Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte quarta, capitolo 3

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Dopo otto giorni di resistenza, il presidio savoiardo del Castello si arrese a discrezione e la città rimase allora tutta quanta in potere del marchese de Lede, che già aveva fatto il suo ingresso solenne da Vicerè, nella carrozza del Senato, fra le salve dei moschetti e delle artiglierie e vi aveva riordinato il governo. I savoiardi si erano concentrati nelle città forti, come Termini, Messina, Castel Mola, Siracusa, dove si era ridotto, dopo mille peripezie, il conte Mattei.

Le feste di S. Rosalia, cadute in quel torno, non ebbero però nulla di singolare e furono alquanto ridotte da una pioggia furibonda che impedì la processione, ed anche a causa dello interdetto. La lotta fra la curia pontificia e la monarchia di Sicilia, infatti, si era tanto acuita durante quei quattro anni, che gran parte del clero, che parteggiava per il papa, contro ogni diritto era in bando. Mai forse il motto che una piccola scintilla desta un grande incendio fu più appropriato e quel pugno di ceci che il vescovo di Lipari non volle pagare ai maestri di piazza doveva essere cagione di una guerra di rappresaglie e persecuzioni che durò circa otto anni. Giacchè, non ostante fossero stati restituiti i due grani di ceci al vescovo - non per suo diritto, ma per amor di pace, egli, come narrapreteso che l'autorità civile gli domandasse formali scuse e riconoscesse un diritto inesistente; e non essendosi questa piegata, ed essendo stato il vescovo, per la sua irrequietezza, ammonito dal Vicerè - che aveva facoltà di farlo per i diritti inerenti alla corona di Siciliane , nacque un'aperta ribellione. La curia, cogliendo il pretesto per intromettersi in Sicilia, spalleggiò il vescovo e spedì delle istruzioni, che furono diffuse, senza il dovuto permesso della potestà laica, da alcuni vescovi, e da ciò misure contro il vescovo di Catania, poi quello di Girgenti; interdetto e scomuniche, che si estesero a tutta la Sicilia.

Salvo poche eccezioni, il clero, assai diverso da quello d'un tempo, in odio forse al nuovo regime, parteggiò per il papa; il papa mandò scomuniche e brevi e bolle che abolivano privilegi secolari della monarchia e allora lo Stato si armò per difendersi; il re istituì una Giunta della quale facevano parte uomini insigni per dottrina e inflessibilità di carattere e la Giunta impose al clero o la sottomissione all'autorità civile o l'esilio. Acquistare la palma del martirio con una punizione relativamente lieve, o in ogni caso incruenta, parve una bella e facile cosa; la più parte, per non incorrere nelle punizioni canoniche, preferì l'esilio. Strumento della Giunta fu principalmente Matteo Lo Vecchio.

Il birro, guaritosi dal colpo datogli da Blasco sullo stradale di Misilmeri, era tornato a Palermo nel febbraio del 1715 e non aveva trovato più nessuno dei personaggi coi quali aveva avuto da fare. Don Raimondo era morto, Blasco partito, don Girolamo partito, Andrea passato ai servizi dell'erede della Motta, e quindi all'ombra di una famiglia doppiamente potente. Lo stesso Antonino Bucolaro si era eclissato e non si sapeva più dove fosse; i Beati Paoli parevano dispersi, nè di loro si sentiva più nulla; soltanto Coriolano della Floresta conduceva la sua vita irreprensibile e insospettabile.

Matteo Lo Vecchio si vide dunque strappata ogni speranza di arricchire e il segreto di cui egli era divenuto possessore gli riusciva perfettamente inutile: Emanuele era stato riconosciuto, don Raimondo era morto, a donna Gabriella importava poco. Soltanto a una persona poteva interessare che la memoria di don Raimondo non patisse onta, ed era Violante; ma essa era in monastero, era ancora fanciulla, non poteva quindi disporre di denaro per comprare il silenzio del birro e in più era fidanzata di Emanuele.

Arrabbiato per queste contrarietà, il birro si gettò a capofitto nella discordia fra lo Stato e la Chiesa. Nessuno era più abile di lui nello scovare i preti che, per non incorrere nella scomunica, si rifiutavano al servizio religioso; s'era fatto delle liste di tutti i preti, di tutti i frati; s informava se andavano al coro, se intervenivano nelle processioni. Siccome le processioni erano frequentissime, era facile notarne gli assenti; allora egli piombava nelle loro case, come uno sparviero, li minacciava di arresto; se quelli, per vivere quieti e senza molestie, gli davano tanto denaro da contentarlo, egli se ne andava; se si rifiutavano intimava loro l'esilio, li arrestava, li conduceva via per le strade più popolose, e li costringeva a rimanere in una tartana o fuori le porte della città. Spesso coloro che avevano comprato la tranquillità erano il giorno dopo arrestati e subivano una doppia perdita.

