Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte quarta, capitolo 11

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La prima domenica di ottobre, festa della Madonna del Rosario, la strada di Butera era piena di carrozze signorili, di portantine, e di servi in ricche livree gallonate, che si raggruppavano davanti il portone parlando o sparlando dei padroni.

Ad ogni carrozza che giungeva, preceduta dai volanti, si aprivano in due ali, per lasciarla passare, strizzando gli occhi, mormorando commenti, fra gli inchini profondi. I più addentro nella cronaca del giorno davano spiegazioni e notizie sugli sposi.

"Un matrimonio senza genio..."

"Dice che quando andarono a rilevare la sposa al monastero, la poverina era pallida come una morta."

"Non è un bel marito..."

"Perché poi? È un bel giovane... Ricco... Un pezzo da forca... Avete saputo quello che gli è accaduto?"

"Ah! già... Bastonato..."

"Che! l'hanno mezzo impiccato..."

"I Beati Paoli."

"Ne aveva fatta qualcuna..."

"Chi sa con chi?..."

"Qualche povera figlia di mamma."

"Quante ne vede, tante ne piglia..."

"Finirà ammazzato."

"Povera sposa."

"È bella?"

"Una madonna!..."

"Bel boccone, per dio!..."

"Non è per noi..."

"Già! se volesse cambiare, io sono disposto..."

Cominciarono piccole contese e allusioni salaci fra risate, che venivano subito represse al sopraggiungere di una nuova carrozza.

Le sale del palazzo si affollavano di dame. Il principe di Butera, sia per quella naturale generosità della sua casa, sia che trattandosi di una nipote orfana non voleva far credere che volesse fare meno di ciò che aveva e avrebbe fatto per una figliuola, aveva voluto dare alla promessa di matrimonio tutta la solennità maggiore, degna del suo grado e della famiglia dello sposo.

Ma tutto il lusso e lo sfarzo degli inviti e del trattamento contrastavano terribilmente col volto di Violante.

La povera fanciulla, nella sua camera, fra le zie maritate, aspettava il momento di uscire e di essere presentata alla società, con lo stesso aspetto del condannato, che nella cappella, fra i sacerdoti che l'assistono, aspetta tremando e nel tempo stesso ansioso il momento fatale in cui la porta si apra per andare al patibolo.

Ella era uscita dal monastero quella stessa mattina, per ricevere l'anello; già sapeva dal giorno innanzi di doversi apparecchiare al sacrificio.

Il nonno era andato ad annunziarglielo.

Violante alle prime parole s'era tinta di un pallore mortale e per poco non era svenuta.

"Perché così presto?" domandò.

"Oh, non è presto; tutt'altro," disse il principe; "alla tua età dovresti già essere maritata. Noi abbiamo ritardato a darti uno stato, ma ora è tempo, figliuola mia; non puoi stare qui chiusa."

"Ma io ci sto bene, io non desidero nulla, mi sono affezionata a queste buone madri... Perché vossignoria mi vuole far maritare?"

"Per bacco! ma tu hai l'obbligo quasi, di farlo. Hai una eredità ragguardevole, che non puoi e non devi lasciar passare in altre mani, fuori di quelle dei tuoi figli...."

"Oh, signore, la supplico... rimandi a un altr'anno, mi dia tempo... è una cosa seria..."

"Fanciullaggini! che cosa significano queste preghiere? E una cosa convenuta. Sono sicuro di interpretare la volontà di tuo padre."

"Ma se io avessi vocazione al monastero?..."

"Ti passerà..."

"Se io non avessi vocazione al matrimonio?..."

"Ti verrà..."

"Signor principe, non verrà... Le giuro che è una cosa che mi spaventa... Mi lasci qui nel monastero con le zie."

"Oh, finiamola! Da quando in qua una ragazza si impiccia di queste cose? Domattina verremo a prenderti e domani sera ti accompagneremo qui, dove resterai fino all'epoca del matrimonio. E non parliamone più."

