Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte quarta, capitolo 4

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Coriolano della Floresta da parecchi giorni non vedeva Blasco; dapprima aveva supposto che egli fosse trattenuto dalle necessità della guerra, ma il silenzio prolungato gli fece sospettare che qualcosa di sinistro dovesse essergli accaduto e s'era messo a indagare, ma in quei giorni non gli fu possibile penetrare nel campo, per gli ordini rigorosi che erano stati impartiti.

Una sola sicurezza aveva avuto, visitando gli ospedali, che Blasco non era ferito; poi aveva potuto anche sapere che il primo squadrone dei dragoni di Numanzia non si era mosso dal campo.

Non c'era che una via sicura: domandare notizie al maresciallo Lucchesi, che abitava nel palazzo dei suoi parenti, allo Spasimo; ma quando si apparecchiava a farlo, ricevette la notizia che "uno della Cuncuma, asso di spate del mazzo di tre cori, era attapanciato in una cuba". Non dubitò che si trattasse di Blasco, e senz'altro andò a fare visita al maresciallo di campo.

Le sue prime parole, appena fatto il nome di Blasco, stupirono Coriolano.

"Mentisce il nome? Come lo mentisce?"

Il maresciallo gli disse quello che aveva udito delle accuse e delle testimonianze di Matteo Lo Vecchio e della protesta di Emanuele. Coriolano ascoltò sorridendo e disse:

"Posso assicurare vostra signoria illustrissima che il dragone, mio vecchio amico, si chiama effettivamente don Blasco Albamonte, ed è figlio naturale del fu duca don Emanuele..."

"Come? Che dice vostra signoria?"

"La verità. Posso recarle due altre testimonianze autorevolissime a conferma di quello che dico e sono i principi di Butera e di Geraci..."

"Ma dunque quel dragone è un vero gentiluomo?"

"Proprio così..."

"Oh, lasci fare a me... Se non altro, fino a che non si vedrà come vada quell'altra faccenda del bando, bisogna dargli una prigione conveniente. In fondo egli non ha commesso nulla contro l'onore militare e la maestà di Filippo V, nostro signore... Si tratta di vecchie accuse e di bandi del cessato governo, che non ci riguardano..."

"Benissimo. Vostra signoria ha posto la questione nei suoi veri termini. E poi, assicuri sua Eccellenza che in tutto l'esercito non troverà un altro nè soldato, n.è ufficiale che possa stare alla pari di don Blasco Albamonte... Lo provino in una impresa arrischiata e vedranno."

"Sono contento di quanto mi dice, e la ringrazio della sua visita."

La sera di quel giorno, mentre Blasco, zufolando per non far sentire rumore, si apparecchiava a segare l'inferriata, si aprì la porta della prigione e il sergente lo chiamò:

"Su, dragone, mutiamo alloggio... Bisogna dire che avete delle conoscenze. Andiamo!"

"Dove?"

"In città..."

"Eh?..."

"Sissignore.

Il signor dragone andrà ad alloggiare nel quartiere di San Giacomo..."

Blasco credette che scherzasse, ma quando vide dinanzi alla porta d'ingresso una portantina circondata da guardie armate di moschetto temette che lo scherzo fosse un feroce sarcasmo.

"Chi sa dove mi portano" disse impensierito e si guardò intorno per vedere se era il caso di tentare il colpo, ma si rasserenò, quando scorse il garzone della taverna che gli faceva dei cenni significativi con gli occhi, come a dire: "vada pure e stia tranquillo, è opera nostra".

Effettivamente la portantina, percorse le vie esterne, entrò in città da Porta Nuova e s'avviò per il vicino quartiere degli Spagnoli, intitolato a S. Giacomo, dove si trovavano le stanze degli ufficiali e un buon presidio. Accanto alla chiesa v'era un edificio, al cui pianterreno si trovavano le prigioni per i soldati e nelle stanze superiori quelle per gli ufficiali, nelle quali il prigioniero non mancava di certi agi che mitigavano il rigore della segregazione. Blasco vi fu accompagnato.

"Meno male, - pensò - qui si sta meglio e sarà possibile vedere qualche faccia da cristiano."