Matteo Lo Vecchio aveva sempre le tasche piene di ordini di sfratto, di arresto, di prigionia e se ne serviva largamente trovando nelle querele, nelle lagnanze delle sue vittime una soddisfazione per il suo spirito. E intanto faceva quattrini e se la scialava.

La venuta dell'armata spagnola, la capitolazione di Palermo, l'insediamento del nuovo governo gli avevano troncato la prospera carriera. La Giunta era stata sciolta dal nuovo Vicerè ed erano cessate le persecuzioni; Matteo Lo Vecchio ritornò al suo ufficio di algozino perdendo non soltanto la fonte dei suoi illeciti guadagni, ma anche quel grado di potenza al quale era pervenuto col terrore delle violenze. Egli dunque odiò il ritorno del dominio spagnolo, dal quale si tenne come danneggiato, ma non osò osteggiarlo, nè mostrarsi partigiano del re savoiardo. Si dedicò al suo ufficio apaticamente e per forza di abitudine, aspettando che, per un caso, la fortuna gli passasse vicino per acciuffarla, e trovare nel nuovo ordine di cose una fonte di nuovi guadagni.

Intanto, per abitudine e per non perdere di vista i suoi personaggi, egli spiava la vita di Emanuele, di donna Gabriella, di Andrea, di Coriolano della Floresta. Il giorno dell'ingresso del Vicerè don Giovanni Francesco Sette marchese de Lede, Matteo Lo Vecchio aveva avuto un gran da fare e stava per motivi di servizio presso Porta Nuova, quando entrò il corteo, alla cui testa cavalcava un drappello di dragoni a cavallo con le spade snudate, sui quali, naturalmente, si portò la prima curiosità del popolo accalcato. Matteo Lo Vecchio vide e riconobbe, con suo grande stupore, Blasco nel dragone all'estremità della prima riga, che gli passò urtandolo quasi con la punta del piede.

"Toh, toh!... Chi si rivede!... Ah, sei ritornato, bello mio?.. Adesso faremo i conti. Voglio restituirti il regalo che mi hai fatto... Diamine, sono obblighi che bisogna pagare!...".

S'informò che soldati erano quelli e seppe che erano del primo squadrone dei dragoni di Numanzia.

"Sono sei squadroni di Numanzia, sei di Lusitania, tre di Batavia, tre di Tarragona..."

"Basta, grazie!" interruppe Matteo, spaventato dalla enumerazione particolareggiata degli squadroni, che il suo informatore gli faceva. "Vossignoria sa come è composto l'esercito, a quanto pare..."

"Eh! eh! lo so: trentacinque battaglioni di fanteria, compresi otto di guardie, uno d'artiglieria, ventiquattro squadroni di cavalleria, ventiquattro di dragoni, una compagnia di quattrocento cannonieri e bombardieri, una di minatori, una di maestranza, e cinquanta ingegneri..."

"Misericordia!... come sa tutte queste cose?"

"Eh! eh!... Come lo so? Sono lo scrivano del mastro razionale dell'esercito..."

"Ah!... E... e li conosce vossignoria i soldati? Li conosce tutti?"

"Tutti? ci vuol altro; sono trentamila! I capi sì, quelli li conosco bene..."

"Ma gli stranieri per esempio... quelli di altra nazionalità... non saranno mica molti..."

"Oh, ce n'è... Anche siciliani. L'illustrissimo signor don Domenico Lucchesi, maresciallo di campo, non è forse palermitano?"

"Sì, è vero... ma soldati?..."

"Ce ne saranno una cinquantina di sicuro."

"Anche nei dragoni? Mi è sembrato di riconoscerne uno..."

"Nei dragoni, anche. Il primo a destra, che è passato or ora, è di Palermo, e si chiama il signor Blasco Albamonte..."

"Albamonte?" disse Matteo Lo Vecchio stupito "Albamonte? Ma io lo conosco con altro nome..."

"Che dite?" domandò lo scrivano.

"Proprio come vi dico..."

"Che nome?"

"Oh! capirete bene..."

"Ma dunque è un estradato?"

"Eh! eh!..."

"Scusate; voi dite eh! eh! con una certa aria..."

"Che aria?" domandò Matteo Lo Vecchio facendo un viso da ingenuo, ma affettando a volo il vantaggio che poteva trarre dalla piega presa dal dialogo.

"Un'aria di chi sa molte cose e le vuole nascondere..."

"Io?... Ma io non so niente, caro signor... signor..."

"Alonso Apuente, per servirvi; e voi?"

"Matteo Lo Vecchio, caporale degli algozini, ai vostri comandi..." rispose il birro con sorriso malizioso.

"Benone!... Ecco dunque che dovete sapere molte cose. Caro mio, quando si tratta del servizio di sua Maestà, che Dio guardi, non bisogna tacere... Potrebbe essere qualche malandrino ricercato dalla giustizia..."

"No, non è questo, ma... Insomma, caro signor Alonso, non sono cose che posso dire a voi..."

