Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte terza, capitolo 28

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Nella camera di don Raimondo stavano raccolti, silenziosi e sgomenti, il principe di Butera e il marchese di Geraci; Violante, presso il letto paterno, aveva l'aspetto angosciato, e donna Gabriella, quasi in disparte, accanto al marchese di Regalmici suo fratello, non addolorata, ma sembrava stupita. Emanuele accanto al nonno, marchese di Geraci, se ne stava impettito nel suo abbigliamento ricco ed elegante, con una mano appoggiata all'elsa dello spadino, e guardandosi ogni tanto i ricchi pizzi delle maniche. Qualche volta guardava don Raimondo, e allora credeva conveniente assumere un aspetto compunto, come voleva la circostanza.

Da cinque giorni egli si trovava nel palazzo del suo avo, la cui magnificenza l'aveva riempito di meraviglia, e gli aveva fatto credere d'essere entrato in paradiso, ma gli erano bastati due o tre giorni per familiarizzarsi con l'ambiente e per assumere quelle pose da semidio, che gli sembravano indispensabili nel suo nuovo stato.

Il marchese di Geraci era andato il giorno dopo allo studio del notaro Di Bello, per leggere la dichiarazione di cui gli aveva parlato Blasco. Il notaro però era ammalato di febbre: lo spavento di quella notte, e più quello di essere arrestato come complice dei Beati Paoli, gli aveva alterato il sangue; e soltanto la notizia che don Raimondo, di cui temeva di più, era stato trovato gravemente ferito e si poteva considerare morto, lo aveva in qualche modo, egoisticamente, confortato.

L'annunzio che il marchese di Geraci era venuto a domandargli quell'atto, per poco non aveva ucciso il povero notaro, che aveva creduto di vedersi addosso la corte capitaniale; e c'era voluto del bello e del buono per calmare il suo terrore, che riusciva inesplicabile al marchese. Questi, letto il prezioso documento, e fattasene rilasciare una copia, come nonno del giovane del quale avrebbe reclamato la tutela, era corso a casa Ammirata con viva premura, per abbracciare il figlio della sua povera Aloisia. La signora Francesca, che aveva già ricevuto dal marito le debite istruzioni, raccontò al marchese in che modo il marito aveva ritrovato e raccolto donna Aloisia col bambino, e come fosse morta, senza aver potuto dire nulla. Quando per la città si era diffusa la notizia dell'uccisione di Maddalena, e si era saputo che ignoti assassini avevano rapito la duchessa e il figlio, essi avevano taciuto per paura d'essere ritenuti autori o complici del misfatto; e avevano taciuto anche dopo, quando avevano avuto forti sospetti che la vita del fanciullo, da loro allevato come figlio, fosse minacciata. Ora invece il mistero era svelato, il duca don Raimondo aveva riconosciuto il nipote, e la buona donna, sebbene con dolore, lo consegnava ai parenti, bello, forte, sano.

Il marchese di Geraci, commosso da quel racconto e dalla vista di Emanuele, nel cui volto credette di riconoscere alcuni tratti della figlia, disse alla signora Francesca:

"Voi, cara signora, non vi separerete dal giovanotto che avete cresciuto come figliuolo; nel palazzo dei Geraci vi sarà un quartierino per voi..."

Ma la signora Francesca rifiutò. Il marchese le offerse una bella somma, per ricompensarla delle fatiche, ma ella rifiutò più gagliardamente: "Se avessimo voluto approfittare, avremmo potuto arricchirci e non avremmo patito; nè don Girolamo sarebbe nuovamente ricercato e perseguitato."

"Accetterete almeno la mia protezione" disse il marchese.

Egli portò via Emanuele nella sua carrozza. Il giovane abbracciò la signora Francesca senza commozione, infastidito anzi dalle sue lacrime e dalla veemenza dei suoi abbracci e non gli parve l'ora di entrare in quella grande carrozza dorata, la cui sosta dinanzi alla modesta casetta del razionale aveva destato la curiosità e le chiacchiere del vicinato. La notizia che Emanuele era figlio, nipote o altro parente di grandi signori s'era diffusa a un tratto, e tutti accorrevano per vederlo partire, con la soddisfazione che si prova per il bene che piove a gente cui si vuol bene. Ma Emanuele guardò con tanto disprezzo quella povera gente, che raffreddò ogni sentimento di simpatia.