Egli passò la notte tranquillamente, aspettandosi qualche novità e confidando nella buona fortuna.

Coriolano intanto era andato a trovare il principe di Butera e quello di Geraci, ai quali aveva esposto il caso di Blasco; il principe di Geraci si meravigliò del passo fatto da Emanuele a sua insaputa e ne domandò spiegazioni. Il giovane confermò il fatto.

"Crede vossignoria compatibile col mio onore permettere a un avventuriero ricercato dalla giustizia chi sa per quali birbanterie di usurpare il nome degli Albamonte?"

"E se non usurpasse nulla? Se avesse il diritto di portare quel nome?"

"Ci sono forse altri Albamonte?"

"C'è tuo fratello, ragazzo mio; naturale, lo so, ma sempre fratello e maggiore di te; ed è precisamente don Blasco, che tuttavia non si serve del suo nome per domandarti, in memoria del padre, le briciole che cadono dalla tua tavola..."

Emanuele guardava stupito il nonno: non avrebbe mai immaginato l'esistenza di questo fratello, ma non provava nessun rimorso o rincrescimento d'essere andato a protestare contro di lui.

"Infine," arrischiò "non è legittimo e non può riconoscersi con un vero Albamonte, e ha commesso dei delitti."

"Taci, tu non sai quello che dici; sei un ingrato. Dovresti imparare qualche cosa da tuo fratello."

Il vecchio signore se ne andò dal Vicerè servendosi della sua qualità di Grande di Spagna per avere il diritto non soltanto di entrare senza fare anticamera, ma anche di tenere il cappello in capo dinanzi ai re e testimoniò in favore di Blasco. Il Vicerè che aveva già ricevuto le prime notizie dal maresciallo Lucchesi ne fu impressionato. Obiettò:

"Ma c'è la denunzia di quel birro, Lo Vecchio, se non sbaglio, e c'è il bando..."

"Il bando," osservò con sottigliezza il principe, "colpisce Blasco da Castiglione, non già don Blasco Albamonte, che ha l'onore di servire nell'esercito di sua Maestà. E quanto al birro Matteo Lo Vecchio è dovere mio avvertire vostra Eccellenza che è colpito dalla scomunica vitanda..."

"Come!" esclamò il marchese de Lede, "è uno scomunicato vitando? E io l'ho ricevuto?"

"Vede, vostra Eccellenza? Egli non può testimoniare, non può giurare, non può essere ammesso nella comunità cristiana... E un birbone matricolato!"

Il Vicerè, nella sua coscienza superstiziosa di spagnolo fanatico, parve fortemente impressionato da quella notizia, che nell'animo suo poteva più che le assicurazioni in favore di Blasco.

"Grazie, signor principe, grazie; darò gli ordini opportuni; già gli avevo fatto mutare prigione. Lo rimetterò in libertà e seguirò il consiglio del maresciallo: lo manderò all'assalto del Castello di Termini; se veramente è un valoroso e compirà qualche bel gesto, guadagnerà la grazia di tutte le sue colpe; se cadrà, non ci sarà più bisogno di ricercare il suo passato. La sorte avrà fatto giustizia. Che ne dice vostra Eccellenza?"

"Non posso che ammirare e lodare la sua saggezza."

Così ebbe termine la prigionia di Blasco che, appena fuori, corse ad abbracciare e a ringraziare Coriolano.

Il giorno stesso che egli uscì di prigione, il Castello, cannoneggiato vigorosamente dagli spagnoli e debolmente difeso, alzò bandiera bianca e dovette arrendersi a discrezione; era il 15 di luglio, primo giorno delle feste di S. Rosalia e la grazia di Blasco coincise con due avvenimenti che potevano parerne le occasioni.

L'indomani, durante la cavalcata che i signori facevano nel Cassaro, in onore della "Santa" con l'intervento del Vicerè, Matteo Lo Vecchio incontrò con sommo stupore Blasco in compagnia di Coriolano e non voleva credere agli occhi suoi.

"Come? Libero? Fuori? Che cosa significa?".

