Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte quarta, capitolo 9

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Dopo tre o quattro giorni Emanuele, liberatosi dall'acutezza del male ed entrato in convalescenza, uscì di casa, in carrozza chiusa, cupo e torbido e col cuore pieno di tutti i desideri di vendetta. Nessuno aveva potuto strappargli dalla bocca che cosa gli era accaduto; non aveva ferite, non aveva lividure, nessuna traccia di violenza, eccetto le vesti in disordine. Il servo, rialzatosi, non avendolo veduto e avendo creduto che egli se ne fosse andato, era corso al palazzo; ma, saputo che il padrone non era rientrato, era ritornato indietro con altri servi e lo avevano trovato svenuto, dinanzi la gradinata di S. Domenico, fra alcuni di quei vagabondi che, svegliatisi, erano intenti a spogliarlo di quanto aveva. Essi giunsero in tempo per impedire chi sa quale altra diavoleria e trasportarono Emanuele al palazzo, che fu messo sossopra da quel ritorno tutt'altro che ordinario e immaginabile.

Accorsero medici, furono svegliati aromatari, furono usati tutti i rimedi. Emanuele rinvenne, ma fu assalito da violente convulsioni, che gli durarono quasi tutta la notte.

Il principe di Geraci, suo nonno, ne era desolato; il servo, interrogato, si scusò col dire che non sapeva nulla; il padrone l'aveva mandato via, e nel non vederlo ritornare s'era impensierito ed era andato a cercarlo.

"Forse," disse, "l'avranno aggredito i ladri."

Ma la spiegazione non persuase il principe, tanto più che il silenzio di Emanuele aveva qualche cosa di torbido, di voluto; come se un sentimento, un desiderio, gli imponessero di serbare il segreto. Se non che qualche voce cominciò a serpeggiare: due rivoli di maldicenza. Uno diffuse con molta malignità e molte frange l'indecente gazzarra avvenuta di notte sotto le finestre di donna Gabriella e si comprende che, prestandosi alla più audace maldicenza, la storiella si propagò rapidamente per i saloni, provocando risate e commenti salaci, specie fra coloro che invano avevano tentato di guadagnare quel castello sguarnito. Non si sapeva chi fosse l'avventurato vincitore del divieto che la bella dama s'era imposto, nè dell'invido, feroce e deluso amante, che aveva ordinato quel chiasso.

L'altro, uscito, e si capisce facilmente, dalle bocche della servitù di donna Gabriella, andava diffondendo l'avventura toccata al duchino della Motta il quale era stato costretto a domandare perdono in ginocchio alla duchessa; e per quella metamorfosi che tramuta i fatti veri in leggenda, ciò che era stato una promessa era diventato un fatto, e si disse che donna Gabriella si era maritata segretamente con un cavaliere che si chiamava don Blasco Albamonte. L'alterazione o l'aggiunta, in questo caso giovava alla dama, togliendo ogni ragione di biasimo e sostituendovi una alta e inesplicabile meraviglia.

I due rivoli si congiunsero; le due storielle si completarono e si spiegarono a vicenda: Emanuele si trovò ad un tempo bersaglio di riprovazioni e di scherno che lo empivano di vergogna e di collera. La misura giunse al colmo, quando il vecchio principe suo nonno, a cui quelle notizie rincrebbero amaramente, lo rimproverò e lo minacciò di chiuderlo in un convento, e di non farnelo uscire che all'epoca del matrimonio.

"Nessuno della nostra casa, nessuno, ha commesso mai una villania di cotesto genere, e tuo padre, don Emanuele, era un vero e perfetto cavaliere... Vergogna! Non dico che simili bassezze non si compiono verso una dama, ma neppure verso una povera femminuccia del volgo!... E se è vero, e voglio sperare che sia proprio così, che don Blasco t'abbia portato su e costretto a chiedere perdono, ha fatto benone, per dio! e quando tornerà dalla guerra andrò a visitarlo e a complimentarlo... Sì, sì, io il principe di Geraci... Quel bastardo è assai più gentiluomo di te e ha fatto bene a darti una lezione. Ben meritata, per dio! ben meritata!"

Il rabbuffo invelenì l'animo di Emanuele, accrescendovi l'odio e lo spirito di vendetta. Ah, bisognava prendere una rivincita sul bastardo e sulla dama, e così clamorosa, da fare dimenticare l'affronto subito. Per più giorni schivò la frequenza degli amici; usciva in carrozza o a cavallo, ma si recava fuori le porte, prendendo qualcuno degli stradali che conducevano ai villaggi o casali già sorgenti nei dintorni della città. In casa occupava lunghe ore col suo maestro di scherma, celebre a Palermo per certi suoi colpi speciali.

Verso gli ultimi di agosto, una sera, andando a passeggio fuori Porta Nuova in portantina, oltrepassato di poco il palazzo della Ginestra, si vide salutato rispettosamente da un uomo che non gli parve del tutto ignoto.

Era Matteo Lo Vecchio.

Egli rispose appena al saluto e tirò innanzi, ma il birro, senza sgomentarsi, gli si accostò allo sportello dicendo:

"Vostra signoria illustrissima mi perdoni, se ardisco avvicinarmi... ma gli è per servire la signoria vostra. Al palazzo non vogliono farmi entrare.... eppure, se io avessi potuto offrirle la mia servitù, a vostra signoria illustrissima non sarebbe accaduto... quello che è accaduto... Forse vossignoria non si ricorda più di me..."