Egli non guardò neppure in alto, ad un balcone del secondo piano, donde una fanciulla, con gli occhi lacrimosi, lo vide entrare in carrozza e partire senza un saluto, senza un segno di simpatia.

Il marchese di Geraci aveva annunciato già a donna Gabriella che aveva ritrovato il nipote "il vero e legittimo duca della Motta", e che per ora non faceva nessun passo legale per il riconoscimento dei diritti di lui e per ottenere l'investitura delle baronie feudali, avuto riguardo alle condizioni di salute di don Raimondo. Avrebbe però condotto il nipote a visitare lo zio, appena questi sarebbe stato in grado di riceverlo. Don Raimondo migliorava: così almeno assicurava don Francesco Pignocco, che lo curava. Il. gran medico, che era anche preside o principe dell'accademia dei medici, aveva tenuto un consulto per esaminare le condizioni del ferito e il parere dei medici era stato unanime nel giudicare che il duca sarebbe guarito delle sue ferite, nessuna delle quali pareva avesse leso organi vitali. Soltanto la ferita al capo dava da pensare. Sebbene non fosse penetrata nella scatola cranica, tuttavia teneva don Raimondo in uno stato di sbalordimento. Egli guardava attonito, senza parlare, o balbettando a fior di labbra parole incomprensibili: qualche volta pareva che un lampo d'intelligenza brillasse nei suoi occhi e che riconoscesse le persone, e allora un senso di terrore, un vivo affanno gli si dipingeva sul viso, ma più spesso egli ricadeva in uno stato di apatia o di stupore senza coscienza del mondo esterno, senza un segno del mondo interiore.

Quel giorno il marchese di Geraci, parendogli ormai tempo, condusse Emanuele nel palazzo dove era nato, e del quale era il vero e assoluto signore. Quando entrò, don Raimondo, con le spalle appoggiate a un monte di guanciali che lo tenevano più sorretto, si trovava in uno dei momenti di coscienza, e aveva balbettato qualche parola più forte e intelligibile. Parve riconoscesse il marchese di Geraci, la cui vista lo conturbò. Il marchese gli si avvicinò al letto e, presentandogli il nipote, gli disse:

"Don Raimondo, non lo conoscete? E Emanuele, nostro nipote Emanuele, il figlio di donna Aloisia..."

Il duca sbarrò gli occhi con aria di spavento; guardò il giovanotto; un vivo tremore gli percorse il volto, si propagò per le membra, la sua bocca pallida e sottile ebbe delle contrazioni nervose, le sue pupille si dilatarono con espressione di terrore che si trasmetteva anche negli astanti; poi, a un tratto, lanciò un urlo spaventevole, terrificante, che squarciò il silenzio, si ripercosse nei cuori con un brivido indefinibile. E tenendo gli occhi fissi sul giovane, poco dopo mandò un altro urlo, più spaventevole del primo, e stendendo innanzi le mani tremanti, in atto di difesa, con uno sforzo nel quale parevano adunati tutti i terrori, tutti gli orrori, gridò:

"No!... no!..."

Violante, spaventata, si fece innanzi, domandando:

"Signor padre... signor padre... che cos'ha?"

Donna Gabriella rabbrividì; soltanto lei indovinava che cosa passasse nell'anima del marito e il cuore cominciò a batterle con violenza, temendo che in quelle condizioni di spirito egli avrebbe potuto lasciarsi sfuggire qualche parola. Il marchese di Geraci, che non capiva bene, disse:

"Don Raimondo... che cos'è?.. Non lo conoscete?... Egli vuole baciarvi la mano."

Ma il duca con le pupille dilatate guardava forse una visione che gli attraversava la memoria ridestata, e che lo empiva di terrore. Un sudore freddo gli riluceva sulla fronte e le sue mani annaspavano nel vuoto!... La sua bocca si mosse, gridò con voce strozzata, che pareva un singhiozzo:

"No!... basta... basta!... Pietà!..," "Signor padre!.." supplicava Violante.

"Non mi toccate!" urlava ancora don Raimondo, la cui lingua si discioglieva; "non mi toccate!..."

Si guardavano tutti con un senso di angoscia. Il principe di Butera disse:

"Che cosa vi sentite?... Don Raimondo, che cosa vi sentite?.."

Egli ora non guardava più nessuno; guardava il fondo della stanza e il suo volto esprimeva un terrore misto a ribrezzo.

"Vengono!..." balbettava con voce spenta. "Vengono!... là!..."

"Chi?"