Ma il suo stupore crebbe, quando, corso a cercare il signor Alonso Apuente, non fu ricevuto, e sentì che sua Eccellenza, avendo saputo che egli era scomunicato vitando, aveva dato ordini che non fosse ricevuto da alcuno. Mordendosi le mani per il gran dispetto, il birro se ne tornò come un cane bastonato, giurando in cuor suo che gliel'avrebbe fatto pagare cara in un altro modo.

"Questa è tutta opera del cavaliere della Floresta! - pensò. - Bisogna cominciare da lui. Ah! è così che si tratta? Ma la vedremo!... signor cavaliere, la vedremo...".

Egli si sentiva forte dell'appoggio della Giunta eletta da re Vittorio per la controversia con Roma, della quale era stato l'esecutore più spietato e feroce ma quello stesso giorno un decreto del Vicerè aboliva la Giunta, accennando così a un nuovo orientamento della politica ecclesiastica. Questo fu un colpo per Matteo Lo Vecchio. Ormai tutti si volgevano al nuovo sole e pareva che cercassero di far dimenticare i servizi resi al monarca sabaudo, per essere assolti dalla scomunica e riavere grazia e uffici nel ripristinato dominio spagnolo; e il birro sentì che rimaneva solo, senza appoggi, senza protezione. Non c'era che gettarsi risolutamente sotto le nuove bandiere: cosa che non gli ripugnava per nulla, giacchè, nella sua qualità di birro, egli, come del resto le sbirraglie di tutti i tempi e di tutti i luoghi, si adattava benissimo con qualunque regime e con qualunque politica; e avrebbe inferocito contro i membri della Giunta con la stessa ferocia con cui prima aveva inferocito contro i preti disubbidienti.

Il Vicerè partì il 16, con l'armata, alla volta di Messina, per espugnare quella piazzaforte, dando le sue disposizioni per l'assalto del Castello di Termini, destinandovi fra gli altri il primo squadrone dei dragoni di Numanzia e affidando il comando al tenente generale conte di Montemar.

La partenza di queste truppe non sarebbe avvenuta prima di otto giorni e Blasco ne approfittò per rivivere un po' la vita di quella città, nella quale aveva provato tante e così diverse emozioni.

La città, libera da ogni rumore di guerra, aveva ripreso il suo aspetto ordinario; a sera la passeggiata della Marina s'empiva di carrozze e di portantine, e i musici nel bel palco che vi era stato eretto nel 1681 suonavano i pezzi delle opere più in voga. Allora la passeggiata conservava le sontuose decorazioni che vi erano state fatte sotto il governo del vicerè conte di S. Stefano, dal principe di Valguarnera, pretore, nel 1687. Di qua e di là del palco o "teatro" dei musici, di un barocco non privo di leggiadria, vi erano due fontane, una delle quali fattavi innalzare dal Vicerè Marcantonio Colonna, che nella fivota della Sirena aveva voluto ritratta la bellissima donna Fufrosina Corbera, baronessa del Misilindino, sua amante; l'altra v'era stata trasportata dalla Fieravecchia. La cortina che si stendeva fra Porta Felice e il baluardo del Tuono, che sorgeva presso Porta dei Greci, era stata dipinta e vi si era aggiunto un portico di colonne marmoree, e sotto ogni arco una statua a chiaroscuro, rappresentante una virtù o una divinità, il cui nome le si leggeva ai piedi. Ed erano trentanove: cominciavano dalla Prodigalità e finivano con le tre virtù teologali.

Sul fastigio della cortina fu costruita una balaustrata di pietra, interrotta da plinti che servivano di base a statue; ed erano venti statue di calcare imbiancato, rappresentanti venti re di Sicilia da Guglielmo II a Filippo IV, esclusi Ruggero II e Guglielmo III e fra un re e l'altro una piramidetta fra due palle, sormontata da una palla più piccola in cima. Fra la fontana di Marcantonio Colonna e Porta Felice era stata innalzata la statua di Carlo II, e forse vi sarebbe stata elevata anche quella di Vittorio Amedeo, se il suo regno fosse stato più lungo e più prospero.