Emanuele si era accigliato, e stava per scacciarlo, ma le ultime parole gli apersero la memoria e, guardato il birro col cipiglio di chi si infastidisce, disse:

"Che cosa volete?..."

"Si ricorda, vossignoria illustrissima, che io, per l'obbligo che sento verso la sua nobile casa, e per la servitù che ho avuto verso l'illustrissimo signor don Raimondo, buona memoria, mi affrettai a rivelarle che un tale, soldato nei dragoni..."

"Sì, sì! Ricordo bene. Che volete adesso?"

"Avrei da dire tante cose... potrei informare vostra signoria sul conto di lui e di... lei... E poi... Vostra signoria illustrissima sa che io sono caporale degli algozini? Non ha sentito parlare mai di Matteo Lo Vecchio?..."

"Ah!... Siete voi?. . Ma voi siete scomunicato!..."

"Illustrissimo, no; sono stato assolto dal vicario generale. Può informarsi. Stamattina, per esempio, mi sono confessato... Vede che non c'è pericolo a ricevermi..."

Emanuele, le cui guance s'erano imporporate, dopo un attimo di silenzio gli domandò:

"Dunque voi dite?..."

"Che sono interamente ai servizi di vossignoria... Ma non sono cose da dirsi per la strada..."

"Va bene, venite stasera a una ora di notte. Darò ordine che vi si lasci passare."

"A un'ora di notte sarò a servirla. Le bacio le mani."

Matteo Lo Vecchio rifece il cammino percorso e rientrò in città. Da quando aveva saputo Blasco libero, egli era divorato dalla rabbia impotente di vendicarsi: avrebbe potuto tirargli di notte una carrubinata, ma non voleva arrischiarsi, nel dubbio di fallire il colpo e di esporsi a un pericolo certo, giacchè una specie di superstizione gli faceva credere Blasco invulnerabile. Lo seguiva intanto, lo pedinava, lo spiava, per studiarne le abitudini, l'orario, le possibilità di colpirlo con sicurezza e impunità.

Aveva così veduto la scena di Blasco e degli amici di Emanuele; lo aveva poi seguito a casa di Coriolano, lo aveva seguito al palazzo Butera. Poi aveva saputo quanto era avvenuto fra lui ed Emanuele a causa di donna Gabriella e ne fu contento, avendo intuito in questo l'ubi consistam, il punto d'appoggio della leva per disfarsi dell'odiato nemico.

"Emanuele era innamorato, così pensava. - Che cosa poteva rendere bestia un uomo più dell'amore?". Bisognava lavorare su questo terreno. Adesso Blasco era partito per la guerra e donna Gabriella era sola: se ne doveva approfittare. Formulò un suo disegno diabolico per dare a Emanuele una vittoria che doveva scavare lo abisso nel quale Blasco sarebbe scomparso per sempre. Bisognava però attirare donna Gabriella in un agguato.

In quei giorni giungevano frequenti le notizie dell'assedio del Castello di Termini, che procedeva senza alcun esito certo per la valorosa resistenza del presidio savoiardo, il quale era molto avvantaggiato dall'inespugnabilità della rocca.

Il presidio, fra la commozione della città, s'era ritirato e asserragliato nel castello, obbligando i cittadini a fornirgli quanto occorreva; e accolte a cannonate le prime compagnie di dragoni, che avevano tentato di occupare la città, le aveva costrette a girare al largo e ad accamparsi a un miglio e mezzo dalle mura, in un luogo allora detto Impalistrato. Ma sopraggiunte le altre milizie e sbarcate le artiglierie e i mortai, si pose il campo presso il convento dei Cappuccini e si cominciarono a piazzare le batterie: i mortai al macello, i cannoni alla Porta Felice. Dal Castello i savoiardi con colpi aggiustati impedivano la costruzione, e si dovette urgentemente costruire una strada coperta, per proteggere le batterie. Blasco fu destinato con un drappello di dragoni a molestare i savoiardi, per dare tempo che si costruisse la strada.

Poichè questi, difesi dal sito medesimo, potevano, senza loro pericolo, infastidire gli spagnoli che stavano in basso, Blasco immaginò di stornarne l'attenzione, attaccandoli e minacciandoli da un altro punto. Aggirati i colli meridionali, e penetrato nella parte alta della città, lungo le muraglie fra Porta Girgenti e Porta Palermo, si cacciò fra le case e riuscì nella piazza del Duomo, donde, sparsi i suoi uomini, cominciò con un fitto fuoco di fucileria a spargere il disordine nelle truppe appostate sugli spalti.

Quell'improvviso attacco atterrì i cittadini già sgomenti dallo scoppio frequente delle granate e delle bombe: successe un fuggi fuggi generale, che diede modo a Blasco di spiegare una azione più audace.

Egli si spinse innanzi, a cavallo, solo, allo scoperto con la carabina in pugno, percorrendo la linea con un superbo atto di sfida, che riempì di stupore i savoiardi stessi.

Un vivace spesseggiare di colpi lo prese di mira d'ogni parte; pareva che egli se ne ridesse. Togliendosi il cappello salutava il fischiare delle palle, gridando:

"Signori savoiardi!... uscite dalla gabbia, per dio!."