Il principe la lasciò pallida, come morta, ripetendo con indifferenza:

"Fanciullaggini! fanciullaggini!"

Violante lo seguì con gli occhi, attraverso la grata, poi improvvisamente scoppiò in pianto e se ne tornò su, a cercare le zie, per invocare il loro aiuto. Si gettò fra le loro braccia singhiozzando e supplicando:

"Signora madre Rosalia, signora Concezione, salvatemi voi! salvatemi voi!..."

Le due suore si spaventarono, le domandarono con ansia premurosa:

"Che cosa è stato? Che cosa t'è accaduto?"

"Sono perduta, se non mi salvate voi, mie buone zie!... Fatelo per la memoria di mio padre!..."

"Ma di', parla! santa Vergine del Rosario!... che cosa è successo?"

Con parole rotte dai singhiozzi, pallida, smarrita, ella riferì loro il dialogo col nonno.

"Non voglio sposarlo! non voglio!" esclamò poi energicamente, con un gesto del capo.

Le due suore se ne angustiavano.

"Figliuola mia, bisogna ubbidire,... se il Signore vuole che tu entri nel mondo, fa' la sua volontà. Il nonno cerca il tuo vantaggio!"

"Ah! anche voi dunque mi abbandonate?..."

"Ma no, non ti abbandoniamo, figliuola, bisogna essere ragionevole. Raccomandati a Dio e alla Santa Vergine e ti troverai più sollevata..."

"Oh Dio! Dio! Dio!... Perché mi volete far morire?..."

Le suore tentavano di consolarla; esse si angustiavano, ma che cosa potevano fare? Non avevano nessuna autorità e non potevano certo impedire quel matrimonio voluto dal nonno.

"Voglio farmi monaca!" singhiozzava Violante; "non voglio uscire dal monastero... voglio farmi monaca!..."

Quanto a loro sì, sarebbero state felici di avere con loro quella nipotina; sarebbero state felici di vederla monaca, per celebrare quella professione con tutto il lusso che meritava, ma come contrastare con la volontà del principe di Butera che quando si metteva una cosa in testa, non c'era verso di levargliela?

Per consolarla, le promisero che avrebbero perorato la sua causa e scrissero un biglietto al principe, ma il signor principe rispose con molta cortesia, che non era il caso di dare peso a quelle fanciullaggini.

Violante passò la notte nella più profonda disperazione; tutto il passato le si rinnovava alla memoria e le immagini che aveva cercato di obliare, le si presentavano di nuovo dinanzi. Oh quante cose vedeva, e come i sogni della sua giovinezza, che le erano già parsi tanto lontani, ora le apparivano vicini e vivi, quasi per accrescerle i tormenti dell'anima!... Quale speranza lieve persisteva dunque nel suo cuore, se quel matrimonio la empiva di spavento e di dolore, come la minaccia di una morte immatura e violenta?

Emanuele? Ma lei lo detestava. Lo aveva veduto di sfuggita e aveva sentito per lui una ripugnanza invincibile. Sebbene avesse giurato e imposto a se stessa di dimenticare Blasco, quel signor Blasco che aveva dormito una notte col capo appoggiato al suo capezzale, quel signor Blasco che aveva avuto per lei tanta delicata tenerezza, e nelle cui braccia quasi aveva sorpreso la matrigna, tuttavia ora la sua immagine balzava nuovamente come quella di un bene intensamente desiderato e irreparabilmente perduto!

Dov'era? Che ne era? Ella non ne sapeva più nulla. Aveva per quattro anni serbato gelosamente il segreto della sua prima giovinezza e non aveva osato, nè voluto domandare alcuna notizia di Blasco. Il giorno in cui il Vicerè marchese de Lede fece il suo ingresso solenne a Palermo, lei dalla loggia pensile e dalla "vista" che dava sulla via Toledo, guardando i dragoni che cavalcavano, era improvvisamente trasalita, perché uno d'essi somigliava a Blasco, ma era assai lontana dal supporre che il bel cavaliere potesse essere uno di quei soldati stranieri e aveva creduto a una di quelle somiglianze straordinarie, che non sono rare.