"Potete dirle, anzi dovete dirle a sua Eccellenza..."

"Sì, sì, è cosa che si vedrà appresso; voi tenetelo o fatelo tener d'occhio, non si sa mai... Deve avere delle pratiche; certamente deve avere delle pratiche... Io lo spero da parte mia, non dubitate. Voi informatevi di tutto quello che fa, e se sarà necessario andremo da sua Eccellenza; mi farete ottenere una udienza speciale... E non temete, chè saprò esservi grato... Diamine quando si può guadagnare onestamente, al servizio del re, che Dio conservi e prosperi, è denaro benedetto. Non è vero, signor Alonso?"

"Verissimo. Ditemi dove abitate, per venire a trovarvi..."

"All'Alberghiera. Domandate di me e ve lo diranno subito."

"Allora addio, signor Matteo."

"Arrivederci, signor Alonso."

Matteo Lo Vecchio, quando lo scrivano del mastro razionale se ne fu andato, si diede una fregatina di mano, per la soddisfazione, e s'avviò dietro il corteo per godersi la funzione, in apparenza, ma in realtà per rivedere Blasco. Egli sapeva che il Vicerè doveva andare alla cattedrale a prendere possesso e a giurare l'osservanza delle costituzioni del regno, dei capitoli e privilegi della città, come volevano le stesse costituzioni e il rito; onde si affrettò, per non rimanere addietro della folla che s'ingrossava e si addensava nel piano della cattedrale, dietro la fila della fanteria, che teneva sgombro il passaggio alla carrozza del Se nato, in cui stava il Vicerè, e al corteo. Egli giunse nel punto stesso in cui, all'atto che il Vicerè giurava, i soldati sparavano a salve e dai bastioni del Palazzo Reale sparavano le artiglierie; e da tutti i baluardi della cinta e dai vascelli della squadra, via via rispondevano le salve empiendo l'aria di un fracasso terribile.

Matteo Lo Vecchio s'appostò all'angolo del Cassaro, così da dominare la strada dell'arcivescovado e la porta maggiore del Duomo; Blasco doveva per necessità venirgli di fronte e passargli accanto; ed egli l'avrebbe veduto a suo agio. Il corteo infatti si mosse col suo squadrone di dragoni alla testa. Blasco era in prima linea: egli era o pareva molto distratto, e i suoi occhi, se pur videro Matteo Lo Vecchio, non lo riconobbero o non ne ebbero perfetta coscienza.

Il birro volle goderselo.

"Ah - diceva fra sè, - dunque vossignoria cambia nome, e veste la divisa turchina dei dragoni di sua maestà, ed ha il coraggio di venirsene a Palermo, come niente fosse, senza pensare che qui avrebbe trovato questo piccolo chiodo, pronto a farle quel servizio; ma benone! I monti non si incontrano, ma gli uomini sì... Adesso ti accomodo io. Prima di tutto bisogna togliersi quel nome, che non ti appartiene, e a questo ci penseremo subito!... Al resto ci penseremo poi... Non dubitare; qui c'è Matteo Lo Vecchio che ha testa e braccia per tutti. Dio sia benedetto! Finalmente ecco una caccia divertente!... Ammazzarti io? Mai più! Ammazzare un soldato di sua Maestà cattolica, che il diavolo se lo porti, è la stessa cosa che farsi fucilare, in questi tempi di guerra".

Così parlando, Matteo Lo Vecchio, lasciata passare l'onda del popolo che seguiva, acclamando, il Vicerè al Palazzo Reale per il ricevimento ufficiale, discese per il Cassaro, fino al piano dei Bologna, dove era il palazzo del principe di Geraci.

Il principe, il principino e il nipote, cioè don Emanuele Albamonte, erano andati a baciare le mani a sua Eccellenza, e non avrebbero ritardato molto, perché ci voleva qualche minuto all'Avemaria.

"Aspetterò dunque che vengano... Desidero parlare all'illustrissimo signor principe... è cosa che lo riguarda."

Si appoggiò a un pilastro, chè ancora il palazzo non aveva il nobilissimo aspetto che ebbe negli ultimi anni del secolo, e aspettò. Suonò l'Ave; si cavò il cappello, si segnò e recitò devotamente la salutazione angelica, come facevano i passanti. Poco dopo una magnifica carrozza, preceduta da volanti e staffieri e seguita da due schiavi mori, entrò nel portone. Matteo salutò profondamente e, dato il tempo ai signori di salire e di fare il comodo loro, fece domandare il permesso di riverire il signor principe e di riferirgli una cosa importantissima.

"A me?" disse il principe; "proprio a me? Che cosa vuole questo scomunicato? O non lo sa che ad ave re da fare con lui si incorre nelle pene canoniche? Non lo ricevo."

