Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte quarta, capitolo 14

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Un processo per annullamento di matrimonio fu iniziato dal principe di Butera, d'accordo con Emanuele della Motta; e intanto Violante andò ad abitare in casa del nonno. Quegli avvenimenti avevano così scosso la sua salute, che ella ne aveva preso una malattia, per la quale i medici non credettero opportuno farla rientrare nel monastero, come lei voleva.

Emanuele non cercava di meglio. Ormai padrone di sè, poteva disporre della sua volontà. L'annullamento di quelle nozze gli ridava la sua piena e intera libertà ed egli ne usava e ne abusava. Si era stretto di nuovo a Matteo Lo Vecchio, del quale conosceva la perspicacia e le indagini e le scoperte fatte, per sapere per filo e per segno quale parte avesse avuto Blasco nei Beati Paoli, e come era avvenuta la morte di don Raimondo.

Il birro gli narrò quello che sapeva; vi aggiunse naturalmente qualcosa di suo, e diede colore di certezza a ciò che era una induzione o una ipotesi.

"Vostra Eccellenza," concluse non senza malignità "deve essere grata ai Beati Paoli e al suo signor fratello bastardo, perché senza di essi chi sa che cosa ne sarebbe stato!...

Certo sarebbe semplicemente il figlio di quel pitocco di Girolamo Ammirata..."

Invece di aprirgli il cuore a un sentimento benevolo, quelle parole punsero l'animo di Emanuele, che disse aspramente:

"Sarei duca lo stesso."

"Vostra Eccellenza mi permetta di dubitarne. La setta aveva ammannito un grave processo contro don Raimondo e si deve a quel processo, se egli, temendo la mannaia, firmò quell'atto di riconoscimento, che servì di base per immettere vostra Eccellenza nel possesso dell'eredità e ottenere l'investitura..."

"Conteneva dunque delle cose terribili quel processo?"

"Semplicemente le testimonianze di parecchie persone che conoscevano o avevano eseguito i delitti commessi dal signor don Raimondo per usurpare la eredità Albamonte e la corona ducale..."

"Come? Come?"

"La pura verità..."

"Io dunque?..."

"Vostra Eccellenza, come sa, fu raccattato sulla pia, ma forse non sa che la sua signora madre, per sfuggire a due tentativi di avvelenamento e salvare vostra Eccellenza, che era nato da pochi giorni, si calò dal balcone. Errò per la notte, si smarrì, fu raccolta da Girolamo Ammirata. Per poco che questi avesse tardato, sarebbe ricaduta in potere del signor don Raimondo che avrebbe fatto morire tutti e due..."

Emanuele rabbrividì, poi disse:

"Ed io, imbecille, dovevo restituire o far godere alla figlia, quello che il padre mi aveva rubato!... Ma può esserci di peggio? Perché non mi avete narrato prima tutte queste cose?"

"Vostra Eccellenza non mi ha più fatto l'onore di comandarmi...."

"E questo processo?..."

"L'aveva il signor don Blasco..."

"Lui?..."

"Adesso non potrei dire se l'abbia ancora lui... Ma o lui o qualcuno della combriccola..."

"Matteo Lo Vecchio, pagherei un occhio per averlo..."

"Un occhio è troppo per vostra Eccellenza ma è nulla per me. Bisognerebbe sapere con certezza chi è il possessore di quelle carte e vedere di ottenerle per amore, o rubarle."

"Come si fra a saperlo?"

"Cercheremo.. Se ci fosse Girolamo Ammirata, potremmo saperlo..."

"Dov'è don Girolamo?"

"A Napoli: non osa venire. Forse ci sarebbe utile... Per l'affezione che portava a vostra Eccellenza, credo che farebbe tutto quello che gli ordinerebbe. Bisognerebbe che vostra Eccellenza domandasse la sua grazia: non gliela negherebbero e sarebbe giustificata dagli antichi rapporti..."

