Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte quarta, capitolo 5

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Blasco risalì per via Toledo, passo passo, per ritornare al quartiere di S. Giacomo ed aveva di poco oltrepassato il Piano dei Bologna, quando un raggruppamento e delle grida in prossimità del palazzo Geraci richiamarono la sua attenzione. Si avvicinò e vide due staffieri che bistrattando un povero diavolo lo allontanavano a furia di spintoni. Il poveretto gridava:

"Non è carità... lasciatemi stare!... non è carità."

La gente si fermava a guardare, non sapendo che cosa fosse; il vedere dei servi maltrattare un povero non aveva nulla di nuovo e di straordinario in quei tempi, era quasi un segno della potestà dei signori; nessuno quindi prendeva le parti di quel povero uomo piccolo ma ardito, che invece di scappare resisteva in qualche modo, passivamente, agli spintoni e ai pugni di quei prepotenti gallonati.

"Via! via di qua! il signor duca non vuole pitocchi!..."

"Vi dico, tenete le mani a casa!"

"Ohè!... guarda come protesta!"

Blasco si avvicinò, ma lo sdegno che lo aveva preso a quella vista, si mutò in collera nel riconoscere nel piccolo uomo malmenato Michele Barabino. Si fece largo e, arrestando col braccio i due servi, impose loro: "Lasciate stare quest'uomo!..."

Contemporaneamente Michele Barabino e i servi lo guardarono sorpresi; il vecchio sarto fece un viso di stupore, si stropicciò gli occhi, gridò:

"Il signor don Blasco!... il signor don Blasco!..."

E presa la mano del giovane gliela baciò con trasporto, ma i due servi squadratolo altezzosamente dalla testa ai piedi, gli dissero:

"Sapete voi con chi parlate? Andate per i fatti vostri!... E quanto a te, brutto pezzente.."

Ma Blasco, stringendo per il braccio il servo che stava più vicino, e scotendolo con violenza, gli disse coi denti serrati:

"Non ho l'abitudine di dire due volte una cosa. Lascialo stare, e va via, mascalzone!..."

Alle grida, uscirono dal palazzo altri servi, alcuni armati di bastone; i due staffieri s'erano rivoltati inviperiti contro Blasco, gridando:

"Siamo della casa del duca della Motta e ti leveremo noi il gusto di impicciarti nelle cose dei signori palermitani!..."

"Ah, sì?" disse Blasco; "benone! non è la prima volta che insegno la creanza ai servi di casa della Motta!"

E rapidamente strappato dalle mani di Michele Barabino il bastoncello, prima che i quattro o cinque servi avessero potuto prendere l'offensiva, con un mulinello vertiginoso, fece cadere loro addosso una pioggia sibilante di legnate. Era un buon legno di nocciuolo, duro e nocchiuto, che nelle mani di Blasco si tramutava in una mazza.

I servi, sbandatisi all'impeto dell'assalto, vergognandosi dinanzi alla folla di essere bastonati da uno solo, essendo in tanti, si strinsero, coi bastoni levati; qualcuno corso dentro, era tornato con una daga, ma Blasco, con le gambe larghe, la sinistra al fianco per trattenere la spada, che battendogli fra le gambe poteva imbarazzarlo, passando dall'uno all'altro, tenendoli in scacco, colpiva in testa, sulle braccia, con una rapidità fulminea dalla quale i suoi avversari non trovavano scampo.

La folla applaudiva e rideva. Parteggiando per il povero bistrattato dalla prepotenza villana dei servi aveva seguito subito con simpatia l'intervento del dragone; e ora, assicuratasi del suo valore, trascinata dall'ammirazione, lo incoraggiava coi suoi applausi, che, pur inasprendoli, scoraggiava i servi.

Le grida, il baccano attirarono gente ai balconi; da quello del suo palazzo, Emanuele, che in quel momento stava in compagnia di due giovani signori, il principino di Iraci e il conte di Gisia, si affacciò per vedere che cosa accadesse; l'oscurità non gli consentì di ravvisare alcuno, ma alle voci gli sembrò di riconoscere qualcuno dei suoi servi. Rientrato subito, chiamò per sapere che cosa fosse accaduto, ma udito che veramente erano i suoi servi e che tutta la servitù era indignata contro quel soldato, montò sulle furie.