I suoi compagni lo richiamavano:

"Levatevi dal fuoco!... Venite al coperto!..."

Poi due, tre, cinque dragoni, vergognandosi di lasciarlo solo, spinsero i cavalli accanto a lui e si misero tutti a galoppare sotto la cortina di fuoco, sparando, gridando, in una follia eroica, inutile. Due caddero. Blasco fu colto da due palle; una gli sfiorò il capo sopra l'orecchio, portandogli via una ciocca di capelli, l'altra gli ruppe la fibbia del balteo su cui era attaccata la giberna e lo ferì sopra lo sterno, non gravemente.

"Non è nulla!" gridò; "signori savoiardi, le vostre palle sono di ricotta!..."

Ma gli altri dragoni gli presero le redini del cavallo e lo costrinsero a mettersi al coperto.

Il 29 di agosto le batterie cominciarono a operare; fu un duello fittissimo di bombe e di granate dall'una parte e dall'altra, tanto più mirabile in quanto i savoiardi non erano più di trecento, e le forze assedianti erano più che dieci volte maggiori.

Blasco, che, sebbene ferito, non aveva voluto abbandonare le operazioni di assedio, sollecitava e compiva le imprese più arrischiate; tra le macerie fumanti del castello e della trincea s'era prefisso di conquistare la sua sciarpa di capitano o la morte. Aspettava che si aprisse la breccia per spingersi per primo all'assalto e seguiva febbrilmente il rovinio della cortina del castello, sotto i colpi terribili dei mortai spagnoli.

Queste notizie giungevano a Palermo. Matteo Lo Vecchio che da qualche giorno se ne stava a spiare la casa di donna Gabriella, si era accorto di un vetturale che veniva ogni due giorni e aveva capito che doveva essere qualche messaggero di Blasco. Vi fece attenzione. Gli tenne la posta; il giorno in cui, facendo il computo, il vetturale sarebbe dovuto tornare, lo aspettò all'angolo della strada dei Materassai, e appena lo vide lo fermò:

"Scusate... voi venite da Termini, non è vero?..."

"Da Termini, signor sì."

"Vi manda don Blasco Albamonte, dragone di Numanzia..."

"Appunto... come lo sa vossignoria?..."

"Bella! Se vi sto aspettando di proposito!... Voi venite a portare una lettera alla mia padrona, signora duchessa...."

"Ah!.."

"Io sono il maestro di casa... La signora duchessa, che si può dire ho visto nascere, perché fui ai servizi del suo signor padre, mi ha chiamato una ora fa, e mi ha detto: - "Cosimo, fammi il favore (dice così, un favore, per sua bontà!) io debbo andare da mio fratello, il marchese, e non posso aspettare; oggi dovrebbe giungere lettera di don Blasco; aspetta tu il vetturale e fatti dare la lettera; penserò io a mandargli la risposta oggi stesso". Ed eccomi qua. Vi ho veduto venire già tre volte..."

Il vetturale non sospettò di nulla; Matteo Lo Vecchio aveva una faccia così onesta e poi conosceva così bene ogni cosa, che non era possibile non credergli.

Non esitò a consegnargli la lettera. Matteo Lo Vecchio la ravvolse in un fazzoletto e se la pose in tasca.

"Venite a bere," gli disse conducendolo verso S. Giacomo La Marina, dove c'erano delle taverne.

Un'ora dopo il vetturale mezzo brillo rimontava a cavallo della mula, e se ne andava al fondaco, dove Matteo Lo Vecchio gli aveva promesso di portargli la risposta.

Il birro, appena solo, cavò la lettera dalla tasca, e fu sul punto di romperne il sigillo, ma poi, fatta una migliore riflessione, se la ripose in tasca, e si affrettò verso il palazzo Geraci.

Emanuele lo fece entrare subito.

"Che cosa c'è?"

"Ho già il mio piano!... Vostra signoria illustrissima sarebbe contento di possedere qualcuna delle lettere che don Blasco manda alla signora duchessa?..."

"Una lettera?" disse.

"Come... dove l'avete?..."

"L'ho avuta per bontà del vetturale che fa da mezzano. In questo momento vossignoria ha davanti a sè lo umile maggiordomo della signora duchessa, confidente dei suoi segreti..."

Emanuele prese tremando la lettera che il birro gli porgeva, ma alla vista del sigillo intatto le sue mani si arrestarono con un gesto di scrupolo.

"Vossignoria l'apra; che diamine! questa lettera è necessario conoscerla... Serve al mio piano..."

"Che piano?..." Matteo Lo Vecchio parve infastidirsi :

"Insomma," disse "vossignoria vuole in suo potere la signora duchessa? Se vuole, lasci fare a me, e domani la signora duchessa sarà fra le sue braccia..."

Una viva fiamma gli salì nuovamente sul viso e le narici gli tremarono con una espressione felina.

"Dia a me; io non ho scrupoli, e così non si dirà che i sigilli li abbia rotti vossignoria."

Prese la lettera, l'aprì, e la porse ad Emanuele dicendo:

"Vossignoria legga."

Appena dato uno sguardo, il giovane si abbuiò, e diventò feroce; la lettera cominciava coi vocativi in uso in quel tempo: "caro sospiro del mio cuore"; e la firma diceva appunto, "il vostro schiavo che sospira per voi Blasco".