Il birro non ebbe questa volta abbastanza tatto, o forse non supponeva che Emanuele facesse sforzi per dimenticare il passato, e che non sentiva nessun sentimento di riconoscenza verso il razionale dell'ospedale civico.

Emanuele, infatti, a quelle parole era arrossito e aveva provato un sentimento di ripugnanza, ma l'interesse fu più forte, e rispose evasivamente con un Tenterò, - e accomiatò il birro, dopo avergli regalato una borsa di denaro, e raccomandato di investigare per suo conto.

Matteo Lo Vecchio se ne andava a casa col suo passo consueto, almanaccando; nessuno gli levava dal capo che quelle famose carte Blasco le avesse restituite alla setta, e con molta probabilità dovevano essere in potere o di don Girolamo o di Coriolano della Floresta, giacchè non metteva in dubbio che il cavaliere fosse qualche cosa nella setta stessa. Non ne aveva le prove sicure, perciò non aveva potuto denunziarlo, ma ne era profondamente persuaso. L'amicizia con Blasco gli forniva il più bell'argomento d'induzione.

Come giungere a Coriolano e a Blasco? Egli era troppo conosciuto, si era troppo esposto in questa faccenda per agire direttamente, e se aveva suggerito il nome di don Girolamo, gli era perché gli pareva il mezzo più diretto e sbrigativo. Ma cammin facendo, un'altra fisionomia gli affiorò alla mente: Andrea. Come mai non vi aveva pensato prima? Andrea stava ancora al servizio di Emanuele, cosa per nulla straordinaria, perché in quei tempi un servitore era sicuro di morire nella stessa casa dove era stato a servire fin da ragazzo, ma non ne era soddisfatto.

Egli sperava che per i servizi resi, e per essere stato il servo fidato del fu duca, Emanuele lo avrebbe fatto il suo maggiordomo, il suo maestro di casa, fornendogli insomma i mezzi di conquistare una certa agiatezza. Ma Emanuele, tenendolo nella sua casa aveva creduto di fare una gran cosa, e Andrea era rimasto confuso con gli altri, senza alcuna distinzione. Ciò lo aveva reso malcontento, un po' sornione e amante della poltroneria.

Egli ingrassava e trovava sempre dei pretesti per uscire dal palazzo, e andare bighellonando per le strade, non sdegnando neppure di fermarsi in qualche taverna a bere coi facchini di piazza o con qualche artigiano.

Nei primi giorni del suo ingresso, forte del suo passato e dei pericoli corsi, aveva creduto di poter far pesare la sua autorità sopra gli altri servi, ma, convintosi di non essere sostenuto dal padrone e che si circondava di odi e s'isolava, mise da parte le sue velleità e prese quell'altra determinazione più comoda e con minori impicci.

Ma tutto l'amore ideale, quel senso di devozione illimitata e pronta al sacrificio, che egli aveva giurato al suo padrone moribondo e col quale si era gettato nell'impresa, si era dileguato dal suo animo.

Si ridestava qualche volta, quando ad Emanuele toccava qualche disavventura. Allora si arrabbiava:

"Perché mi lascia da parte? Perché non si fa accompagnare da me?... Io non sono di quelli che fuggono!... Io ho combattuto contro i turchi."

Il suo dispetto raggiunse il colmo, quando Emanuele partì per Roma e non lo scelse a far parte del seguito.

"Ora è finita! - si disse con amarezza; - è finita davvero. Se potessi trovare un'altra casa, me ne andrei... Ma dove andare se sono affezionato a questa?...".

In una delle taverne dove bazzicava aveva incontrato e conosciuto Michele Barabino, sempre povero, ma non più accattone. Ora egli cominciava a fare qualche vestito alla povera gente, giacchè non aveva tanto da rimettere su bottega e da aspirare ad una migliore clientela. Una volta che vide passare Blasco cominciò a parlarne con entusiasmo ad Andrea.

"Che uomo! che uomo!..."