Il rifiuto del principe di Geraci era motivato dal fatto che, per la parte attiva spiegata nelle vessazioni contro il clero, Matteo Lo Vecchio era stato colpito dalla scomunica vitanda, per la quale era vietato a ogni fedele di avere qualsiasi tratto con lo scomunicato, incorrendosi nelle stesse pene spirituali.

Matteo Lo Vecchio s'indispettì dentro di sè del rifiuto, ma di fuori serbò l'aspetto mansueto ed umile e disse:

"Sia come comanda sua signoria illustrissima... Però ditegli che venivo per rendergli un grande servizio, per tutela dell'onore del suo parentado, e specialmente del suo nipote don Emanuele."

Se ne andò arrabbiatissimo, non rinunziando però al suo disegno di muovere il principe di Geraci contro Blasco, per l'usurpazione del cognome di Albamonte, e avvalorare le sue denunzie con l'autorità di un personaggio così illustre come il patrizio palermitano. Il principe non l'aveva ricevuto per paura della scomunica? Bene: egli avrebbe avvicinato per via, a passeggio, all'arringo di Villafranca, dovunque, il duchino della Motta e glielo avrebbe detto; e il duchino avrebbe pensato lui a destare i risentimenti e le ire del nonno e le proteste al Vicerè.

Con quest'idea per la testa, per quel giorno se ne andò a casa.

Blasco era assai lontano dal supporre che qualcosa si ordisse e tramasse contro di lui, e non fu senza sorpresa che il giorno dopo si vide per ben tre volte, ora con un pretesto, ora con un altro, fermato dal signor Alonso Apuente, scrivano del mastro razionale dell'esercito che continuava a ronzargli intorno; e più ancora quando il capitano del suo squadrone gli domandò se avesse parenti a Palermo.

"Parenti?... no... Tutti nella gloria di Dio!"

"Amici, almeno, o conoscenti..."

"Forse ne avrò... se ne hanno dovunque... Ne avrò qualcuno a Palermo."

"Procurate dunque che qualcuno che vi conosca venga al campo." "Perché mai?"

"Non occorre dirvelo. Siete soldato; ubbidite."

Blasco non disse più nulla. Salutò militarmente e se ne andò sotto la sua tenda, dove qualche commilitone gli domandò che cosa fosse avvenuto.

"Nulla... Mi volevano promuovere sergente."

"E voi?"

"Ho rifiutato, per bacco!..."

"Oh! oh!"

"Se avessi accettato, non avrei potuto fare la solita partita a calabresella con voi! è chiaro."

Capirono che non voleva parlare e si misero a giocar a carte sopra un tamburo, ma Blasco, ogni tanto, ritornava col pensiero a quelle domande. Perché mai il capitano voleva un suo conoscente? Quella era una novità. Aveva bisogno forse d'essere presentato o l'avevano riconosciuto e denunziato come un estradato? Certo, c'era qualche cosa sotto. Bisognava stare in guardia. Conoscenti poteva darne quanti ne volevano e tutte persone di qualità. Li enumerava mentalmente: il principe di Butera, il principe di Geraci, Coriolano, donna Gabriella... cento altri signori: ma doveva sul serio incomodare qualcuno, senza sapere che cosa si volesse, e se la ragione era comportabile con la sua dignità?

Il giorno dopo il capitano mandò a chiamarlo e gli domandò se avesse avvertito qualche amico.

"Sentite, signor capitano," rispose Blasco rispettosamente, ma con fermezza; "io sono buon gentiluomo quanto qualunque altro cavaliere, che milita anche con alti gradi nella milizia di sua Maestà; e se avessi avuto la somma necessaria, invece di assoldarmi come un semplice dragone, avrei comprato una compagnia o uno squadrone, e sarei vostro uguale... Ora appunto per questo, io vi dico, con tutto il rispetto che vi devo, che non disturberò alcun conoscente o amico, se non saprò che cosa si richieda loro che mi riguardi."

Il capitano lo guardò con cipiglio.

"Sapete" gli disse "che la vostra risposta mi obbligherebbe a mettervi agli arresti per insubordinazione?"

"Non potrei che subire in silenzio la punizione, signor capitano, ma non rimuovermi dal mio partito..."

"Sta bene; ritornate nella vostra tenda e per oggi non uscirete dal campo. Andate."

Blasco ritornò nella tenda, dove i suoi compagni curiosi gli rinnovarono le domande.

"Ebbene, vi volevano ancora promuovere sergente?"

"Oibò! Sergente? Capitano, cari miei, addirittura capitano!"

"E avete rifiutato anche questa volta?"

"Certo, avrei dovuto trattare da inferiori i miei compagni! Vi pare?"

Verso sera, non disponendosi di stanze adatte per prigioni, Blasco fu posto in ceppi, sotto la tenda stessa, e guardato da una sentinella armata di moschetto; la qual cosa sorprese un poco tutto lo squadrone, che voleva bene a Blasco per la sua giovialità, per il suo coraggio e per due o tre colpi di spada distribuiti nei primi giorni del suo arruolamento, per farsi conoscere dai compagni. Quell'arresto improvviso riusciva inesplicabile; supponevano che Blasco ne avesse fatta qualcuna grossa col capitano, ma, in tempo di guerra, privarsi di un buon soldato come lui, via! era troppo rigore.