Dov'era? Che ne era? Viveva?

Ah! non sapeva, e forse era meglio per lei, che proprio quel dragone era Blasco, e che mentre lei si disperava nell'ombra della sua cella, per quel matrimonio che scavava una tomba profonda all'ultimo estremo fantasma di speranza, Blasco era fra le braccia di un'altra donna, della sua matrigna!...

Così, tra questi spasimi, trascinata suo malgrado verso l'antico sogno, tendendo idealmente le braccia a colui che le era apparso come un liberatore, Violante passò la notte.

Ella riconobbe che era sola: sola nel mondo!

La mattina vennero i nonni a rilevarla con la loro carrozza e la condussero al palazzo. Violante era spaventevolmente pallida.

Il principe motteggiò un poco su quel pallore e su quello spavento, ma sotto il velo dello scherzo v'era qualche cosa di imperioso e di irrevocabile, che tolse alla fanciulla ogni speranza e ogni coraggio.

Essa si lasciò abbigliare senza volontà, senza genio, fredda e automatica come una bambola.

Le cameriere e le zie Butera non poterono cavarle di bocca una parola e credettero che fosse per la commozione di quella cerimonia. Commossa era infatti, ma dal dolore e le sue pupille fisse nel vuoto pareva si perdessero nella profondità del suo destino oscuro e tragico.

Quando, condotta dalla nonna, entrò nel salone affollato di invitati, il suo pallore aveva dei riflessi lividi, i quali le davano un aspetto così cadaverico, che un mormorio di stupore e di compianto sfiorò le bocche di quanti la videro.

Violante faceva degli sforzi sovrumani per non svenire e per serbare un contegno calmo e dignitoso.

Ella fu subito investita di complimenti e di auguri, ognuno dei quali era un colpo acutissimo al cuore. Soltanto la vista di Emanuele potè rianimarla, per un improvviso balenio di speranze a cui si attaccava ad ogni più piccolo appiglio.

Emanuele, che avanzava accanto ai suoi nonni, era anche lui orribilmente pallido e il suo volto esprimeva una invincibile riluttanza.

Ella riconobbe dall'aspetto, che nel cuore di lui si sollevavano i medesimi sentimenti di avversione e quasi di ripugnanza che provava lei. Dunque anche Emanuele subiva la volontà altrui! Anche Emanuele si avvicinava a quelle nozze senza desiderio, senza gioia, come a un sacrificio.

Egli non l'amava. Violante lo stesso, e il suo cuore ebbe un palpito di gioia. Se Emanuele non l'amava, se la odiava invece, egli era il suo miglior aiuto. Una pazza idea le frullò per il capo: quella di domandare al giovane che le destinavano per compagno di tutta la vita, se non era meglio, per l'uno e per l'altra, rifiutarsi a queste nozze con un atto di energica volontà.

Ma Emanuele si avvicinava.

Quando le fu dinanzi, il principe di Geraci, prendendolo per mano e presentandolo al principe di Butera, lo pregò che gli facesse l'onore di concedere la mano della sua nipote e pupilla, donna Violante Albamonte, al suo nipote e pupillo, don Emanuele Albamonte, duca della Motta.

E, ottenuta una risposta piena di sussiego e di cortesia studiata, gli chiese di pregare donna Violante perché si degnasse di accettare il pegno della fede scambiata, l'anello di fidanzamento, voluto dalle consuetudini.

Violante dovette porgere l'anulare destro per infilarvi l'anello. La sua fronte era divenuta umida e le sue mani ghiacciate. L'orgoglio le impedì di abbandonarsi al suo dolore sotto quelle centinaia di occhi che la guardavano. Ma non disse una parola, non rispose, nè alle graziose parole dei futuri parenti, nè agli auguri che le venivano d'ogni parte.