"Lo conosco," disse Andrea seccamente.

"Ah! lo conoscete? Ne sono contento. Che uomo! che cuore! Se voi sapeste quello che mi ha fatto!..."

Cominciò a raccontargli tutti gli episodi dei quali egli era stato oggetto o attore in un tempo, e nelle sue parole vibrava quella viva e profonda ammirazione che pervade gli animi devoti.

"Credete a me, meriterebbe essere lui il duca della Motta, non quel pagliaccio di don Emanuele!... Sì, lui! È più bello, più grande, generoso, valente. Che ci desiderate di più?"

Da quel giorno il buon vecchietto fu così lieto che Andrea conoscesse don Blasco, che trovava il modo di parlarne sempre, raccontando le medesime cose, col medesimo entusiasmo.

"Già, sentite: il primo vestito gliel'ho venduto io!.."

Andrea cominciò a pensare anche lui che Blasco sarebbe stato più degno di succedere nell'eredità e nel titolo, che non Emanuele; Blasco era tutto suo padre: lo stesso valore, la stessa indole generosa e cavalleresca, lo stesso disinteresse signorile, la stessa audacia. Emanuele era invece tristo e gli mancava qualche cosa. E poi!...

Pensava ancora che prima, quando egli si era gettato perdutamente contro don Raimondo per reintegrare Emanuele nella sua eredità, aveva provato una diffidenza gelosa e quasi un senso di antipatia contro Blasco: lo avrebbe anche ucciso e intanto sia per i racconti del sarto, che per quello che egli sapeva, aveva finito col domandarsi se per fare di Emanuele quello che era diventato, fosse valsa la pena di scannare don Raimondo.

Matteo Lo Vecchio scovò Andrea in una taverna, al Capo, a bere con Michele Barabino, ma non l'avvicinò. Entrò anche lui e domandò un bicchiere di vino, ma senza sedere, stando in piedi dinanzi al banco e fingendo di non aver veduto Andrea.

Andrea lo indicò con un'occhiata significativa al suo compagno.

"Ecco il patriarca dei birri!" disse sotto voce.

"Libera nos donao!" disse Michele Barabino che si piccava di infiorare con qualche frase latina la sua conversazione.

Matteo Lo Vecchio bevve a tre riprese, assaporando il vino, e voltandosi con indifferenza a guardare in giro per la taverna. Finse di accorgersi proprio allora di Andrea e fece un gesto col capo, come per dire: "Ahimè! ecco quel bel soggetto!...".

Pagò e uscì.

Qualche giorno dopo ritornò ancora una seconda volta, rifacendo la stessa mimica significativa, che mise Andrea in sospetto. "Che diavolo vuole quel figlio di cane?" disse fra sè.

E quando il birro se ne fu andato, uscì in una bestemmia e in una minaccia.

"Sangue di... Finirà che gli scucio il sacco della..."

E disse una parola ributtante.

La terza volta che si videro, infatti, Andrea lo guardò con aria di risentimento e di sfida:

"Insomma, avete qualche cosa da dirmi?"

Matteo Lo Vecchio alzò le spalle, con una espressione che voleva significare: "Che imbecille!...".

E disse forte:

"Io? nulla. Se avessi voluto dirvi qualche cosa, a quest'ora, caro mio, non stareste qui a bere..."

"Che intendete dire?"

"Niente, amico mio; voi avete tanta intelligenza!... Statevi bene."

Se ne uscì, ma Andrea si alzò e lo rincorse, mentre Michele Barabino cercava di trattenerlo.

"Lasciate andare... Sapete chi è; vi rovinate."