"Ah per dio! alla mia casa questo affronto?..."

E scese precipitosamente, seguito dai due signori, e da altri servi, muniti di fiaccole. Egli gridò ai servi:

"Poltroni, vigliacchi!... Via!... via! Ce la vedremo dopo!..."

Confusi e avviliti i servi si ritrassero; Blasco abbassò il formidabile nocciuolo restituendolo a Michele Barabino, che si fregava le mani e ripeteva ai vicini:

"Che vi dicevo, eh? Che vi dicevo?"

Emanuele si avvicinò a Blasco, con la testa alta e gli occhi fiammeggianti di collera.

"Chi vi ha dato l'ordine di bastonare i miei servi, i servi di casa Albamonte?" gli gridò.

Blasco, che al vederselo venire di fronte non aveva saputo dominare una certa commozione, al tono arrogante alzò il capo e guardò negli occhi il fratello.

"Di solito," rispose pacatamente, "non domando a nessuno il permesso per insegnare ai prepotenti la carità cristiana verso i poveri e i deboli..."

"Sapete voi chi sono?" schizzò Emanuele inviperito da quella calma.

"Lo so, siete il duca della Motta..."

"Ebbene, saprete che io non soffro oltraggi da chicchessia..."

"Bravo! così mi piacete..."

"E ringraziate il vostro santo che non siete un gentiluomo del mio rango, perché vi insegnerei io come mi si deve rispettare!... Ma vi farò bastonare dai vostri superiori!..."

"Ecco... voi sbagliate, ragazzo mio!"

A quell'appellativo di "ragazzo" non soltanto Emanuele, ma anche i due signori che si erano fatti innanzi, montarono in furia e investirono Blasco, che non aveva fatto attenzione a loro.

"Malcreato e insolente!..."

Ma il principino di Iraci, ravvisatolo al lume delle torce, gridò con sorpresa non priva di un accento d'odio:

"Blasco da Castiglione!..."

"Ah! ecco finalmente un signore che mi conosce!" disse Blasco raffigurando il principino, e burlescamente toltosi il cappello gallonato e fatto un inchino, aggiunse: "Buona notte, principe, state bene?.."

Emanuele era rimasto di stucco; guardava il dragone con dispetto, con collera mal repressa, ripetendo:

"Blasco!... Blasco!..."

"Avete udito? Il signore mi conosce; abbiamo avuto il piacere di vederci altre volte, quando non ero un dragone di sua Maestà e anche voi mi avete veduto... Che volete, pare che il destino mi obblighi a bastonare sempre i servi di casa Albamonte... e in questi paraggi..."

Emanuele arrossì, ricordando che precisamente nel Piano dei Bologna, sei anni prima, Blasco lo aveva sottratto agli staffieri di don Raimondo, come ora sottraeva qualche altro povero ai suoi servi. Il ricordo, riportandolo a un passato che nel suo stato presente avrebbe voluto dimenticare, lo indispettì. Volle fingere di ignorare i rapporti di sangue che passavano fra lui e Blasco e, ricacciando indietro l'amarezza dei ricordi, disse:

"Checchè diciate, signore, io non posso tollerare un affronto alla casa mia... Salvo che preferiate di chiedermi scusa..."

"Perdonate, non ho udito bene; che cosa avete detto?" domandò Blasco con una faccia da ingenuo.

"Che voi domandiate scusa!" ripetè rabbioso Emanuele...

"Avete ragione" rispose Blasco, e, voltatosi, cercò Michele Barabino, lo prese per mano, lo tirò in mezzo, e riprese: "Brav'uomo, il signor duca della Motta mi prega di domandarvi scusa in suo nome di quello che vi hanno fatto i suoi servi."

Un urlo, una risata formidabile, un applauso che scosse le case salutò le parole di Blasco, al quale Michele Barabino tremando baciava la mano, dicendo:

"Che dice vossignoria! che dice!..."

Emanuele e i due amici sentivano tutto il ridicolo della loro situazione; tutti e tre, inveleniti, si avanzarono minacciosi contro Blasco, gridando:

"Signore!..."