"I Beati Paoli!... Sono là!... là!... I pugnali!... Ah!..."

Nuovamente quel grido che gelava il sangue di ognuno ferì, squarciò le anime. Si sentivano tutti un senso di freddo e di vuoto nelle reni. Quel nome dei Beati Paoli, quel terrore significante rivelavano la tragedia della quale egli era vittima. Violante, volgendo intorno lo sguardo, come per implorare aiuto, cercò di prendergli una mano per rassicurarlo, ma appena si sentì toccare don Raimondo balzò e mandò un altro urlo ferìno.

"Giuseppico!... Giuseppico!... non la lasciare sfuggire!..."

Quel nome era un mistero per tutti. Donna Gabriella, sospettando, osservò:

"Temo che la vista di quel giovane abbia commosso troppo il duca'..." "Sì, deve essere così," disse il marchese di Geraci.

Si mosse per allontanarsi dal letto; quel movimento di persona forse si confuse nel cervello di don Raimondo con altre immagini e accrebbe il suo terrore. Balzò a sedere sul letto, mettendo i piedi per terra, come per alzarsi, e, tendendo le mani adunche, quasi per ghermire, gridò:

"Afferrala!... Non vedi che scende dal balcone?... Ammazzala... Dov'è? Dov'è andata?... No, no!... non mi uccidete!... L'altro?... s'... Emanuele! dov'è Emanuele?"

"Eccolo, don Raimondo, ma state tranquillo."

Credevano che egli cercasse il nipote, ma gli occhi del duca non vedevano il giovane che gli avevano spinto dinanzi, e le sue orecchie non udivano.

"Dov'è Emanuele?" gridava con la bocca piena di schiuma. Poi, dopo un minuto in silenzio, stridette in una risata lugubre e lacerante: "Ah! ah! ah! mi volevate cogliere?... Capitano!... capitano!... capitano!... eccoveli qua!... Capitano!... Capitano!..."

La sua voce ricominciava a tremare di terrore e di pianto: "Capitano!..."

Chiamò ancora con un urlo disperato di angoscia che annichiliva tutte le anime, vuotava le vene del sangue, arrestava la vita. Ebbe un altro istante di silenzio e, mandato un altro urlo, più acuto, più straziante, più terrificante, ricadde di colpo sui guanciali, rantolando con la bocca piena di bava, e gli occhi spalancati.

Violante, gridando per lo spavento e per il dolore, si gettò sul letto chiamando il padre; donna Gabriella e gli altri stavano immobili, allibiti, come sopraffatti da qualche cosa di orribile, di mostruoso, che sfuggiva alla loro percezione.

In quel momento giunse don Francesco Pignocco che, appena diede una occhiata al ferito, non potè trattenere un moto di sorpresa dolorosa.

"Che cos'è? Perché così in disordine?"

Prese il polso dell'ammalato, osservandolo in volto con stupore sempre crescente; Violante singhiozzava. Il principe di Geraci espose brevemente quello che don Raimondo aveva fatto, e le incoerenze delle sue parole, il suo terrore, il suo accesso.

"Il polso è una vera rivoluzione," disse il medico.

Tentò di sollevare don Raimondo, che teneva il volto affondato sui guanciali e rantolava come una belva ferita, ma appena il duca alzò il viso, e guardò il medico, un furore bestiale gli illuminò gli occhi e afferratolo per le braccia, cercando di morderlo furiosamente, ruggì:

"Ah! ci sei!... ti tengo!... Assassino!... Non dovevi scrivere!..."

Il povero medico, spaventato, si liberò a fatica, lasciando un brandello delle sue maniche fra le mani di don Raimondo, che se lo addentò, lacerandolo con rabbia vittoriosa.

"Ecco quello che ne faccio!... ecco! ecco!..."

Don Francesco, ancora spaventato, guardandolo con stupore, mormorò:

"Questi sono accessi di pazzia!.. Sì, di pazzia!..."

In quel dibattito le bende del capo, quelle delle spalle si erano scomposte; le filacce cadute, le piaghe si erano riaperte; un rivolo di sangue gli corse giù per l'orecchio, gli macchiò il petto; macchinalmente don Raimondo si portò le mani sul collo e sul petto, le ritrasse insanguinate. Le guardò con orrore; i tratti del suo volto si scomposero, dall'orrore passò allo spavento, poi all'affanno, alla preghiera.

"Sangue, sangue!... Le mie mani grondano sangue!... Toglietemi questo sangue; portate via questi morti!...