Un esercito di servi in grande livrea verde cupo ricamata d'oro, con una profusione e una ricchezza stupefacenti, servì dei rinfreschi, intanto che in una sala accanto il notaro della casa coi due nonni e coi testimoni stipulava i capitoli matrimoniali. Emanuele stava torbido e silenzioso fra quei complimenti.

"Siete un uomo fortunato, avete bellezza e ricchezza!"

"Non conoscevo ancora donna Violante, è veramente bella! ve ne faccio i miei rallegramenti..."

"Sarete una coppia invidiabile."

"Ma bravo! bravo!..."

Tutte queste frasi, dettate in gran parte dalla convenienza, infastidivano Emanuele. Guardava qualche volta Violante per scoprirvi tutta questa bellezza che decantavano, e riconosceva che veramente era bella, ma che per lui non aveva alcuna attrattiva. Comunque non era tanto per la sposa che gli destinavano che egli provava una profonda avversione, quanto per il matrimonio, che gli pareva una specie di prigionia.

Egli era ancora tanto giovane! e voleva godersi la vita. Suo padre non aveva preso moglie che dopo i quarant'anni; perché volevano legare la sua giovinezza ad un giogo non desiderato, non allietato da alcuna idealità, da alcun sogno?

Anch'egli, come Violante, quando era ancora un adolescente, non si era preoccupato molto di questo matrimonio. C'era ancora tempo! e in così lungo tempo potevano accadere tante cose imprevedibili!... Ma il tempo era trascorso così velocemente che non gli pareva vero e quello che gli pareva lontano, era già imminente, anzi egli vi stava sulla soglia, non c'era da fare altro che varcare quella soglia.

Una cosa soltanto lo confortava: la sua partenza per Roma, la quale, oltre a dispensarlo dalle visite ufficiali che avrebbe dovuto fare alla sposa, nel monastero, dietro la grata del parlatorio, poteva avere delle conseguenze inaspettate.

Obbligato dal nonno, egli si era avvicinato a donna Violante per rivolgerle qualche parola, ma la fanciulla era rimasta immobile, pallida, con gli occhi fissi a terra, simile a una statua funebre: questo contegno indispettì Emanuele e, come al solito, eccitò e destò in lui quella rudezza scortese che era il substrato della educazione ricevuta in un piccolo e povero ambiente borghese.

"Pare," le disse cogliendo il momento opportuno "che queste nozze non siano di vostro genio..."

Violante non rispose, nè parve averlo udito.

Il suo silenzio acuì il dispetto di Emanuele e lo rese collerico.

"Del resto," aggiunse, "non vanno a genio neppure a me!"

E le voltò le spalle, contento di averle detto quelle parole ingiuriose come uno schiaffo, le quali invece apersero il cuore di Violante a una improvvisa speranza. Nel profondo del cuore ella mormorò un grazie che era l'espressione di tutti i sentimenti che la tormentavano.

Coloro che videro le sue guance colorarsi di rosa, immaginarono sorridendo che la fanciulla avesse arrossito per pudore a qualche frase del suo futuro fidanzato e nessuno suppose, invece, che era la gioia di non sapersi amata, nè desiderata da quell'uomo tanto odioso.

Ella ritornò al monastero la mattina dopo, col cuore combattuto tra la tenue speranza che lo stesso Emanuele rompesse quel vincolo, il dolore di averlo stretto, il conforto che per qualche tempo non avrebbe veduto il suo fidanzato, il quale, come era stato deciso, sarebbe partito per Roma.

Emanuele infatti partì la sera, con due galere di Toscana che toccavano Civitavecchia, donde egli, per terra, si sarebbe recato a Roma. L'accompagnavano tre servitori e portava con sè quattro cavalli ed era munito di lettere e di raccomandazioni, oltre che per l'ambasciatore di Spagna, anche per sua eminenza il vicario e per il padre don Antonino Inguaggiato, uno dei tanti preti esiliati sotto il governo savoiardo, che, come la maggior parte dei preti esuli, viveva a Roma.

Il padre Inguaggiato doveva essere il confessore di Emanuele, per il tempo della sua dimora a Roma.