Il conte di Gisia, più precipitoso degli altri, sguainò la spada, sbuffando:

"È tempo di finirla!..."

Ma Blasco, che non aveva ragione di usare riguardi a quel nuovo venuto, alzò la voce anche lui:

"Ohè, bel signorino! avete forse desiderio di un cavallo?"

"Questa poi non la tollero!" urlò il conte, assalendo Blasco, il quale, senza perdere tempo, gettandosi indietro, aveva strappato un'altra volta il nocciuolo dalle mani di Michele Barabino, e s'era messo in guardia, dicendo:

"Eccomi a voi, ragazzo!..."

Il conte di Gisia diede un passo indietro e abbassò la spada, arrossendo di rabbia, fra le risate della folla:

"Il bastone?" ruggì "il bastone?... Un mio pari vi fa l'onore di battersi... e voi brandite un bastone?... A me questo insulto?.. A me questa vergogna?..."

"Mio Dio!" disse Blasco con comico rincrescimento; "non credevo di dispiacervi, signor mio... Avevo l'arma che mi pareva più conveniente... per voi!... Di solito non snudo la mia spada che per cose più serie..."

Il principe di Iraci ed Emanuele si frapposero, tirarono via il conte di Gisia, che piangeva di rabbia, convulso, e cercarono di calmarlo.

"Lascia andare non vale la pena!..." gli diceva il principe, "è un attaccabrighe, lo conosco; non gli dare peso, rientra... Lo faremo accoppare dai servi.... non merita altro."

Emanuele lo confortava anche lui.

"Venite, venite su... Ci si scapita... Non mancherà l'occasione e il tempo di insegnargli la buona creanza...."

Ma il conte si dibatteva.

"Il nome! voglio sapere il suo nome!" sbuffava con la bocca piena di schiuma.

"Il mio nome, signore? Il signore duca della Motta credo che lo conosca, ma se vi piace udirlo dalla mia bocca, vi servo: sono Blasco Albamonte, dragone del primo Numanzia..."

"Albamonte!" esclamò stupito il principe di Iraci.

"Precisamente; capisco che ciò dispiace al signor Emanuele, ma non è colpa mia se quando io nacqui nel castello della Motta ricevetti questo nome... Adesso che sapete chi sono e dove sto, vi saluto, signori!..."

Il conte di Gisia e il principe di Iraci si volsero a Emanuele che si mordeva le labbra, intanto che Blasco se ne andava tranquillamente, seguito dalla folla, che commentava l'accaduto e per poco non portava il giovane in trionfo.

"È un vostro parente, dunque?" domandò il principe.

Emanuele fece un moto sprezzante con le spalle, e rispose:

"Ohibò! È un bastardo..."

"Di vostro zio don Raimondo?"

"No... di mio padre, a quanto pare."

"È dunque vostro fratello?" esclamarono con stupore ancora più grande.

"Così egli dice... Ma chi può affermarlo?..."

Così. parlando, erano rientrati nel palazzo dove i servi stavano ancora armati di daghe e di pistole, aspettando un ordine dei padroni, per dare addosso a Blasco; ma i tre giovani signori non li guardarono neppure, ciechi come erano per la rabbia, per la mortificazione, per quella rivelazione che li sconcertava.

Blasco intanto, traendosi dietro Michele Barabino, aveva attraversato la folla; e poichè alcuni gli si erano messi alle costole, egli si voltò e con bel garbo li accomiatò.

"Cari amici, fatemi adesso la cortesia di lasciarmi solo con questo buon vecchietto. Non sono il Sacramento per venirmi dietro così... Vi ringrazio, ma..."

Quel "ma", per quanto cortese, poteva significare tante cose così persuasive, che la gente si sbandò di qua e di là e Blasco si trovò la strada sgombra. Ma non aveva fatto sei passi, che sentì qualcuno dietro di sè e nel tempo stesso udì una voce ben nota dirgli:

"Per bacco! siete sempre lo stesso!"

"Toh! siete voi, Coriolano?..."

"Ho visto tutto. Benone. Vi avevo perduto, avevo perduto il mio Blasco d'altri tempi e ora finalmente lo ritrovo!..."