La scorse rapidamente con una collera sorda, come se fosse stato un marito o un amante tradito, con un livore d'invidia e cupidigia di affamato, e quando l'ebbe letta, domandò con voce alterata:

"Ebbene, che intendete fare adesso?"

"Non lo indovina? Il signor Blasco è stato lievemente ferito; non lo dice nella lettera, ma io l'ho saputo dal vetturale; orbene, che male c'è se noi lo supponiamo ferito gravemente?..."

"E poi?"

"E poi?... la ferita è grave, egli è solo... Si capisce che mostrerà il desiderio di avere a fianco la signora duchessa, la quale spaventata dalla notizia non penserà due volte a fare i bauli, e partire con la sua lettiga alla volta di Termini... Le strade non sono sicure, specialmente alla Portella sopra S. Nicola... e..."

Gli occhi di Emanuele brillarono; più che le parole, le reticenze e la mimica degli occhi e delle labbra del birro gli rivelarono tutto l'immaginoso disegno.

"Per bacco!" esclamò con gioia; "siete un briccone d'ingegno!... Facciamo dunque questa lettera... Ma chi la porterà?"

"Mi incarico io... Conosce don Blasco la sua scrittura?"

"No..."

"E dunque scriva vossignoria; immagini di essere un compagno d'arme o il cappellano degli squadroni... Scriva le stesse frasi... Se vossignoria me lo permette, le detterò io la lettera..."

Emanuele s'era infatuato di quella birbonata, nella quale vedeva soltanto la sua vendetta e la sua rivincita; prese un foglio di carta e, sotto la dettatura del birro che teneva sott'occhio la lettera di Blasco, scrisse:

"Caro sospiro del mio cuore,

Non vi spaventate, gioia mia, se questa lettera è scritta da altra mano; m'è capitato un arridente di guerra una ferita che mi impedisce di servirmi della mia mano.

Non vi spaventate, cuor mio, non è una cosa molto grave; sebbene mi obblighi a stare a letto... La vostra ultima lettera, così piena di tenerezze, mi ha incantato, e non mi ha fatto sentire le sofferenze della ferita. Immagino l'effetto che mi farebbero le vostre bianche mani, se si posassero amorosamente sopra di essa!... Quanto a ciò che mi scrivete, non dubitate di me: io anelo la fine di questa campagna per passare la mia vita ai vostri ginocchi, tutto per voi. Vi ringrazio dei fazzoletti e della sciarpa, che ho legata ai fianchi come un talismano.

"Vi bacio le mani con tutto l'amor mio, e sono,

il vostro schiavo che sospira per voi.

Da Termini, addì 1 di agosto 1718.

Blasco".

"Benissimo!" esclamò il birro approvandosi. "Ora bisogna chiudere e sigillare. Guardiamo il sigillo. Guardi bene Vossignoria che ha la vista meglio di me."

Emanuele guardò, e disse:

"Non è uno stemma: credo sia la impronta del calcio d'una pistola... o di un battone..."

Anche Matteo guardò con attenzione; poi cavò da una tasca delle brache una pistola corta, e paragonò il bottone metallico che ornava il calcio con l'impronta sulla cera.

"Pare anche a me che sia un bottone; non è uguale a questo, ma si rassomiglia, e può passare. Chiudiamo dunque la lettera e sigilliamola."

Quando tutto fu eseguito, il birro conservò la lettera e disse a Emanuele:

"Vossignoria si procuri mezza dozzina di uomini risoluti per domani... Io tornerò stasera... con la risposta della signora duchessa."

Se ne andò lasciando Emanuele sbalordito di quello che aveva veduto, udito e fatto, e soprattutto di quell'uomo così furbo, così ingegnoso, così birbante, fecondo di espedienti e attivo, il cui interesse non sapeva ancora a che cosa attribuire.

Mezz'ora dopo donna Gabriella riceveva la lettera, che la empiva di spavento. Volle vedere il villano che l'aveva portata, e si stupì nel non riconoscervi il solito vetturale. Che cosa significava questa novità? Il villano le spiegò subito che compare Cosimo s'era sentito male, forse un colpo di sole, e aveva dovuto smontare al fondaco e coricarsi; aveva chiamato lui, che era dello stesso paese, e lo aveva pregato di portare la lettera e ritirare la risposta, che egli, Cosimo, avrebbe poi recato al signore.

La risposta era così ovvia, che non poteva suscitare alcun sospetto: donna Gabriella sedette al suo scrittoio, e con mano nervosa, come il suo cuore agitato, scrisse due o tre righe, chiuse il foglio, lo sigillò e consegnò al villano con un bel pezzo da due tarì dicendogli:

"Porta subito questa lettera a compare Cosimo, digli che parta immediatamente; gli farò un bel regalo, domani, appena saprò che ha eseguito sollecitamente l'ordine."

Ella si lasciò vincere da una grande agitazione, sospettando che la ferita fosse anche assai più grave di quel che Blasco si sforzava di farle credere. Avrebbe voluto partire subito, correre al campo, prendere con sè il caro ferito, salvarlo con le sue cure, col suo amore, e si esaltava nella immaginata sua missione di dolce infermiera rappresentandosi con la fantasia una serie di scene dolci e commoventi. Ah! quella notte come sarebbe stata lunga! Ordinò la sua lettiga di viaggio per la mattina all'alba, e si fece dare dal fratello due servi armati, a cavallo, per accompagnarla a Bagheria - così disse, per sviare i suoi parenti - dove contava di fermarsi quindici giorni nella sua villetta.