Certo, questo tratto fra la bellissima monumentale porta e il baluardo, così decorato e ornato, doveva dalla parte del mare dare una impressione di magnificenza e coloro che l'avevano ideata non pensavano certamente che la furia devastatrice degli uomini, unita a quella del tempo, avrebbe senza ragione sostituito alle pitture un muraglione a bugne di stucco, avrebbe lasciato consumare tutte quelle statue e, trasportata altrove la fontana di Marcantonio Colonna, l'avrebbe poi venduta per brecciame... Non pensava che si sarebbe tolto alla passeggiata quel suo carattere monumentale e sontuoso, che la rendevano, in quel tempo, veramente unica.

D'estate essa era il ritrovo più gradito della popolazione d'ogni ceto, che v andava, come va tutt'ora, a godervi il fresco e la musica; e in quei giorni, quasi per rifarsi dell'astinenza forzata durante il bombardamento del Castello, era più affollata del solito. Blasco ci si era recato e, fermatosi dinanzi l'inferriata che circondava la statua di Carlo II, guardava i magnifici equipaggi che, venendo da Porta Felice alla Marina, gli passavano dinanzi. Alle livree dei volanti e dei lacchè, ai colori degli scudi, riconosceva a chi appartenevano; qualche volta erano suoi conoscenti ed egli li salutava con bel garbo, sorridendo al loro stupore nel riconoscerlo sotto le spoglie di un dragone turchino. Dei signori a cavallo, seguiti da staffe, passavano; Blasco li nominava a uno a uno; c'erano fra essi antiche conoscenze, con le quali s'era incontrato nei grandi saloni o a tavolino da giuoco al tempo in cui accompagnava donna Gabriella; e quel tempo, che gli pareva così lontano, gli rifioriva ora nella memoria, con quel senso di malinconia che è pure una delle dolcezze della vita.

E pensava al suo stato. Che cos'era egli? Un povero soldato, senza avvenire, senza speranze, che appena degnavano d'uno sguardo. Vero era che, per le abitudini contratte, la sua uniforme non era lacera e sudicia come quella degli altri soldati, e che all'aria, ai modi, aveva qualcosa che lo distingueva e che rivelava la sua origine; ma nondimeno era sempre un soldato, null'altro che un soldato senza nome che quei signori non guardavano neppure.

Non si doleva di questo, nè sentiva alcuna invidia, ma non poteva impedire che una certa amarezza gli salisse alla bocca e provasse una specie di malcontento di sÈ. Oh! era stato assai più contento prima, quando, ignorando la sua origine, nè avendo assaporato la vita di quella società ricca e galante, egli viveva giovialmente, come un uccello che va cercando nei campi il cibo; e non sapeva che cosa fossero le lacrime! Ora aveva tentato di ritornare a essere quello di prima, ma invano; chè un nuovo strato di me morie, di dolori, di desideri, di gioie si era sovrapposto a quello antico, e così impermeabile, che questi non giungevano a romperlo, per rifargli o restituirgli lo spirito.

Gli apparivano nella mente le immagini che meglio si associavano allo spettacolo, cui assisteva.

Donna Gabriella!

Oh, le passeggiate in carrozza, soli! E quella corsa di notte, per le strade esterne, quando ella gli si gettò fra le braccia, palpitante di passione e fremente di desiderio!... Ma dietro di lei gli appariva il volto pensoso e grave di Violante. Egli non l'aveva mai dimenticata, pure sforzandosi di non pensare a lei; e non poteva ricordarla senza un rimpianto. Talvolta si domandava quale demone gli avesse ispirato quella pessima idea di proporre e caldeggiare il matrimonio di Violante con Emanuele, invece di seguire il consiglio e l'idea di Coriolano della Floresta: forse a quell'ora egli non sarebbe stato un dragone turchino, solo, appoggiato a una delle lance dell'inferriata; sarebbe stato felice.

Ricordava di essersi separato dalla fanciulla senza scambiare una parola, senza rivederla, senza neppure un saluto: ella doveva avere già diciotto anni, e certamente s'era fatta donna e più bella... Ah sì, doveva essere più bella! Un desiderio segreto di rivederla gli empiva l'anima di tormenti, ma la legge che egli si era imposto gli vietava di fare un passo per contentare il suo cuore.