Pietà!... pietà!... Mi opprimono. mi squarciano il cuore... Ah!... quanto sangue! affogo!... affogo!... affogo!..."

La sua voce andò spegnendosi tra i singhiozzi che gli squassavano il petto e nulla era più straziante che vedere quell'uomo lordo di sangue, con le mani distese come per allontanare qualche cosa di terribile, gemendo fra i singhiozzi che gli laceravano il petto, con gli occhi aridi, esterrefatti.

Don Francesco gli si avvicinò di nuovo per rifargli la fasciatura, ma don Raimondo stridette e riprese a gridare:

"Non mi toccate!... non mi toccate! Tutto sanguina!... Il sangue è dovunque... Un fiume!... E ce ne vuole ancora. Hanno i pugnali e ammazzano... Ammazzano!... Ammazzano!... Dov'è Blasco?... C'è anche lui!... Ecco l'hanno ammazzato!... Sangue!... c'è sangue!... sempre sangue!... sempre sangue!..."

Don Francesco, il principe di Geraci, il principe di Butera cercavano di confortarlo con buone parole; lo persuadevano che non c'era nulla, che egli si trovava in mezzo ai suoi, che stesse tranquillo.

"Don Raimondo, guardate vostra figlia! guardate Violante, poverina!..."

Il duca tacque un minuto, girando intorno uno sguardo stupito, e lo fissò sopra Violante che gli stava dinanzi, piangente.

"Violante!.." singhiozzò; "Violante!... dov'è Violante?"

"E qui; non la vedete?"

"Dov'è Violante?" continuò incalzando e infuriandosi a poco a poco; "voglio Violante!... Voglio mia figlia!... Rendetemi mia figlia!... Violante!..."

"Padre, padre mio!" supplicava la fanciulla.

"Violante!" urlava disperatamente don Raimondo, risollevato a mezzo il letto, con gli occhi perduti nel vuoto, senza riconoscere nessuno, senza udire alcuna parola, fisso in una visione o in un pensiero interiore.

Scoppiò in pianto. Allora il medico disse:

"Io non mi avventuro a rifare le fasce, se non c'è della gente robusta che in ogni caso lo tenga fermo."

Donna Gabriella suonò, e ordinò che venissero quattro portantini e, rassicurato dalla loro presenza, don Francesco Pignocco cominciò l'opera sua. Il ferito continuava a piangere, ora, sommessamente, e lasciava fare con docilità, seguendo, inconsciamente col lieve piegar del capo, o del braccio, il lavoro del medico. Gli lavarono le ferite, gli rimisero le filacce e lo fasciarono di nuovo, più solidamente; poi, spingendolo con dolcezza, lo costrinsero ad appoggiarsi sui guanciali.

"Sarebbe meglio," disse don Francesco a donna Gabriella, "legarlo con fasce al letto, per impedirgli di muoversi: noi abbiamo perduto quasi tutto quello che si era guadagnato..."

"Fate quello che vi consiglia l'arte," rispose la duchessa.

Violante, cui quel provvedimento faceva una impressione dolorosa, si arrischiò a balbettare:

"Ma è tranquillo, adesso..."

"Adesso sì; ma gli accessi torneranno... potranno anche essere più furiosi."

Tastò il polso del ferito.

"Ha la febbre!" disse contrariato; "febbre alta."

Un servo intanto portò delle lunghe fasce, che furono tosto passate, intrecciate fra loro, intorno al corpo di don Raimondo, e assicurate alle sponde del letto, così da impedirgli ogni movimento. Don Francesco prescrisse delle pozioni calmanti, e se ne andò.

"Andiamo, figliuolo," disse allora il principe di Geraci a Emanuele, che se ne stava zitto, colpito da tutto quello che aveva veduto, ma non tanto da perdere il suo atteggiamento superbo, e da non guardare ogni tanto tutti i mobili e le decorazioni della stanza, pensando che era roba sua.

Egli baciò la mano di quella sua zia così giovane e bella, vestita con tanta eleganza, e seguì il nonno, domandandogli perché ancora non gli avessero dato il possesso di quella casa, o almeno non gli avessero concesso di abitarvi.

Il principe di Butera disse a Violante:

"Tu dovresti andare a riposarti, figliuola mia; non potrai rimanere qui giorno e notte;... son già cinque notti che non chiudi occhio; ti ammalerai..."

"Oh, vostra Eccellenza mi perdoni, ma io non abbandonerò mio padre!.."