"Lo credete?" disse Blasco con un senso di amarezza; e stava per dire qualche altra cosa, ma accortosi di Michele Barabino che gli stava accanto, mutò discorso e gli domandò: "Che cosa eravate andato a fare al palazzo Geraci?"

"Oh, illustrissimo, quello che fanno i poveretti come me!... Domando un po' di carità... ecco!..."

Blasco si frugò nelle tasche, trovò alcune monete di bronzo, e postele in mano al vecchio ex sarto gli disse sotto voce:

"Non ho che questi; per questa sera vi basteranno, domattina venite al quartiere... Ora andatevene."

Il povero vecchio baciò la mano di Blasco, profondendosi in ringraziamenti, e se ne andò, esclamando con commozione:

"Che cuore! che cuore!... Se tutti gli somigliassero!..."

Per un tratto Blasco e Coriolano camminarono in silenzio, uno accanto all'altro. Coriolano ruppe il silenzio per primo:

"Dove andate?"

"Al quartiere, come vedete..."

"È forse obbligatorio dormire in quartiere?"

"Obbligatorio, lo sapete bene, no: anzi ci si sta un po' a disagio, perché tutti gli alloggi sono stati presi dalle famiglie dei soldati e degli impiegati..."

"E allora venite con me, diamine! non trovo la ragione perché abbiate a rifiutare la mia ospitalità, o meglio non abbiate a riprendere il vostro antico domicilio... Venite, ceneremo insieme..."

"Ma ho invitato Michele Barabino al quartiere domattina."

"Oh! lo avviseremo che venga a casa mia..."

"Come lo avviseremo?"

"Non ci pensate... sarà mio pensiero... Andiamo."

Lo prese a braccetto e rifecero la strada percorsa, ritornando verso i quattro Canti, ripassando dinanzi al palazzo Geraci.

Una carrozza che usciva dal Piano dei Bologna, tirata da due cavalli frisoni e preceduta da due volanti con le torce, li costrinse a fermarsi. Essi guardarono dentro, e Blasco non potè trattenere un grido di sorpresa. C'era una dama, nella quale egli aveva riconosciuto donna Gabriella, ma lei parve non accorgersi dei due amici.

"Forse viene dal palazzo Villafranca," disse Coriolano.

Blasco non rispose; s'era fatto triste sotto l'onda delle visioni che si erano destate nella sua memoria con una rapidità di successione, che ne aveva formato un tutto mostruoso. Di nuovo erano caduti nel silenzio. Coriolano lo ruppe un'altra volta.

"Ebbene" disse, "che pensate? Su! non voglio vedervi cotesto viso da funerale; dopo cena andremo a "conversazione".

"Oh, vi pare? Con quest'uniforme così povera?"

"Ma no, voi avete quasi la mia complessione: scegliete un vestito dal mio guardaroba. È cosa stabilita. Andremo da una vostra conoscenza: da Butera. Egli si è interessato di voi ed è bene ringraziarlo... Probabilmente vi incontrerete altre conoscenze e rideremo al viso che faranno..."

Dopo cena, infatti, essi si recarono al palazzo del principe di Butera, che da qualche anno aveva lasciato la sua antica dimora dietro S. Cita, per abitare l'altra, già dei duchi Branciforti, sopra le mura della città a Porta Felice. Vi aveva una bella terrazza sulla quale divisava di costruire un teatro, ma poi, destinate le stanze attigue ad altri usi, la trasformò finchè divenne più tardi parte dell'Albergo Trinacria. Allora il palazzo non era così vasto come adesso, e non aveva la stessa distribuzione. La terrazza era contigua a una delle sale di ricevimento, e il principe l'aveva trasformata in una specie di giardino pensile con alberi piantati in grandissimi vasi, tagliati secondo la moda, tra le cui fronde una gran quantità di lampioncini e di lanterne diffondevano una bella luce. Una fontana vi zampillava in mezzo.