Ma Andrea non gli diede retta. fermò il birro, ripetendo la domanda:

"Voglio sapere che cosa avete da dirmi..." Matteo Lo Vecchio fece un viso sarcastico:

Se lo volete proprio sapere, potrei farvelo dire dal signor Capitano di giustizia, o meglio dall'auditore fiscale... Non serve che facciate quegli occhi e mettiate le mani in tasca, amico mio, perché dovreste capire che, se avessi voluto, a quest'ora voi non stareste qui a discorrere con me... Avreste già fatto conoscenza con "la vecchia che fila." Andrea impallidì e con tono più dimesso osservò:

"Credo che vi sbagliate..."

"Eh, no, per bacco!... Sarebbe bella se non vi conoscessi io, Andrea Lo Bianco. Avrei qualche conto da aggiustare con voi, conto personale, badiamo, e salvo il diritto della gran Corte Criminale, ma avreste dovuto notare che io vi ho guardato, sorridendo... Il che è la prova più evidente, che non ho nessuna idea ostile contro di voi... Tutt'altro! E poi... Avreste dovuto vedermi a palazzo, dal momento che l'illustrissimo signor duca, vostro amato padrone, più volte mi ha fatto l'onore di chiamarmi."

Andrea aveva avuto tutto il tempo di tranquillizzarsi e di fare mentalmente questa riflessione:

"Egli ha ragione. Se avesse voluto denunciarmi, l'avrebbe fatto, e se avesse ora cattive intenzioni, non mi terrebbe questo discorso".

Nondimeno, per sostenere la sua parte, obbiettò ancora:

"Non so di che cosa vogliate parlare: non ho nessun conto con voi, e a palazzo non vi ho veduto."

"Ah, bugiardo!" disse ridendo Matteo Lo Vecchio, dandogli un colpetto con la mano sulla spalla. "Ma lasciamo andare. Venite a bere con me; non qui. C'è quel chiacchierone del sarto... Lo conosco."

Lo trascinò verso il piano di San Cosmo, in una taverna dalla quale si vedeva la vecchia casa di Girolamo Ammirata e il vicolo degli Orfani e come per caso lo spinse a sedere a un tavolo, di fronte alla porta, in modo da veder fuori. Mescendo da bere, il birro ammiccò alla casa, e disse:

"Vi ricordate, eh?... Povero don Girolamo! è vedovo, mi pare; non è vero?"

Andrea assentì col capo, sconvolto da quel richiamo e insieme dalle persone che gli parevano tanto lontane.

"Veramente," continuò il birro, "non avrei supposto mai che il signor duca non avesse preso con sè il suo salvatore o che, almeno, non gli avesse procurato una fortuna."

Andrea trasalì. Come lo sapeva?

Matteo Lo Vecchio continuò con apparente bonomia:

"Perché infine non soltanto gli deve il suo stato, ma don Girolamo rischiò di rimetterci il collo... Fu a un pelo. Io posso saperlo. E anche voi, Andrea. Don Raimondo sapeva tutto... Queste sono cose di cui ora si può parlare. Acqua passata. Ma allora!... Vi ricordate quel vicolo? Una notte poco mancò che non vi arrestassi; vi salvò il bastardo, don Blasco... Dovete ricordarvene... Io vi avevo nelle mani e don Raimondo sapeva tutto... anche il processo, il processo che avete fatto voi con tutte le testimonianze. Peppa, Giuseppico..."

Senza volerlo, Andrea si sentiva imbarazzato e non sapeva più che cosa rispondere. Matteo Lo Vecchio continuò:

"Io ero costretto a cercarvi e a perseguitarvi, ma, parola d'onore, non sapevo che don Raimondo fosse quello scellerato che era. Lo credevo una vittima. Quando però lessi il processo..."

Andrea balzò dalla sedia, bianco come un cencio.

"L'avete letto? Come l'avete letto?..."

"L'ho avuto nelle mani..."

"Ah!... Voi?... Ecco perché non si è più trovato!... L'avete voi, dunque?"

"Io? no... Non l'ho..."

"L'aveva don Raimondo, allora?..."

"Ma che! L'avrebbe pagato un milione, lui, per averlo!... Ma suppongo che l'abbia don Girolamo..."