"Sta bene quello che tu dici; ... e tu non lo abbandonerai, ma il riposo è necessario anche perché tu possa assisterlo." "Aspetti!... scusi... dice qualche cosa..."

Don Raimondo, infatti, moveva le labbra, come se tentasse di parlare. Stava supino, immobile, con gli occhi sbarrati. La barba, che in quei giorni gli era cresciuta, rada e interrotta da lacune, gli metteva sulle guance e sul labbro delle macchie nere, che rendevano più spaventevole il suo aspetto e il livido cerchio in cui gli occhi sprofondavano li allargava smisuratamente.

Il principe e Violante si erano chinati per udire, credendo che domandasse qualche cosa.

"Che dite?..."

Ma egli non rispondeva, seguitava a balbettare; poi a poco a poco le sue parole diventarono più intelligibili.

"Tutti... ammazzateli tutti! ... Bisogna ammazzarli tutti... Anche Blasco! Sì, anche Blasco. Mio nipote? Che importa... Un bastardo!... Anche Emanuele!... Tutto mio! è tutto mio!... No, non mi toccate... Brucio!... brucio!... uno spasimo... Tenetemi la testa, me la portano via!... me la portano via!.."

Tremava per tutta la persona, dentro le fasce, scotendo il letto che dava un sordo rumore metallico; una grande angoscia gli alterava il volto, e pareva che tutte le sue energie si fossero accumulate in quell'ultimo grido di disperazione per fermare il cervello che gli sfuggiva.

"Tenetemi la testa!... non me la fate portar via!... non me la fate portar via!.."

Tutto il giorno e tutta la notte, a intervalli, destandosi improvvisamente dal sopore, egli mandava grida scomposte e belluine, e parole incoerenti, ma che erano la espressione frammentaria di immagini che si succedevano nel suo cervello.

Questo martirio durò due giorni; per due giorni don Raimondo, arso dalla febbre, con le piaghe incancrenite, dibattendosi fra gli accessi della follia, straziato dalle sue visioni di sangue, riempì di sgomento e di orrore la casa. Un'idea soprattutto dominava il suo spirito sconvolto e spesso, contorcendosi fra le fasce di sicurezza, gridava con disperato spavento:

"I Beati Paoli! Salvatemi!... I Beati Paoli!..."

Il terzo giorno, dopo un lungo assopimento, nel quale pareva che le forze vitali venissero meno a poco a poco, egli si destò, senza dare segno di agitazione. Il suo aspetto esprimeva invece un dolore ineffabile e taciturno, come di chi sente appressare la morte. Volendo forse fare un gesto con la mano si accorse che ne era impedito, e sentì allora d'essere cinto e legato. Guardò intorno, vide Violante e domandò con voce fievole:

"Perché mi avete legato?. . fatemi sciogliere!... Che arsura!..."

C'era una così intensa preghiera in quelle parole e tanta remissività nello aspetto, che, dopo essersi tacitamente interrogati con lo sguardo, i servi sciolsero il duca e Violante gli diede da bere.

Intorno al letto allora non c'erano che la figlia, donna Gabriella e due servi; ma in quel momento giunsero il principe di Geraci ed Emanuele. Don Raimondo li vide entrare; vide quel giovane ed ebbe l'impressione che quel volto non gli fosse nuovo; ma la ricchezza dell'abbigliamento e il vederlo in compagnia del principe di Geraci, in sulle prime gli impedirono di riconoscerlo, ma quando il principe gli si avvicinò al letto per domandargli come stesse e fece avvicinare il giovine chiamandolo per nome, don Raimondo con una rapidità e lucidità di mente straordinarie ricordò, capì, connesse quanto era avvenuto con i fatti che si erano susseguiti dopo, e diventò più smorto, e un senso di terrore gli alterò il volto. Balbettò:

"Emanuele!... Emanuele!... Oh Dio! è..."

"È lui, sì;" disse il principe "vuole baciarvi la mano..."

"No.. no..." fremette con una espressione di supremo ribrezzo; "no, abbiate pietà di me... Che orrore!... Che orrore!..."

Chiuse gli occhi un istante, poi li riaprì spaventato, guardò intorno, e con vivo terrore, battendo i denti, gridò:

"Un prete!... un prete!... Abbiate pietà di me!... Un prete, muoio!..."