L'alba era ancora lontana a spuntare e donna Gabriella contava le ore con impazienza. Si domandava dove a quella tal ora poteva essere arrivato compare Cosimo, o se era arrivato; e quale effetto produceva la sua lettera breve e febbrile. Che cosa faceva Blasco? Chi lo assisteva? Di che gravità erano le sue ferite? Oh Dio! e il giorno non passava mai! come erano lunghe quelle giornate estive! Tutta la notte essa farneticò passando da una visione all'altra, facendo e disfacendo progetti, e nei momenti in cui il sonno le chiudeva gli occhi ella sognava Blasco un po' moribondo, un po' a cavallo alla testa di uno squadrone, vestito da generale, un po' abbracciato a lei: ed erano sussulti, spaventi e spasimi.

Finalmente l'alba imbiancò il cielo. Ella udiì, giù sotto le finestre, uno squassare di sonagliere, segno che la lettiga aspettava e le mule s'impazientivano. Si vestì in fretta, si avvolse in una mantiglia di seta nera, che le copriva tutta la persona, e scese giù. C'erano i lettighieri e i due servi a cavallo, come lei aveva desiderato. Aiutata, saltò dentro la lettiga, che a un suo segno si mosse, con un gran tintinnio di sonagli, che si moltiplicava nella piazzetta silenziosa.

La giornata era bella e i primi raggi di sole sfavillavano nel cielo azzurro e terso. La lettiga attraversò la strada dei Materassai, quelle della Loggia e dei Cintorinai e s'avviò per Porta di Termini, fra il ridestarsi della città, non incontrando che pochi cittadini, carri e "redine" di muli.

Il viaggio proseguì senza incidenti fino a Bagheria; qui si fece una breve sosta dinanzi ad una osteria, dove i lettighieri fecero una colazione rustica, intanto che donna Gabriella, cui quella fermata pareva troppo lunga, batteva i piedi nel fondo della lettiga e li sollecitava.

Si riprese la via. Ora lo stradale, o meglio il sentiero, si inerpicava sui colli, in una campagna deserta, nella quale si alternavano macchie di fichi d'India e di pruni tra rocce che parevano precipitate dall'alto dei monti. La solitudine selvaggia metteva un senso di orrore.

A un tratto i lettighieri si fermarono.

Donna Gabriella affacciò il capo per domandare la causa di quella fermata, ma con suo spavento vide ai fianchi dello stretto sentiero, con le carabine spianate, uomini dal volto coperto di un fazzoletto.

Evidentemente era caduta in un agguato di ladri. Si stimò perduta, non già per la paura d'essere derubata, ma per quello che poteva accaderle di peggio.

I due servi che l'accompagnavano, sopraffatti dal numero, avevano dovuto rinunciare all'uso delle armi per non essere inutilmente ammazzati. Ella era dunque in piena balia dei mal fattori, i quali, senza lasciare il loro atteggiamento minaccioso, avevano obbligato i lettighieri e i servi a gettare per terra le armi e a inginocchiarsi tutti in un gruppo.

Un uomo, allora, uscì da un folto cespuglio col volto mascherato e avvicinatosi alla lettiga, aperto lo sportello, disse con voce che tradiva la commozione:

"Non abbiate paura, signora, chè non vi sarà torto un capello, soltanto che voi ci seguiate."

Donna Gabriella giunse le mani in atto di preghiera; la sua presenza di spirito veniva meno all'idea di non poter proseguire il suo viaggio.

"Prendete tutto quello che volete, vi prometto di mandarvi ciò che chiederete, ma, vi supplico, lasciatemi andare!"

L'uomo mascherato diede in una fragorosa risata:

"Ah! ah! ah! ci credete dunque dei ladri di strada? Grazie dell'onore! Non è il vostro denaro che vogliamo; è la vostra compagnia... Tacete e ubbidite; tanto non potete opporre alcuna resistenza."

Rinchiuse lo sportello, e postovisi accanto con una pistola in pugno, ordinò ai lettighieri di riprendere le redini delle mule, che stavano ferme con la testa bassa, aspettando; e ai suoi uomini indicando i servi:

"Legate quei due e conduceteli dove sapete; al più lieve cenno di resistenza o di fuga, scannateli e non temete di nulla."

I servi, legati strettamente da quei malfattori, furono spinti innanzi per il sentiero coi calci delle carabine, intanto che i lettighieri, tremando, riprendevano le redini e, seguendo gli ordini dell'uomo mascherato, piegavano a sinistra, dove la campagna declinava verso il mare.

Donna Gabriella supplicava invano, e alle preghiere alternava le minacce. Nominava il suo parentado, che non avrebbe tollerato un'offesa come quella, ma l'uomo mascherato rideva. Ella lo guardava attentamente fra una preghiera e l'altra; quella persona aitante, quel portamento, quel gestire, il tono stesso della voce, sebbene alterato ad arte, tutto ciò non gli pareva nuovo del tutto; le destava nel fondo della memoria confuse e indeterminate reminiscenze.

Certo, nonostante il vestito campestre, l'uomo mascherato non pareva volgare, e non doveva essere uno di quei banditi che percorrevano le campagne. V'era della finezza nelle mani, e la biancheria era fine. Ma queste scoperte aumentavano il terrore di donna Gabriella: quell'uomo era probabilmente qualche gentiluomo perseguitato dalla giustizia che voleva procurarsi una giornata d'amore. Come difendersene?