Il principe riceveva nelle serene notti estive e, salvo che non amassero giocare, tutti preferivano stare sulla terrazza a godere la frescura dell'aria marina. Il grado di primo titolo del Regno, la signorilità e la magnificenza abituali della casa Branciforti rendevano frequentatissime le sue "conversazioni", alle quali interveniva spesso qualche virtuoso, uscito di fresco dal conservatorio dei Dispersi o del Buon Pastore, del quale si dicevano grandi cose. Il principe di Butera accolse Blasco con affabilità, dicendosi lieto che le contrarietà fossero cessate. Blasco lo ringraziò, scambiò qualche altra paro la, e si confuse fra ;li invitati insieme con Coriolano che, presentandolo ai suoi conoscenti col nome di Blasco Albamonte, eccitava la curiosità. Allora essere figli naturali di un gran signore, specialmente se riconosciuti, e col pieno diritto di portarne il nome, non era un titolo di infamia o di vergogna: non fu raro il caso nelle successioni feudali che un illegittimo, in mancanza di eredi legittimi, venisse investito dei feudi e dei diritti della casa; nè furono sdegnati illustri sponsali con figli naturali di alto lignaggio. I più scrupolosi domandavano all'orecchio di Coriolano se la madre di Blasco era una dama, giacchè questo naturalmente avrebbe attenuato grandemente la macchia originale, possedendo il giovane tutte le qualità di nobile. Ma Coriolano si schermiva: non era una gran dama, tuttavia non era plebea; piccoli proprietari di provincia, padroni di terre, non ancora baroni, ma presso a poco; una tale risposta valeva ad attenuare gli scrupoli e a rendere quei signori meno diffidenti verso Blasco.

Così, dopo quattro anni di assenza, egli rientrava in quella società dalla quale si era distaccato, e forse non gli dispiaceva. La scena avvenuta due o tre ore innanzi gli era rimasta un po' nel sangue, in impercettibili vibrazioni, che gli mettevano un certo desiderio di rivedere quei due giovani signori, e forse suo fratello, i quali, possibilmente, sarebbero venuti alla "conversazione".

Egli barattava qualche parola con antiche conoscenze che si degnavano di domandargli dove fosse stato, in quale corpo militava, meravigliandosi che non avesse chiesto almeno il comando di un mezzo squadrone. - Vicende della vita!... - egli rispondeva scherzando; ma mentre discorreva presso una delle grandi vetrate che immettevano sulla terrazza, sotto le foglie curve d'un palmizio, ecco venire dalla sala il principe di Iraci e il conte di Gisia, che al vedere Blasco si fermarono stupefatti, non potendo celare il loro dispetto e la loro sorpresa. Blasco li guardò con suprema indifferenza, come se non li avesse mai conosciuti, e i due giovani signori gli passarono dinanzi altezzosamente, lanciandogli un'occhiata di sfida superba e odiosa.

Un istante dopo, donna Gabriella entrò anche lei nella sala, per venire verso la terrazza, appoggiando lievemente la punta delle dita sulla mano che le porgeva galantemente Emanuele.

Tre o quattro signori si affrettarono ad andarle incontro profondendosi in inchini e baciandole la mano, che ella stendeva loro regalmente. Vestiva di seta nera, il che dava un gran risalto alla sua pallida bellezza, e la rendeva incantevole. Quei quattro anni avevano dato al suo volto una certa serena austerità, e al suo corpo una maggior pienezza, non tale però da toglierle quella armonia ed eleganza che le erano particolari e formavano quasi l'essenza, il profumo della sua femminilità. Blasco era rimasto stupito, commosso come ad una apparizione improvvisa e inaspettata e non poteva staccare gli occhi da lei, pur non osando avvicinarlesi per riverirla come facevano gli altri.

Donna Gabriella non si era accorta di lui e veniva col suo passo svelto e grazioso, rispondendo ai saluti; ma quando giunse presso la vetrata e s'accorse di Blasco non potè frenare un grido di stupore, impallidì e fu quasi per svenire. Due o tre giovani si precipitarono per sorreggerla, domandandole che cosa si sentisse; qualcuno trasse dal taschino della sottoveste una boccetta di sali e la porse alla dama; queste premure bastarono per ridare a donna Gabriella il dominio sopra di sè, o meglio, per farsi forza e nascondere la sua commozione.

"Non è nulla, grazie!" disse.

