qui per giocare..."

"Lo so bene;" rispose Blasco "nè io intendo giocare..."

"Mi pare che voi non vogliate nè attaccare, nè difendervi!..."

"Che v'importa? Non vi invito certamente a far altrettanto... Fate il dovere vostro..."

"Ma battetevi, per dio!..."

"Fo quello che voglio..."

"Devo dunque costringervi a battervi sul serio?..."

"No. Perché vorreste costringermi? Voi avete il dovere di uccidermi; io vi agevolo il compito. Credete forse che la vita sia una cosa tanto desiderabile e cara, da difenderla quando si conosce che è meglio gettarla via?... Su, in guardia!..."

"Ma io voglio battermi in piena regola; voi stesso avete desiderato questo scontro, ed io l'ho accolto come un mezzo dignitoso per entrambi, per uscire da una situazione imbarazzante e ambigua per voi e per me..."

"Ebbene? E con ciò? Fino a pochi giorni or sono noi eravamo due fratelli, quasi... La fatalità ha voluto metterci di fronte l'uno contro l'altro. Ora voi siete un giustiziere, io il colpevole. Riconosco di avere mancato verso la vostra società, e non cerco attenuanti, perché non ho l'abitudine di scusarmi; anzi vi confermo che, se dovessi ricominciare daccapo, rifarei tutto quello che ho fatto. Me ne duole per voi. So io se ho sofferto nel rompere la nostra amicizia e nel sembrare verso di voi un ingrato. Ma ricordatevi di una lezione che mi avete data... Voi avete detto che avevate dinanzi a voi un'alta idea di giustizia, e che se per attuarla fosse stato necessario passare sul capo di vostro fratello non avreste esitato. Io ho avuto un'alta idea di pietà verso un vinto e non ho esitato a spezzare un vincolo di amicizia... Ho mancato verso di voi, ripeto, e ho disubbidito alla società. Punitemi: morire d'un colpo di spada o di un colpo di carabina per me vale la stessa cosa. Ho compiuto il mio ciclo e non ho più nulla da fare nel mondo. Se voi mi farete il favore di spedirmi al Padre Eterno, io avrò per voi un ultimo pensiero di gratitudine, e riterrò questo come un atto di fraterna amicizia. Convenite che, per me, ricevere questo favore dalle vostre mani, piuttosto che da un ignoto, è più lusinghiero... dirò anche più bello. Andiamo, dunque, che cercate di più? Avete un ufficio, un dovere da compiere? Compitelo senza sofisticare!..."

Coriolano lo ascoltava e le sopracciglia corrugate e le mascelle serrate mostravano in lui. una collera sorda appena frenata. Si sentiva in collera contro Blasco e contro sè; contro Blasco perché con quella condotta e con quel discorso gli impediva di montarsi, e di trovare in un combattimento accanito la ragione di ammazzarlo; contro di sè, perché non trovava nessuna parola da opporre a quelle di Blasco e si accusava di debolezza.

"Sta bene...." disse. "Farò come volete; mettetevi in guardia."

Ritornarono a incrociare i ferri.

Ma un grido li arrestò repentinamente:

"Signori! signori!..."

Si voltarono a guardare; sulla sommità del ciglione che dominava gli orti e nascondeva dietro di sè le catacombe, stava un ometto piccolo e sparuto, che agitava nervosamente le mani, con aria spaventata.

"Signori! signori! smettete... viene una compagnia rurale... vi arresterà..."

Blasco guardò con stupore quell'ometto, nel quale riconobbe Michele Barabino, il piccolo sarto che l'aveva salvato una prima volta dalla polizia; vide che, cercato un punto adatto, scendeva a precipizio, ripetendo:

"C'è una compagnia rurale che va frugando... subito, si rivestano!..."

"Oh! vossignoria?" gridò riconoscendo Blasco; "subito, si nasconda!... si nasconda!..."

Coriolano disse cupamente:

"Rivestiamoci, signore, e fingiamo di stare qui a osservare..."