Blasco prese la cosa filosoficamente; poichè non gli era proibito di bere, di giocare come poteva, di leggere e di scrivere, si fece portare un boccale di vino, un mazzo di carte e l'occorrente per scrivere; e bevve, si divertì un po' a tirare le sorti con le carte come aveva imparato da uno zingaro e poi scrisse un biglietto a Coriolano della Floresta, per dirgli che lo scusasse se non si faceva vivo, giacchè per ordine superiore era stato assalito da una singolarissima podagra che gli impediva di camminare.

La sentinella era un povero catalano, briacone e servizievole che aveva guardato con occhio di innamorato il boccale, e si era sentito stringere il cuore a vederlo vuotare. Per attaccare discorso, domandò a Blasco:

"Scrivete all'amorosa, senor hidalgo?"

"Sì." "hermosa?"

"Bellissima."

"Bueno!... Mi immagino che avete bevuto alla sua salute..."

"È vero, e, per bacco! ho dimenticato di invitarti... Bisogna bere in due, veramente..."

"Sì, veramente, è così... Ma si può ricominciare..."

"Ecco un'idea. Bravo! Vieni dunque a bere, che ce n'è ancora..."

"Volentieri."

Blasco gli offrì il boccale, che era pieno oltre la metà.

"Lo bevo tutto?" domandò il catalano.

"Ma sì! che diavolo!"

Il soldato bevve, facendo gorgogliare il vino in gola, fino all'ultima goccia; poi, deposto il boccale, sospirando di soddisfazione, si forbì la bocca col dorso della mano e ringraziò.

"Buono! vino buono!" disse facendo scoppiettare le labbra. Blasco lo lasciò godere un po' e gli disse:

"Quando smonterai di guardia?"

"Fra un'ora."

"Sta bene; tu mi farai un favore..."

"Due, senor hidalgo..."

"Porterai questa lettera al suo indirizzo..."

"Lettera all'amorosa?"

"Ma che amorosa! è un uomo."

"Vostro parente?"

"No."

"Vostro amico allora?"

"No."

"Diavolo! nè parente nè amico; che diamine sarà dunque?"

"Uno che non conosco, ma che è mio creditore."

"Volete che lo bastoni?"

"Tutt'altro, caro. È una persona meritevole d'ogni riguardo."

"Allora è un'altra cosa. Date qua la lettera... Dove sta questo signore?"

"Questo è difficile a dirti: tu non conosci Palermo..."

"Toh! E non ero forse del terzo di Sicilia, prima che Savoia si pigliasse il regno? Conosco la città."

"Allora è presto fatta. Tutti t'indicheranno il palazzo della Floresta, nella strada Nuova, verso S. Antonino..."

"So. Non dubitate. Debbo aspettare una risposta?"

"Non so; potrebbe dartela. Domandaglielo..."

Dopo meno d'un'ora il catalano smontò; con un gesto del capo e un sorriso rassicurò Blasco che avrebbe eseguito la commissione e Blasco, per ingannare l'ozio, si rimise a tirare le sorti con le carte.

Egli era assai lontano dall'immaginare che quella giornata stessa Emanuele era venuto al quartiere generale per ossequiare il marchese de Lede, e per querelarsi che qualcuno usurpava il nome degli Albamonte, che apparteneva soltanto a lui. Chi si mascherava sotto quel nome aveva forse le sue ragioni, ma non aveva certo quella di attribuirsi un nome illustre nel patriziato, e che suo padre aveva portato splendidamente in servizio della maestà di Filippo IV e di Carlo II.

Il marchese de Lede riconobbe il legittimo risentimento del giovane; promise che avrebbe indagato e accomiatò Emanuele che partì gonfiando le gote e passando attraverso i soldati col pugno sul fianco, con l'aria di un sovrano in collera; mandò a informarsi negli uffici che diremmo oggi di intendenza, se v'era, fra i siciliani che servivano nell'esercito, uno chiamato Albamonte.

Il signor Alonso Apuente, allora, credette di dover mostrare il suo zelo, e domandò il permesso di portare lui personalmente le notizie che sua Eccellenza richiedeva. E vi si recò. Egli raccontò al marchese de Lede quello che aveva saputo dalla bocca di Matteo Lo Vecchio: non era molto, ma bastava a mettere in sospetto; da ciò l'ordine di arresto.

"Andrete a trovare cotesto Matteo Lo Vecchio," gli ordinò il Vicerè, "e me lo condurrete. Voglio interrogarlo io."