Ma i suoi occhi ritornarono sopra Blasco e naturalmente furono seguiti dai curiosi, i quali ricordavano infatti che Blasco era stato per l'addietro il cavaliere (e molti dicevano anche lo amante) della duchessa. Egli sentì che la sua condizione in quel momento era oltremodo imbarazzante e che bisognava uscirne al più presto in modo onorevole e cortese; e allora, staccatosi dal suo posto, si avvicinò a donna Gabriella e inchinandosi con devozione disse, non senza però un lieve tremore nella mano:

"La signora duchessa mi concede la grazia di riverirla?"

Donna Gabriella, senza parlare, gli porse la mano; a stento potè balbettare:

"Siete voi!... Qui!..."

Non potè aggiungere altro e, per non cedere all'impeto dei pensieri e dei sentimenti che le tumultuavano dentro, passò oltre, a salutare la principessa padrona di casa.

L'incidente fu notato, non ostante la freddezza delle parole, e la brevità del dialogo; la commozione fu notata e fu seguita da commenti maliziosi se non maligni..

Ma più stupito di tutti fu Emanuele, il quale, ignorando del tutto quali rapporti fossero corsi tra Blasco e la duchessa, non sapeva spiegarsi come si conoscessero, nè perché ella si fosse tanto commossa. Egli non rivolse a Blasco neppure un cenno del capo. I due fratelli si guardarono freddamente, non senza meraviglia di coloro che già avevano saputo quali vincoli di sangue fossero fra i due giovani. Qualcuno domandò sottovoce a Coriolano:

"Dite un po': il duchino della Motta non conosce il suo fratello naturale?"

Coriolano si scusò di non saperne nulla.

"Si conosceranno forse, ma ignoro se sanno di essere fratelli. Forse no."

Egli mentiva, per togliere Blasco da quella situazione umiliante che la condotta di Emanuele gli avrebbe creato e la sua bugia parve piacere a tutti, giacchè la realtà di quei due fratelli che non si conoscevano e che pure si trovavano insieme aveva per loro un sapore stuzzicante di romanzo o di commedia. Era, dopo tutto, un bel caso!...

Emanuele aveva accompagnato la duchessa e, dopo aver salutato le altre dame, era ritornato verso la sala di accesso coi suoi due amici il conte di Gisia e il principino di Iraci: tutti e tre pareva volessero dirsi qualche cosa di urgente e di straordinario, tanto erano agitati in volto. Rientrati nella sala, infatti, e appartatisi in un angolo, il conte di Gisia disse sbuffando:

"È una provocazione! addirittura una provocazione!..."

"Zitto! non facciamo scandali qui;" osservò il principe di Iraci. "parliamo sotto voce, per non mostrargli che ci occupiamo di lui. Lo conosco bene, io..."

"Voi lo conoscete?" domandò Emanuele; "Da molto tempo?"

"Malauguratamente, sì... Lo conobbi quattro o cinque anni fa, quando, scusate, non era che un avventuriero..."

"E conosce egli da quel tempo la duchessa della Motta?"

"Eh! non lo sapete dunque?... Dicono anzi che sia stato qualche cosa di più che un amico di donna Gabriella!..."

"Che dite!" esclamò Emanuele pallido e dispettoso.

"Quello che tutti sanno, caro mio!"

"Ma noi ci perdiamo in cose che non c'interessano," osservò il conte di Gisia; "certamente non è questo quello che ci preoccupa..."

"Preoccupa? no..." corresse il principe di Iraci "tutto al più, non può che fermare per un momento la nostra attenzione."

"Sarà, non discuto sulle parole... Quello che io affermo è che quel signore è venuto qui per provocarci... e non dobbiamo lasciarci sopraffare così. Perdonatemi, duca, se è vostro fratello, ma il fatto è come dico..."

"Oh, non vi preoccupate di questa parentela, alla quale, parola d'onore, non tengo affatto! Se il mio signor padre ebbe nella sua giovinezza dei capricci, non vuol dire che io abbia degli obblighi verso le conseguenze dei suoi capricci. Non è vero?"

Sorrise di questa sua arguzia, guardando i due amici come per raccoglierne l'approvazione, ma essi si contentarono di fare un lieve cenno col capo, e dissero:

"Bisogna sfidarlo."

"Dal momento che è un gentiluomo, sebbene illegittimo, possiamo bene batterci con lui."