Un servo si precipitò fuori. Don Raimondo guardava con occhi esterrefatti il nipote, gemendo:

"Perché?... perché l'avete condotto?... Levatemelo dinanzi!... non voglio vederlo... non posso. Ah, che bruciore qui dentro! che bruciore!.."

Si premeva le unghie sul petto con un gesto disperato; sotto le coperte si vedeva il suo corpo dare dei guizzi convulsi e il suo volto aveva degli stiramenti rapidi e strazianti.

"Un prete..." balbettava con terrore; "un prete!..."

Quasi nel tempo stesso il servo ritornò, spingendosi innanzi un papas albanese, che pareva riluttante.

"Ho trovato questo," disse; "l'ho trascinato qui; infine anche i preti greci sono preti come gli altri!..."

Ma il papas si rifiutava:

"No, no... non sono di confessione, non posso... Andate a chiamarne un altro."

La sua voce riscosse donna Gabriella e Violante, e fece aprire gli occhi a don Raimondo; e tutti e tre guardarono il papas, che era rimasto dinanzi al letto, colpito dall'aspetto miserabile del duca, che, vedendolo, cominciò a tremare e a ripetere:

"Che bruciore!... che bruciore!... Datemi aiuto!... Padre, mi dia aiuto!..."

Il papas gli si accostò, e una viva pietà gli si dipinse sul volto. Si chinò sopra don Raimondo, lo guardò, e gli mormorò piano, in modo da non essere udito da altri:

"Che Dio vi perdoni tutte le scelleratezze che avete commesse, come io vi perdono quelle che avete fatte contro di me!..."

Don Raimondo lo guardò con stupore e spavento, e balbettò:

"Confessione!... confessione!..."

"Non posso confessarvi; adesso verrà un padre..."

Si rialzò e si scostò dal letto, mentre don Raimondo con le unghie convulse raspava sulle coperte. Donna Gabriella e Violante guardavano il papas: certo, riconoscevano quegli occhi, quel naso, quella voce ma nel portamento, nel gesto non vedevano per niente quel non so che di ieratico che imprime l'esercizio del sacerdozio. Il papas si sentiva imbarazzato da quegli sguardi investigatori e, forse per sottrarsene, fatto un lieve inchino, si avviò per uscire.

"Se ne va?" gli domandò i.l principe di Geraci; "non mi sembra da cristiano abbandonare un uomo in quelle condizioni; se lei non è confessore, può dare qualche conforto, però..."

Il papas si fermò, stette un attimo in forse, poi con un gesto si tolse la lunga e folta barba, che lo mascherava.

"Don Blasco!" esclamò il principe.

"Blasco!" ripetè stupita donna Gabriella.

Violante impallidì e gli voltò le spalle; Emanuele lo guardò con alterigia, domandandosi chi fosse quel Blasco che si travestiva da prete greco e destava tanta meraviglia, ma constatando che forse aveva veduto altrove quel volto.

Blasco rispose con tristezza:

"Io stesso, sì... Capirete il perché ho dovuto ricorrere a questo travestimento: per informarmi della salute del duca."

Don Raimondo, al nome pronunciato dal principe, aveva guardato il giovane, e s'era sentito invadere da un nuovo tremore più forte.

"Tutti," stridette fra i denti: "tutti sorgono!.."

E nuovamente mandò un grido disperato:

"Brucio!... Mandate per un prete!... Perché... mi fate morire dannato?... Perché?... Non vedete quanti delitti!... Vedo sorgere tutti dal sepolcro... li vedo venire contro di me... sento afferrarmi. trascinarmi... Un prete!... Un prete!..."

Furono le sue ultime parole. Un rantolo convulso gli soffocò la voce. Quando qualche minuto dopo giunse il cappellano di Santo Ippolito, lo trovò con gli occhi semichiusi, col petto affannato da quel rantolo che, a ogni trarre di respiro, aveva il suono lacerante di un singhiozzo; lo prese per una mano, e quegli mandò un urlo, senza dare altro segno; lo chiamò e non gli rispose; quel rantolo e quei singhiozzi empivano la stanza.

Così durò tutto il giorno, tutta la notte. Dapprima, appena toccato, gridava, poi anche queste grida mancarono, ma si vedeva che era agitato e straziato da spasimi terribili. Il rantolo era divenuto più forte, pareva talvolta un gorgoglio, tal altra il rotolare di un corpo pesante; poi cominciò ad affievolirsi di nuovo e a diventare più lungo, e con maggiori intervalli, e i movimenti convulsi cessarono.

All'alba egli morì.