Guardava smarrita la strada che facevano percorre alla lettiga, e pensò a Blasco. Uno spasimo crudele le lacerava il cuore, al pensiero che egli forse agonizzava lontano, nel desiderio di sentirla vicina a sè, mentre ella se ne allontanava di più, preda di un altro, che avrebbe usato ogni violenza per possederla e staccarla per sempre da Blasco.

La vista del mare, di cui sentì il fiotto, la fece trasalire e le gelò il sangue. La imbarcavano forse? Ricordò quando era stata rapita dai Beati Paoli; allora era stata circondata di rispetto, e mai forse il suo corpo era stato così inviolabile, come fra quella gente. Ma allora non lei si colpiva, ma don Raimondo; ella e Violante non erano che ostaggi, sacri. Ma ora? Ora sentiva accanto a sè gli impeti brutali del maschio, che l'aveva aspettata al varco per assalirla e conquistarla. Era una cosa diversa: v'era qualcosa di più delicato, di più sacro che veniva minacciata, e che lei vedeva già in pericolo imminente.

L'amore di Blasco le aveva destato un sentimento profondo di fedeltà: un pudore nuovo, dolce e forte a un tempo; una castità coniugale che le aveva quasi rifatto l'anima e la vita. Ora tutto questo le pareva già prossimo a cadere, a infrangersi, sotto la violenta violazione dei confini che l'amore aveva rizzato fra lei e gli altri uomini.

Dietro a questa violazione si affacciava lo spettro della morte di ogni cosa diletta, della ragione di vivere! l'abbandono, la solitudine spregevole, la disperazione senza fine!

Come difendersi?

Il mare era lì a pochi passi; una barchetta ondeggiava dolcemente, nascosta in un piccolo seno naturale, difeso da rocce. Non si vedeva nessuna nave. Su quelle rocce sorgeva un piccolo castello, con un bel torrione rotondo; era là che la portavano dunque?

Era il castello di S. Nicola, fondato nel secolo XVI da Tomaso Crispo, posseduto ora da un certo Gastone, amico di Emanuele e suo compagno di prepotenze e di avventure galanti.

Il rapinatore dunque era il baronetto di S. Nicola? Anche lui era stato uno dei suoi adoratori, anche lui l'aveva desiderata e insidiata, ma quella non era la sua corporatura; no.

La lettiga entrò nel castello; i due lettighieri furono chiusi in una stanza a pianterreno, che aveva una finestra munita di sbarre di ferro; donna Gabriella strappata quasi a forza dalla lettiga, fu trasportata sopra.

Il castello pareva abbandonato: essa invocava soccorso, ma nè una finestra si aprì, nè un volto si affacciò nel vano di una porta. Le scale che attraversò, sollevata di peso da due manigoldi, erano deserte.

Fu deposta sopra un canapè, in una camera nella quale, sopra una predella, troneggiava un letto di ferro battuto, fra cortinaggi di damasco rosso. L'uomo mascherato rimase con lei, i servi sparirono a un cenno.

"Ora," le disse, "siete in potere mio!.."

Ma il pericolo imminente infuse a donna Gabriella il coraggio che fino allora le era mancato, le ridiede lo spirito che aveva smarrito; ella misurò rapidamente le sue forze e la sua possibilità di resistere a quell'uomo giovane e vigoroso e intuì che non avrebbe potuto resistere a lungo, e avrebbe dovuto cedere. Bisognava ricorrere all'astuzia, e ottenere con essa quei risultati che non sarebbe stato possibile avere dalle sue forze. Tremando dentro di sè, si armò di tutte le sue seduzioni. Fingere una commozione, nelle condizioni di spirito in cui si trovava, non le era difficile; lo stesso tremore che la paura le diffondeva nel corpo e nella voce, aggiungeva un fascino più grazioso alla espressione di smarrimento che il suo volto aveva assunto.

Con una indignazione che pure era vera in fondo, disse:

"Signore, io potrei comprendere tutte le audacie, ma non quella di commettere una violenza, degna di cavalieri da strada maestra!... La vostra condotta è ciò che vi può essere di più ignobile, e una dama ben nata non può che sentire ribrezzo al contatto delle vostre mani."

Emanuele, a questa reazione che non si aspettava, restò un po' sconcertato, per quanto rotto alle imprese galanti, non si era mai trovato in quelle condizioni singolari e con una dama come donna Gabriella; la stessa commozione che lo aveva invaso nel trovarsi quasi padrone della situazione lo aveva un po' disarmato. Balbettò:

"Signora, credete che se io non vi amassi con tutta la passione di cui è capace un cuore fervente, non avrei osato rapirvi... Perdonate a un cuore che batte per voi!..."

"Perdonarvi?" disse "volete che io vi perdoni? Chi siete? Non vi conosco, non posso perdonare un'azione ignobile o per lo meno indecorosa, a persona che ignoro se sia degna, non dico del mio perdono, ma che io le rivolga la parola..."

Emanuele ebbe un istante di irresolutezza; si sentiva punto, e del resto non desiderava di meglio che di farsi riconoscere.