"Formuliamo il cartello di sfida..." disse Emanuele con sussiego:

"Sebbene io vi abbia dichiarato che non mi impiccio di lui, capirete però che per ragioni di convenienza io mi astengo dal prendere parte alla compilazione del cartello di sfida... E mi allontano per un istante..."

Egli mentiva; ciò che gli urgeva dentro era di sapere che Blasco era stato l'amante di quella duchessa della Motta, di quella bellissima, desiderata donna Gabriella, che verso di lui era di una freddezza quasi sdegnosa. La dama gli appariva ora sotto altro aspetto, e gli pareva che, in possesso di quel particolare intimo, ne potesse approfittare. Non era, la sua, gelosia d'amore, ma un sentimento più basso e più volgare: quello della sua vanità di bel giovane, nobile e ricco, posposto di fronte a un bastardo. Questo suo sentimento si acuì quando vide donna Gabriella avvicinarsi a Blasco e rivolgergli la parola.

Ella, infatti, passata la prima impressione e ripreso il suo dominio, moriva dalla voglia di sapere che cosa fosse venuto a fare Blasco a Palermo, dopo tanti anni di lontananza, ignorando che egli militava nell'esercito spagnolo. Non volendo avere la aria di chiamarlo, nè d'altra parte potendo resistere alla voglia che la tormentava, col pretesto di dire qualcosa, un saluto, una graziosa parola, si accostava ai vari gruppi di signore che erano sparse qua e là per la terrazza. Sarebbe stata costretta così a trovarsi vicino a Blasco e la vicinanza avrebbe fatto il resto. Era troppo esperta nelle sue arti di bella donna e nel fingere di non badare a quello cui mirava, per giungervi più sicuramente, perché potesse dubitare della riuscita della sua mossa. Ella si trovò dunque a due passi da Blasco, come condottavi dal caso e quando voltandosi distrattamente i suoi occhi si incontrarono in quelli del giovane, finse una nuova e così graziosa sorpresa, da costringere Blasco a sorridere e a dirle:

"La signora duchessa dunque si stupisce della mia presenza?"

"Mio Dio! sì; non avrei mai immaginato di rivedervi qui dopo tanto tempo."

Egli le si avvicinò. Donna Gabriella, approfittando che nessuno poteva udirla, gli disse rapidamente:

"Liberatemi, ve ne prego, da quel noioso e petulante duchino... vostro fratello. Quando andrò via, accompagnatemi nella mia carrozza..."

Blasco non ebbe il tempo di fare alcuna obiezione o domanda, che donna Gabriella era passata oltre. Egli si trovava dunque impegnato, senza aver potuto e saputo esimersi da quello che, lo vedeva bene, era un invito. Andò a trovare Coriolano che si apparecchiava ad andarsene e gli raccontò quanto era avvenuto.

"Vi assicuro che mi rincresce dovervi lasciare partire solo, ma che fare? Verrò a raggiungervi a casa."

"Fate pure, ma guardatevi. Conoscete la favola di Circe?..."

"Sarò Ulisse, non temete."

Stavano per accomiatarsi quando due giovani signori si avvicinarono a Blasco e, salutandolo con una gravità cerimoniosa, gli dissero:

"Se vossignoria volesse accordarci un minuto di udienza avremmo qualche cosa da dirle, da parte del signor conte di Gisia."

"A me? Perdonino le signorie loro, ma non ho, credo, il piacere di conoscere il signor conte di Gisia, salvo che non sia un giovanotto un po' vivo..."

"Non possiamo consentire, per la nostra qualità, alcun giudizio sul conto del nostro amico, che ci ha onorato di un suo incarico..."

"Ah! li ha onorati di un incarico? Benone; me ne rallegro con le signorie loro... Dicano pure..."

"Non ci sembra questo il luogo più adatto..."

"Troppo giusto... Allora, ecco: io prego il mio amico della Floresta di fare le mie veci o, se piace meglio alle signorie loro, lo incarico di ricevere l'incarico di cui sono incaricate..."

E inchinatosi li piantò lì, intanto che Coriolano sorridendo col suo solito sorriso, diceva:

"Sono a disposizione delle signorie loro."