"No, non l'ha, non l'ha più avuto!" gemette Andrea.

Egli ebbe paura. Da quel processo scaturiva evidente la sua compartecipazione alla setta dei Beati Paoli e sebbene da quattro anni si fosse appartato, pure aveva ragione di temere che la giustizia avrebbe potuto mettergli le mani addosso, per l'uccisione di don Raimondo e per altri delitti rimasti nell'ombra. Un pensiero gli balenò nella mente: che Matteo Lo Vecchio lo avesse destramente abbindolato e tratto in agguato, per strappargli la confessione che involontariamente s'era fatto sfuggire. Guardò il birro e gli lesse nel volto uno stupore e un rincrescimento così sinceri, che ne fu un po' rassicurato.

"E chi ha dunque quel processo?" domandò il birro.

"Non ne so nulla, ma bisognerà trovarlo, a ogni costo!" disse Andrea.

Matteo Lo Vecchio rimase un po' pensieroso, poi disse:

"Io ho dei sospetti, ma non posso approfondirli..."

"Cioè?" domandò vivamente Andrea.

"Ci scommetterei che l'ha don Blasco..."

"Lui? Come l'avrebbe lui?"

"Perché so da sicura fonte che lo ebbe nelle mani. Ora, o egli lo restituì a don Girolamo, o lo tiene con sè, salvo che non lo abbia distrutto... il che sarebbe desiderabile... Se vi preme, dovreste appurarlo..."

"Io?..."

"Eh, io no di certo. Prima di tutto perché non me ne importa nulla e secondariamente perché sarei sospettato. Ma voi, è un'altra faccenda... Si dirà che è per interesse del vostro padrone. Però bisognerebbe essere sicuri, sicurissimi, che non sia stato restituito a don Girolamo... E don Girolamo è a Napoli..."

Per questa volta il discorso rimase lì. Andrea se ne tornò al palazzo con l'animo turbato, sentendosi in balia del birro; nè valeva a rassicurarlo l'aspetto amichevole assunto da Matteo Lo Vecchio e il fatto di non essere stato molestato fino allora. Era evidente che quel colloquio era stato cercato, e che il birro aveva bisogno di alcune notizie, che forse aveva avute. Andrea si rifaceva mentalmente il dialogo, per vedere se mai si fosse lasciato scappare qualche parola compromettente.

Da quel giorno non ebbe più pace. Suo malgrado, andava in traccia di Matteo Lo Vecchio, o meglio faceva in modo da lasciarsi incontrare, parendogli così di poterlo tenere d'occhio e di potersene più facilmente guardare. Il birro non smetteva quell'aria di bontà e quasi di protezione e non parlava mai del passato. Si informava del processo per la nullità del matrimonio, che appassionava la città.

"Ce ne vogliono denari, caro mio; bisogna andare a Roma col sacchetto così, come dice il "re di bronzo" del piano dei Bologna. I monsignori hanno le mani grandi e le tasche come bisacce."

Ma il silenzio di Matteo Lo Vecchio e la sua cura di evitare ogni discorso sulle famose carte insospettivano sempre più Andrea e gli destarono nel cervello questa idea: "Il birro sta macchinando qualche grossa birbonata".

Ed egli ne fu come ossessionato e diventò aspro, collerico, sospettoso, adombrandosi di ogni piccola contrarietà e credendosi spiato e sorvegliato.

I suoi sospetti crebbero, quando un mese dopo vide presentarglisi don Girolamo Ammirata.

"Voi?"

"Io, proprio!... Sono arrivato stamattina..."

"Graziato?"

"Graziato!..."

"Oh, che piacere!... Cioè, non so se debba consolarmene, caro mio, o se sarebbe stato preferibile rimanervene a Napoli!..."

"Senti! Perché dite così?"

"Sapete chi vi ha fatto graziare?"

"Ma sì, che lo so, e vengo appunto per ringraziare Eman'.. il signor duca della sua sua bontà d'essersi ricordato di me..."