Donna Gabriella si accorse di quella irresolutezza e incalzò:

"Un gentiluomo, anche se spingesse la sua audacia fino alla violenza, come avete fatto voi, non esiterebbe un istante a farsi conoscere... e ad assumere lealmente e apertamente la responsabilità delle sue azioni."

Allora Emanuele, con un gesto rapido, si tolse la maschera e inginocchiatosi dinanzi alla duchessa, sorpresa dallo stupore e fremente di sdegno, disse:

"Eccomi, sono io! perdonatemi."

Ma lo sdegno di donna Gabriella non era questa volta simulato.

"Voi!" esclamò; "voi!"

Fra le varie supposizioni che le erano balzate nel cervello, soltanto questa, che pure era tanto ovvia, non le si era presentata: che il rapitore potesse essere Emanuele. Lo sapeva prepotente e violento; era stata da lui assediata, infastidita; aveva patito da lui una pubblica ingiuria, eppure non le era balenata la sua figura, forse perché, credendolo vergognoso di quello che aveva fatto, non lo aveva supposto capace di immaginare quel rapimento così romanzesco, e di ripresentarsi a lei.

Ma lo sdegno fu maggiore della sorpresa. Era dunque Emanuele che invadeva il campo di suo fratello; lui che più di ogni altro avrebbe dovuto avere il dovere di rispettarlo, come cosa inviolabile e sacra: lui, l'autore di quella gazzarra vile e ignominiosa, sotto le sue finestre.

"Voi!" ripetè, non potendosi dominare; "voi!"

Tutti i suoi propositi di furberia, di finzione si dispersero dinanzi a quella realtà che le richiamava, in uno scoppio d'odio, quell'episodio ingiurioso, diffamatorio, che le aveva fatto versare tante lacrime di dolore e di rabbia: ella dimenticò la sua debolezza, dimenticò di essere in balia di un giovane capace di ogni violenza anche volgare e laida, ed esclamò:

"E osate comparirmi dinanzi!"

In piedi con gli occhi sfavillanti di tutte le tempeste della collera e dell'odio, col dito teso, come se avesse voluto col gesto fulminare l'audace, vibrante in tutta la persona di una energia nuova, illudendosi quasi di essere più forte e sicura di quello che non fosse, gridò:

"Uscite! Uscite!... Ho vergogna di trovarmi dinanzi a un'anima abietta come la vostra!... Ho schifo di voi!... Uscite!..."

Emanuele era diventato pallido, poi rosso, come congestionato da quelle parole che lo schiaffeggiavano in pieno volto. La sua indole violenta e rissosa si ridestò, il suo volto si trasformò sotto un'espressione bestiale. Con le vene gonfie, gli occhi ardenti, i pugni serrati, parve che stesse per scoppiare.

"A me?" ruggì; "a me? Ah! avete vergogna, voi!... Voi!... Dimenticate dunque che siete in potere mio, e che qui comando io solo?... Ah, signora duchessa! voi avevate creduto che un pari mio, un Albamonte, avrebbe tollerato il vostro disprezzo?... Io avrò, non per amore, non perché io sia così pazzo per voi come forse avrete creduto, ma per insegnare a voi e al vostro amante, come si trattano i pari miei!... è la mia rivincita, signora duchessa, e non vi rinuncio..."

"Vile!" gli gridò sul viso donna Gabriella; "vile! voi volete prendervi la rivincita sopra una donna debole e senza difesa, circondato di cagnotti pari vostri; ma se qui fosse Blasco..."

"Sarei doppiamente felice di vedervi entrambi ai miei piedi... e mi darei la gioia suprema di possedervi sotto gli occhi suoi... è la sola vendetta, che potrà sanare l'affronto subito."

"Vile! vile! vile!..."

Donna Gabriella non sapeva trovare altra parola, ma la sua collera, le ingiurie, il suo atteggiamento di lotta fomentavano le passioni di Emanuele: la bestia fremeva in lui con tutta la violenza dei suoi appetiti. Ghignò:

"Vile!... sia pure, non m'importa. Ma piegherò il vostro orgoglio..."

Si slanciò per impadronirsi di lei, ma donna Gabriella, più lesta, gli guizzò sotto, e frapposto fra lei ed Emanuele un seggiolone, come per farsene un riparo, con gli occhi pieni di lacrime cocenti, minacciò:

"Badate a quel che fate!... Badate a voi!... Ogni vostra violenza vi costerà amaramente..."

Ma Emanuele non udiva più nulla; la sua ragione era sopraffatta dagli impulsi della belva concupiscente. Con un salto ghermì donna Gabriella, stringendole i polsi nella morsa del suo pugno per impedirle di reagire, e costringerla a ripiegare indietro il busto.

Ella si dibatteva disperatamente, cercando di mordere le mani che la stringevano, di opporre il suo ginocchio contro quel corpo che le si premeva addosso; l'odio, il ribrezzo, le moltiplicavano le forze, ma l'uomo nella lotta aveva perduto ogni sentimento di rispetto e di umanità, ed ella sentiva a poco a poco la superiorità di quei muscoli che pareva diventassero sempre più vigorosi.

Vi fu un istante in cui temette.

Sentì che la sua resistenza diminuiva.

In quell'attimo visse tutti i dolori e tutte le disperazioni e il suo cuore ruggì, i suoi occhi si empirono di lacrime ardenti, e il suo respiro parve un rantolo o un singhiozzo...