Blasco, dopo avere fantasticato un pezzo su quell'arresto, trovando che per una disubbidienza un po' frivola i ceppi erano una punizione troppo grave, finì con l'addormentarsi profondamente con quella sua noncuranza dinanzi ai pericoli, che aveva qualcosa di eroico. Egli dimenticò i ceppi, e soltanto quando, nel sonno, gli avveniva di mutare posizione, si accorgeva di avere le gambe imprigionate ma si riaddormentava subito, seguendo le immagini che volentieri evocava nel silenzio e nella solitudine.

Da quando Coriolano gli aveva dato tutte quelle notizie intorno ai personaggi che più erano entrati nella sua vita, egli pensava a Violante reclusa nel monastero o ad Emanuele; e per quanto egli stesso avesse proposto e propugnato quelle nozze, pure all'idea soltanto del loro avvenimento egli si sentiva stringere il cuore, e pensava con amarezza alla sua condizione. Rapidi pensieri e amarezze ricacciate subito indietro.

"Diventi imbecille, dunque?", si domandava, cercando di pensare a tutt'altro e di addormentarsi.

L'indomani il catalano si fece vedere sull'entrata della tenda, con una faccia compunta, che in tutt'altre occasioni avrebbe fatto ridere Blasco.

"Ebbene?" gli domandò questi.

"Scusate, senor hidalgo... ma non ricordo bene se m'avete data o no una lettera iersera..."

"Come? Se te l'ho data? Ma sicuro!"

"Proprio?..."

"Propriissimo, per bacco!..."

Il catalano fece una smorfia e scosse il capo.

"Se dite così, deve essere vero... Ma allora dove diavolo ho posto la lettera?"

"Non l'hai portata?"

"Dal momento che non sono sicuro di averla avuta, vuol dire che non ho portato niente... Ci vuol poco a capire!"

"Ah, brigante! ringrazia il tuo santo che non posso scaraventarti questi ceppi sulla testa..."

"Non vi scomodate, senor hidalgo. Certamente non l'ho fatto apposta... Ma l'oste aveva un vino maledetto..."

"Che oste?"

"Scusate! sono andato a bere, perché avevo la gola asciutta: e, guardate un po' più bevevo, e più... si asciugava... Se avevo la lettera, avrò dovuto certamente smarrirla... Non potreste rifarla?"

"Vattene; non ho bisogno di te. Quando mi leveranno i ceppi ti mozzerò le orecchie! vattene!..."

Il catalano se ne andò grugnendo, mentre Blasco, cedendo al dispetto, se la prendeva con la sua cattiva stella.

"Bisognerà cercare qualcuno meno briacone," pensò.

Ma poco dopo il mezzodì, invece di trovare il buon amico, vide entrare nella tenda un sergente, il quale gli tolse i ceppi senza dire una parola.

"Ah, finalmente!" esclamò Blasco, rannicchiando le gambe intorpidite nell'immobilità, e rialzandosi in piedi; "vi assicuro che non è molto comoda quella posizione!..."

"Scusate," disse il sergente, cavando da una tasca una catenella con due anelli "ma, invece delle gambe, ho l'ordine di legarvi le mani..."

"A me?..."

"Proprio. Guardate."

Gli indicò l'ingresso della tenda, e soltanto allora Blasco si accorse di un picchetto armato di alabarde, che aspettava fuori.

"Sono dunque in arresto?"

"Pare. È ordine di sua Eccellenza. Che cosa avete fatto dunque?"

"Io? Se lo sapessi!..."

"Via! a chi volete darla a intendere?"

"Quando vi dico che non lo so, bisogna credermi, per dio!..."

"Se volete, vi crederò... ma qualche cosa ci ha da essere, perché non si arresta un soldato per nulla, corpo d'una bomba!"

Così dicendo gli aveva legato solidamente i polsi e, reggendo un capo della catenella, aggiunse:

"Su, da bravo! e non fate resistenza..."

Ma Blasco era così sbalordito da quell'arresto, che mutava i ceppi in una prigionia in piena regola, da avere per il capo tutt'altro che una resistenza. Forse, se si fosse trovato solo col sergente e coi quattro uomini in qualche strada solitaria, non ci avrebbe pensato due volte, e non si sarebbe fatto porre le manette; ma, in mezzo al campo, la fuga sarebbe stata impossibile, e tentarla una vera pazzia. Bisognava ubbidire, anche per avere la chiave del mistero.

Vide che lo conducevano al casino Sperlinga, dov'era il comando generale.

"Il Vicerè, -- pensò forse vorrà interrogarmi".

Ma s'ingannava; invece lo chiusero in una stanza a pianterreno, che aveva una finestra sulla villetta, munita di grosse sbarre di ferro.

"Sono dunque in prigione!... disse fra sè; - ma almeno sapessi perché!... Manco male, però, perché potrò, se non altro passeggiare...".