"Siete sicuro che sia stato il duca?"

"Chi diamine volete che si fosse preso questa briga?"

"Chi? Matteo Lo Vecchio..."

"Eh!.."

"È come vi dico io. Noi siamo nelle sue mani. Il birbone conosce quel tale processo che fu fatto a don Raimondo... E lì ci sono i nostri no mi e cognomi... Egli ci ha fatto riunire qua per consegnarci tutti quanti alla giustizia. Sentite me; bisogna mettersi in salvo."

Don Girolamo sulle prime rimase sconcertato da quella notizia, ma, riflettendovi sopra, non gli sembrò che reggesse. Che egli appartenesse alla setta lo sapevano, ed aveva dovuto fuggire appunto per questo: e se lo graziavano, ora, voleva dire che l'assolvevano di quella colpa per la quale s'era allontanato. E lui c'era il mezzo di accertarsene ed cercò di avvicinare Emanuele.

Egli non era in casa e don Girolamo sedette nella sala dei servi ad aspettarlo, parlando con Andrea e informandosi di mille piccole sciocchezze. Andrea gli parlava del matrimonio di Emanuele, degli scandali avvenuti, del processo, ma ad ognuna di queste notizie don Girolamo diceva:

"Lo so."

"Come lo sapete" gli domandò stizzito Andrea.

"Bella! come lo so?... Da che mondo venite?..."

"Dunque anche da Napoli?..."

"Ma certo!... Capisco il vostro stupore, perché voi ora "siete turco"; ma..."

Il rumore di una carrozza nel vestibolo, il subito affaccendarsi dei servi e l'atteggiamento rispettoso col quale si schierarono lungo la sala avvertirono che giungeva il duca. Andrea corse a mettersi in riga con gli altri, dicendo:

"Ecco il padrone."

Don Girolamo si alzò e guardò, non senza una viva commozione. Per quanto si fosse separato da Emanuele col cuore amareggiato e non avesse mai ricevuto una parola, un saluto, non poteva cancellare dall'animo che per più di sedici anni l'aveva tenuto come un figliuolo, e che per tutto quel tempo era stato la pupilla degli occhi della povera signora Francesca; e tutte le memorie del passato, dolci e tristi ad un tempo, gli sgorgarono dal profondo dell'anima. Il cuore gli batteva e i suoi occhi s'inumidivano.

Vide due valletti precedere con le torce in mano, come se accompagnassero il Viatico, e dietro a loro, diritto, superbo, col capo eretto, senza abbassare lo sguardo, il passo rigido, Emanuele, in un abbigliamento ricchissimo ed elegantissimo, seguito da altri due valletti, uno dei quali portava religiosamente sulle braccia stese il mantello, e l'altro un ombrello di seta rossa. Egli attraversò la sala fra i servi divisi in due file, che s'inchinavano con gesto più che di sommissione, di adorazione; passò dinanzi a don Girolamo degnandolo appena di uno sguardo, ed entrò nelle stanze le cui porte si chiusero dietro le sue spalle.

Don Girolamo sentì stringersi il cuore: uno sguardo, e null'altro! Non l'aveva dunque riconosciuto? O la superbia e la vanità avevano inaridito ogni sentimento nel cuore di Emanuele? Aspettò che gli fosse concesso di entrare al cospetto del signor duca, ma, dopo tre quarti d'ora di attesa, un valletto venne a dirgli che sua Eccellenza, pure apprezzando l'attenzione del signor don Girolamo, non poteva in quel momento riceverlo, perché doveva cambiare vestito per andare a conversazione.

Don Girolamo scese le scale a capo basso, amareggiato da un dolore sdegnoso e si recò al palazzo della Floresta.

Raccontò ogni cosa a Coriolano e concluse con un sospiro di profondo rammarico:

"Ed ecco in favore di chi abbiamo esercitato giustizia!"