Rapidamente si vestirono, ringuainarono le spade e si misero a guardare, mentre don Michele, accanto a Blasco, gli domandava sommessamente:

"Vossignoria perdoni, ma che cosa è stato?... Un signore bravo come vossignoria... E il signor cavaliere della Floresta? Erano così buoni amici... Quanto mi duole! Se potessi rendere qualche servizio... Sente?"

Tacque e tese l'orecchio: effettivamente si udiva uno scalpiccio di cavalli. Coriolano si voltò: fra gli alberi che coronavano il ciglione, gli parve di veder passare della gente a cavallo, che le fronde non lasciavano distinguere bene.

"È stato il buon Dio che mi ha mandato;" disse "sono andato ai Cappuccini per un po' di minestra... (aveva infatti un pentolino di terracotta sotto il braccio)... ci vado il dopopranzo, perché a mezzodì c'è tanta gente... e mi vergogno, non sono avvezzo a questo... Basta. Io torno sempre di qua. Ho sentito parlare e mi sono affacciato... I compagni d'arme li ho veduti che andavano cercando dentro le case... Bisogna che vossignoria si nasconda... Lo sa il bando?..."

"Quest'uomo ha ragione," disse Coriolano a Blasco: "voi sapete dove potete celarvi, senza che alcuno vi veda."

"Grazie, permettetemi di non approfittarne... se credete andatevene voi... avremo tempo di rivederci; vi farò sapere dove potremo ritrovarci... Allontanatevi."

Il piccolo sarto era andato su a guardare la compagnia d'arme e ritornava tutto spaventato.

"Presto, presto, vengono da questa parte..."

Coriolano s'avvolse nel mantello e si avviò verso la cresta del ciglione, perché non aveva bisogno di fuggire o di celarsi; poteva andare incontro alla compagnia, sicuro di essere piuttosto riverito che molestato. Appena raggiunse la sponda del ciglione vide la compagnia, che veniva alla sua volta, attraverso gli alberi. Era quella del capitano Mangialocchi.

"Buona sera, illustrissimo;" salutò il capitano, che andava innanzi, col moschetto sulle cosce. "Ha visto qualcuno, vostra signoria, da queste parti?"

"Di che genere?" domandò Coriolano con leggera malizia.

"Genere pericoloso..."

"Oh!... Ho visto una coppia, capitano, ma non era pericolosa... Vi consiglierei di non disturbarla, se non volete attirarvi la collera di Venere, dea degli amori... Altri non c'è. Buona sera, e buon servizio." "Bacio le mani di vossignoria."

Il capitano si fermò un poco e diede un'occhiata in giro, poi giù nell'orto silenzioso e deserto. Parve rassicurato e disse:

"Non c'è nulla, andiamo. E inutile scendere."

Fischiettando volse il cavallo, e la compagnia si allontanò lentamente dirigendosi alla volta dei giardini di San Francesco di Paola.

Giù, sotto una specie di grotta scavata o erosa, forse, in tempi remotissimi, dai flutti del mare, il sarto teneva fermo Blasco che avrebbe voluto uscirne, supplicandolo:

"Vossignoria non si muova. Santa Vergine!... Sono qui, sopra di noi... Non sente che parlano? Se ci moviamo, se facciamo un passo, ci vedranno e bum! bum! con due fucilate facciamo la morte del coniglio... Per san Bonomo! Io so che a vossignoria basta l'animo... ma qui morirebbe come un topo!... Mi lasci fare... Si lasci guidare... Aspetti... mi pare che se ne vadano... Sì... adesso vedrò..."

Stette ancora un minuto con le orecchie intente, come per raccogliere il più lieve rumore, poi uscì pian piano dal nascondiglio, si arrampicò senza fare rumore e guardò.

"Sono andati! sono andati!... Vossignoria esca. Ah, per diana! Che paura ho avuto!..."