E si mise infatti a passeggiare per lungo e per largo nella stanza, che non era poi molto grande, canticchiando, e guardando fuori della finestra, quando nel passeggiare, si volgeva da quella parte. In una di queste volte vide delle figure dietro l'inferriata della finestra, e si fermò; ma tosto il suo viso espresse la più grande meraviglia, anzi uno stupore, uno sbalordimento, come alla vista di cosa non soltanto inaspettata, ma anche incredibile. Erano il capitano dello squadrone, il signor Alonso Apuente e Matteo Lo Vecchio, che egli credeva morto.

"Lui!" esclamò; "lui!..."

Il capitano domandò al birro:

"Riconoscete dunque quel soldato?"

"Illustrissimo, sì: è un certo Blasco da Castiglione, su cui pesa una taglia, come affiliato alla setta dei Beati Paoli, e per diversi delitti compiuti..."

"Ah, cane!" gridò Blasco, a cui quelle parole rivelarono tutto, ma subito scoppiò in una risata che sconcertò il capitano e Matteo Lo Vecchio "Ah! ah! ah!... Blasco da Castiglione? affiliato eccetera eccetera!..."

"Tacete!" ordinò il capitano, "e pensate ai casi vostri. Che cosa avete da dire in contrario?..."

"Nulla, signor capitano, salvo che questo: io sono don Blasco Albamonte, dei duchi della Motta, e costui è un brigante al quale la forca stessa sarebbe di grande onore..."

"Vedremo chi tirerà calci al vento, bello mio!" disse il birro imbaldanzito dall'inferriata e dalla presenza del capitano. Ma il capitano lo respinse indietro minacciandolo aspramente:

"Taci, cialtrone; dopo tutto egli è per ora un soldato di sua maestà. Via!"

Se ne andarono, lasciando Blasco tra lo stupore, la collera e il dispetto. Egli si spiegava tutto: il birro l'aveva incontrato e l'aveva denunziato, e doveva aspettarsi un giudizio con tutte le sue conseguenze, se non giungeva opportuno qualche aiuto potente. Certamente la prospettiva di morire per mano del carnefice non aveva nulla che lo attraesse e che potesse esaltarlo.

Passò quel giorno sperando di essere interrogato per difendersi, e prima di tutto per chiarire l'equivoco; ma, salvo la sentinella, che sentiva passeggiare dietro la porta e il soldato che gli portava il desinare, non vide altri. Bisognava uscire da quell'impiccio. Più d'una volta gli era venuto per la testa di afferrare il soldato, imbavagliarlo, legarlo, levargli i la chiave, aprire la porta, gettarsi sulla sentinella e disarmarla, e darsi alla fuga per la campagna, ma siccome era in tempo di guerra, gli pareva una cosa che avrebbe potuto disonorarlo e respingeva la tentazione.

"Aspettiamo ancora!" diceva fra sè.

Pareva che l'avessero dimenticato e probabilmente il Vicerè, occupato com'era per l'assedio del Castello che ancora andava per le lunghe e per le notizie che giungevano da Caltanissetta e da Girgenti, non pensava più a Blasco. Gli bastava essersi impadroni to di lui, e al resto si sarebbe pensato dopo. Chi ci pensava sempre invece era il signor Alonso Apuente, al quale premeva guadagnarsi la taglia.

Egli andava di proposito a trovare il capitano per informarsi se il prigioniero era stato interrogato e per insinuare sospetti e pericoli. Aveva saputo tante storie di quella setta dei Beati Paoli, che non si sarebbe meravigliato punto se un bel giorno avessero trovato la stanza vuota. Era meglio sbrigare il processo; che bisogno c'era di aspettare? La testimonianza dell'algozino, che era un ufficiale della giustizia, doveva bastare; e poi non e era il bando?...

Ma il capitano non gli dava retta; anzi un bel giorno gli disse chiaro e tondo che l'aveva seccato e che s'impicciasse d'altro; ragione per la quale il degno signor Alonso pensò di sostituirsi al magistrato, e di cominciare per suo conto a raccogliere gli elementi del processo, con la speranza di formulare una accusa precisa e particolareggiata. E ritornò alla prigione di Blasco, dalla finestra, con l'aspetto di chi è preso da un vivo interesse e da rincrescimento.

"Buon dì, signor dragone; ebbene, che si fa?"

Era una domanda sciocca, ma non trovava di meglio per attaccare discorso. Blasco in quel momento passeggiava; voltatosi subitamente e riconosciuto lo scrivano del razionale, disse:

"Lo vedete: passeggio."

"Povero giovane!... Non potete immaginare quando mi dispiaccia vedervi costì!..."

Blasco alzò le spalle e pensò che il signor Alonso doveva sapere qualche cosa, perché era venuto con Matteo Lo Vecchio; senza rispondere alla condoglianza, domandò evasivamente a che punto era l'assedio.

"Si stanno piantando le batterie a Porta S. Giorgio, per battere il Castello da vicino, ma non è questo che dovrebbe premervi. Sapete che l'avete fatta grossa?"

"Che cosa?" domandò Blasco. "Lo sapete voi? Io non lo so."