Intanto che l'anima gli dolorava dentro fra queste immagini, i suoi occhi seguivano il via vai delle carrozze e delle portantine; avrebbe veduto qualcuno: Coriolano, per esempio. Invece vide passare il principino di Iraci, più grasso, quasi paffutello, dentro la sua carrozza, con una giovane signora accanto, per la quale forse stava con maggior sussiego. Poi vide più piccino ancora, più sparuto, con un giamberghino ragnato e un bastoncello in mano, Michele Barabino e non osò chiamarlo, per la pietà che destava, così povero e avvilito, non potendo dargli nessun soccorso. E quasi nel tempo stesso vide Emanuele, suo fratello. Avanzava a cavallo, con un pugno sul fianco, la testa alta, l'aspetto superbo, vestito di una stoffa di seta elegantissima, con ricchi pizzi alle maniche, gemme ai bottoni, diamanti nelle fibbie delle scarpe. Lo staffiere che lo seguiva a cavallo indossava la livrea di casa Albamonte, verde con galloni di oro su cui ricorreva lo scudo inquartato verde e nero in due quarti opposti, a fasce alternate verdi e nere negli altri due.

Se sdegno, dolore, rammarico gonfiasse il cuore di Blasco al vederlo, egli non sapeva spiegarselo: era un sentimento indefinito, nel quale però non entrava l'affetto. Egli non amava quel ragazzone, al quale non lo legava nessuna consuetudine di vita, nessun dolce ricordo, nessun obbligo; lo aveva difeso, lo aveva protetto, gli aveva anche preparato quella felicità che supponeva inarrivabile e insuperabile, le nozze con Violante, ma più per un ideale di riguardo al nome, per una specie, forse, di vanità incosciente che per amore. Emanuele gli appariva antipatico; non l'odiava, ma sentiva per lui una certa repulsione.

Lo seguì un pezzo con gli occhi, poi lo perdette di vista, confuso tra la folla, che, vista da quel luogo, pareva fitta e tumultuosa.

Il cielo s'era fatto grigio, e Capo Zafferano pareva coperto di cenere. L'acqua del mare aveva preso un colore di seta acciaio, con dei riflessi cangianti. Non v'era più un raggio di sole nell'aria. La notte giungeva. A un tratto squillarono le campane dell'Ave, e da cento punti diversi e opposti i rintocchi si propagarono intrecciandosi, sì che tutta la città parve chinarsi sotto quegli squilli: e allora tutta quella folla a piedi e a cavallo, tutte quelle carrozze si fermarono, le teste si scoprirono, si inchinarono, per l'aria corse il bisbiglio di migliaia di bocche che recitavano la salutazione; poi fu uno scambio di saluti: "buona notte, santa notte, mi benedica", e la vita, dopo quella breve interruzione riprese il suo moto agitato e tumultuoso.

Già i musici, chi avevano compiuto il loro dovere (allora il concerto musicale aveva luogo nelle ore del tramonto), se ne tornavano a casa con gli strumenti sotto il braccio e la folla dei borghesi e dei popolani, non avendo più nulla da udire, li seguiva riversandosi come una fiumana nello stretto varco di Porta Felice, dispersa, respinta, sbandata spesso dalla voce dei volanti che precedevano le carrozze, e dalle carrozze che col fragore delle ruote enormi e ferrate pareva dicessero: "largo ai signori!...".

Blasco non si mosse: l'ombra lo avvolgeva e rendeva confusi e incerti i contorni del suo volto; al lume delle torce dei volanti, che s'andavano accendendo, e che egli vedeva agitarsi sopra la folla, riconosceva i signori che aveva veduto passare; rivide il principino di Iraci, rivide suo fratello, rivide tutti; Michele Barabino gli passò quasi accanto, col suo passettino breve e col suo aspetto di povero rassegnato. E finalmente la grande e bella strada rimase quasi deserta, coi suoi venti re, biancheggianti sulla cortina, nel cielo scuro, le sue fontane mormoranti, il "teatrino" della musica vuoto. Allora anch'egli si mosse, ma non per rientrare in città: si avvicinò al mare, si fermò dinanzi al parapetto a sedile, e guardò le acque, sulle quali la luna, che appariva rossa dietro Capo Zafferano, immergeva un raggio infocato, mobile e ondulato. E guardando, senza forse sapere il perché, Blasco domandò a se stesso:

"Perché sono ritornato?...".