Tutti e due uscirono di nuovo nell'orto.

"Dove conta di andare vossignoria?" domandò il sarto a Blasco.

"Al convento dei Cappuccini..."

"È sicuro vossignoria di trovare la strada libera, di poter rientrare? Tutta la campagna è invasa da guardie, da birri, da compagni... Ci vuole accortezza... Faremo così: io andrò innanzi, e farò da battitore, da cane: se c'è qualche cosa, canterò, per esempio... la storia di Saltaleviti. Andiamo..."

Salirono sul ciglione e s'avviarono per un sentiero. Michele Barabino andava innanzi, col suo pentolino sotto il braccio, nel quale di tanto in tanto tuffava tre dita e le ritraeva con certe erbe cotte che mangiava avidamente, forbendosi le labbra col dorso della mano. Blasco gli teneva dietro col capo pieno di pensieri. A un certo punto Michele Barabino cominciò a cantare.

Blasco si fermò e spinse lo sguardo; vide Michele Barabino, che cantando sempre, svoltava a destra fra gli ortaggi, e allora anche lui ritornò indietro, deviando in modo da tagliare la strada al sarto. E lo raggiunse.

"C'erano i birri;" disse Michele Barabino. "Bisognerà prendere un'altra strada... Ma temo che il convento sia circondato... A chi ha detto vossignoria che si trovava nel convento?..."

"A nessuno..."

"Proprio a nessuno?... E non ha mandato nessuna ambasciata, nessuna lettera? ..."

"Sì... al principe di Butera e al marchese di Geraci..."

"Con chi?"

"Con fra Rosario..."

"Non voglio sapere altro. Quello è un chiacchierone. Senza avere l'intenzione di farle del male, si sarà lasciato scappare qualche parola... Ci sono tante spie... e, con questa benedetta questione con Roma, i conventi sono spiati!... Non bisogna pensare ai Cappuccini..."

Blasco pensava e taceva, guardando quel piccolo uomo lacero, striminzito, col pentolino sotto il braccio, che sgambettava sollecitamente, senza curarsi di nulla. Cadeva la sera, e il cielo dietro Monte Cuccio aveva delle nubi infocate dagli ultimi raggi, che a mano a mano diventavano grigie.

A un tratto Michele Barabino si fermò, come colpito da un'idea, e disse:

"Vogliamo farla in barba alla giustizia? Io le porterò un vestito da prete greco, una barbaccia finta e un paio di occhiali e vossignoria entrerà a Palermo e passerà per le strade, come fosse venuto dalla Piana o da Contessa, senza che alcuno lo riconosca. Garantisco io... Ci sta? Sì?... Va bene. Vediamo un po', dove mi aspetterà?... Giù, nuovamente giù, nel burrone dove siamo stati... A un'ora di notte sarò di ritorno e prima che suoni la "Castellana" saremo in città, a casa mia... Non è gran che, la casa mia: un buco, una tana, e poi... ma vita per vita!... San Bonomo!..

Questa è buona. Andiamo, non c'è tempo da perdere; vossignoria non vorrà passare la notte passeggiando..."

Più che condurre, trascinò Blasco nuovamente giù; lo lasciò nell'orto, se ne andò verso la città coi suoi passetti brevi e frettolosi di piccolo uomo affaccendato. Blasco pensava alla singolarità del caso, che per la terza volta gli mandava incontro quel povero uomo per esserne salvato.

Era trascorsa un'ora e più quando il buon Michele Barabino ritornò con un fardello. Rapidamente fece indossare a Blasco sopra i suoi vestiti l'abito e la zimarra del papas albanese, gli cinse i fianchi con la fascia color porpora, gli camuffò il volto con una barbaccia, e, guardatolo, gridò:

"Per bacco!... vorrei vedere un po' chi sarebbe a riconoscerla!.."

Si pose addosso il mantello di Blasco, sotto il quale nascose la spada e il cappello, e disse allegramente:

"Papas, andiamo!..."