"Andiamo; mentire il nome non è per capriccio; e poi, avete sentito? Beati Paoli, bando, taglia... ce n'è abbastanza per farvi fucilare!... Bisognerebbe trovare il modo di salvarvi, santa Vergine del Pilar!..."

"E chi dice che io mentisca il mio nome?..."

"Toh! non l'avete sentito? Quell'algozino... Egli conosce il vostro vero nome; e poi, non è venuto il duchino della Motta a protestare che non vi sono altri Albamonte fuori di lui?..."

"Ah! il duchino?..."

"Precisamente!... Vedete bene, dunque, che tutto depone contro di voi..."

Blasco non gli rispose; si sentiva il cuore stretto: suo fratello era dunque venuto a sconfessarlo, forse senza saperlo, senza sapere quello che significava la sua protesta. La delusione era così amara che per un istante egli rimase in silenzio, cogitabondo e triste: cosa che il signor Alonso, il quale credeva di possedere un grande acume, interpretò come lo smarrimento di chi si vede colto in fallo. Ne fu soddisfatto e riprese:

"Vi daranno la tortura per sapere quali delitti avete commesso... Una cosa orribile! Potreste evitarla confessando spontaneamente... Scusate se oso darvi un consiglio, ma è per l'interesse che mi ispirate."

"Grazie, se sarà il caso ne approfitterò, ma..."

"Ma?"

"Voi siete un buon amico, non è vero?"

"Non dovete dubitarne."

"Bene. Dunque dovreste dirmi press'a poco di che cosa mi si accusa... per sapermi regolare, non per altro..."

"Eh!... veramente... accuse precise non saprei dirvene. Voi le avete udite; l'algozino sostiene che avete fatto resistenza alla giustizia e avete cercato di ammazzare lui..."

"Ah! voi bene. Grazie, amico."

"È vero?"

"Che cosa?"

"Quello che ha detto l'algozino."

"E volete saperlo da me?"

"Diamine! chi volete che lo sappia? Non lo so neppure io... Via!..."

"È come vi dico..."

Il signor Alonso capì che non c'era da cavare nulla.

"Se vi occorre qualche cosa," disse, "parlate liberamente."

"Nulla, grazie... cioè, sì, per esempio se ci fosse qualche taverna qui presso vorrei desinare alla mia maniera e col mio gusto."

"Potete farlo... Al campo ce ne sono almeno mezza dozzina che hanno costruito delle baracche... le avrete viste."

"È vero. Allora, col permesso del signor capitano, fatemi il favore di farmi venire un oste, il primo che vi appaia più pulito..."

"Sarete servito. Che Dio vi guardi, signor dragone."

"Dio v'accompagni, signor scrivano."

Qualche ora dopo un soldato spagnolo entrò con un giovane, il cui grembiale attorcigliato intorno ai fianchi rivelava subito il mestiere. Il soldato disse in spagnolo:

"Avete domandato un oste?... eccovelo..."

Blasco guardò il giovane con curiosità e fece con gli occhi un gesto impercettibile, intanto che si toccava la fronte. Gli parve che il giovane ne provasse una certa impressione, e allora gli domandò:

"Di che quartiere siete?"

"Del Capo..."

"Ah?... e, chi c'è 'nto puortu?"

Il giovane fece un viso attonito, e rispose:

"Calia. Vossignoria dove è nato?"

"Alla Concuma?"

"Dunque, diciamo: un buon piatto di maccheroni... e vai dal Guardiano.... una fetta di manzo.... gli dirai che c'è uno della colleganza attapanciato... del formaggio, delle pesche e del buon vino... ma presto, e del pane col muzzica surda."

"Vossignoria sarà servita, come si merita."

Quando il giovane andò via, Blasco, rimasto solo, si mise a saltare stropicciandosi le mani; il rumore richiamò l'attenzione della sentinella che stava dietro la porta, la quale, non sapendo che cosa fosse, chiamò il sergente: il sergente aprì e, stupito che Blasco fosse così allegro, gli domandò:

"Che cosa è stato? Che vi prende?"

"Nulla, signor sergente; provo un ballo, un nuovo ballo paesano, sorprendente e graziosissimo, Giudicherete voi stesso..."

"Siete un bel matto!"

Quando il garzone tornò poco dopo mezzogiorno con una cesta, dalla quale si sprigionava una fragranza appetitosa, bastò un'occhiata per intendersi con Blasco, il quale aspettò che il soldato e il garzone se ne andassero per prendere, prima d'ogni altro, il pane e spezzarlo. V'era dentro ingegnosamente celata, una piccola lima triangolare, che egli andò a nascondere dietro il pagliericcio. Soddisfatto e lieto mangiò col più grande appetito, aspettando il compimento della commissione affidata al garzone.

"Vedremo come finirà; ma, in ogni caso, caro signor Vicerè, Blasco non si lascerà impiccare nè da voi, nè da altri.".