Ancora un minuto, ed avrebbe subito l'onta... ancora un attimo.

Una fucilata risonò nel cortile; contemporaneamente i vetri della finestra caddero infranti.

Emanuele si arrestò, si levò, guardò intorno con stupore collerico. Un'altra fucilata risonò; altri vetri precipitarono.

"Maledizione!" gridò Emanuele precipitandosi verso la finestra. Donna Gabriella balzò in piedi col volto illuminato da una grande speranza e, premendosi il petto come per comprimerne i battiti, mormorò con accento inesprimibile:

"Dio! Dio!"

Quasi nel tempo stesso, dei colpi violenti furono battuti all'uscio: Emanuele, sbuffando, vi si diresse impugnando la spada.

"Chi È?"

Gli risposero altri colpi furiosi, sotto i quali l'uscio cedette e si spalancò: tre uomini apparvero sulla soglia, coi fucili spianati; avevano il volto coperto da una maschera e pistole e pugnali alla cintura. Dietro a loro vi era uno che pareva il capo, il quale, non senza sarcasmo, disse:

"Pare che il signor duca si diverta, e che noi lo disturbiamo.... me ne rincresce, ma sono sicuro che la signora duchessa non trova di suo gusto i divertimenti del signor duca, per cui ci facciamo il dovere di pregarvi amichevolmente di lasciare libera la signora..."

Donna Gabriella giunse le mani in un impeto di gioia gridando:

"Grazie! grazie!... Ah! sono salva!"

"Chi siete? Che volete?" urlò Emanuele, livido di rabbia, nell'impotenza di reagire sotto la minaccia delle bocche di fucile, nere e terribili. "Come osate penetrare in casa mia?..."

"Adagio, signor mio; scommetto che quando il signor Gastone, che dopotutto non ha abitudini brigantesche, saprà a quale uso volevate far servire il suo castello, troverà da fare qualche rilievo sull'espressione "casa mia". Quanto poi a osare, il signor duca sappia che noi entriamo dappertutto... È un nostro dovere e nel tempo stesso un nostro diritto..."

E rivoltosi a donna Gabriella l'uomo mascherato aggiunse:

"Se la signora duchessa vuole, la sua lettiga attende alla porta."

"Voi non uscirete viva! nè io nè altri!"

Fece l'atto di trapassarla con la spada, ma allora, agile come un leopardo, l'uomo mascherato gli balzo addosso, gli afferrò il braccio, lo disarmò, prima ancora che Emanuele avesse il tempo di prepararsi ad una resistenza, e disse:

"Voi siete un ragazzaccio malcreato e malvagio!"

Emanuele si dibattè per svincolarsi dalla stretta di quel braccio rigido e tenace come acciaio.

L'uomo lo trascinò fra i tre armati.

"Persuadetevi," disse sorridendo sotto la maschera "mio signor duca, che le donne degli altri vanno rispettate."

In un attimo Emanuele, pur dibattendosi come una belva presa al laccio, si vide stretto in un viluppo di corde come in una rete, impotente a muovere le braccia e le gambe, sollevato in alto, trasportato giù nella corte, ove vide, stupito e scoppiando dalla collera, i suoi uomini legati per le mani e per i piedi agli anelli di selce a cui si legavano i cavalli; e dinanzi a loro altri uomini mascherati e armati.

Egli ebbe uno scoppio violento di rabbia contro i suoi uomini; non potendo sfogare altrimenti l'ira furibonda che gli ruggiva dentro, sputò loro addosso, gridando:

"Vigliacchi!"

Ma gli uomini che lo trasportavano non gli diedero l'agio di dire altro, infilato un capo delle corde in uno dei grossi anelli che servivano una volta a fermare le catene del ponte levatoio, lo tirarono in su, lasciandolo sospeso per le braccia lungo lo stipite della porta d'ingresso, ridendogli e schiamazzandogli sul viso.

Emanuele urlava, gemeva, bestemmiava, con la bocca piena di schiuma, livido, agitato da impeti ferini. Il suo volto non aveva più nulla di umano.

Egli vide uscire dal castello la lettiga di donna Gabriella, al cui sportello andava il capo di quegli uomini mascherati, il quale, passando davanti a Emanuele, alzò la testa, lo guardò con un sorriso canzonatorio e salutatolo burlescamente col cappello, gli disse:

"Tanti saluti, e buona permanenza, don Emanuele!"

Emanuele vide la lettiga allontanarsi e sparire tra le rocce che fiancheggiavano il sentiero, seguita dagli uomini armati. Nel castello silenzioso rimasero gonfi d'ira e gialli per paura i suoi uomini legati agli anelli: e lui penzoloni lungo lo stipite della porta, come un impiccato.

Il principe di Geraci lo vide ritornare la sera sopra una specie di barella, portata da villani. Aveva le braccia slogate.

Nel tempo stesso un servo gli recò una lettera misteriosa. L'aperse e lesse:

"Illustrissimo Signor Principe,

Soltanto per un riguardo alla vostra persona ci limitiamo a un piccolo avvertimento al vostro signor nipote. Persuadetelo che è finito il tempo delle violenze e delle prepotenze".

Nessuna firma, ma un piccolo sigillo, la cui impronta recava una croce, attraversata diagonalmente da due rozze spade.

Il principe lesse, guardò con stupore e mormorò con aria di sgomento:

"I Beati Paoli!"