Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte quarta, capitolo 18

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Matteo Lo Vecchio, furibondo in cuor suo per il tiro giocatogli - come credeva - da donna Gabriella, ma dissimulatore esperto, aveva sopportato con apparente sommissione le sfuriate di Emanuele, che pure s'era creduto raggirato dal birro e per poco non lo aveva rotolato giù dalle scale.

Ripetendo: "Vostra eccellenza ha ragione; ma sono stato preso da quel demonio di femmina" Matteo Lo Vecchio scendeva in fretta, evitando i calci di Emanuele, ma in cuor suo giurando di vendicarsi aspramente di lui e di donna Gabriella.

La duchessa non si era fatta trovare all'appuntamento il giorno stabilito, nè quello seguente; pareva non osasse uscire di casa, perciò Matteo non potè vederla in carrozza, nè in portantina, per quanto le tenesse la posta. Questa sparizione riconfermò nel birro l'idea che donna Gabriella avesse agito in quel modo per suggerimento di Blasco e di Coriolano e che qualcuno di loro avesse costruito quel fascicoletto di stupidità cabalistiche. Egli non discuteva neppure la possibilità che la duchessa a sua volta avesse potuto agire in buona fede.

Concluse in cuor suo: "Qui bisogna fare un colpo generale. Vediamo un po'. Tre giorni or sono fu ammazzato il fiscale del principe di Belsito: due carabinate di notte, ed è l'usanza dei Beati Paoli; ieri sera fu bastonato il cavaliere di Sant'Alessio, perché tentava di forzare la casa del piffero Carusello, che ha una bella figlia di diciassette anni e non si potè sapere chi fossero i bastonatori, e anche questa è usanza di quei diavoli. Il piffero è stato questa volta il signor cavaliere, ma non gli sta male... La setta dunque ha ripreso vigore. Ed era da aspettarselo, ora che sono ritornati gli spagnoli... Il cavaliere della Floresta e quel suo amicone del bastardo, sono spariti a un tratto nella piazzetta dei SS. Quaranta. Dove sono entrati? Nella torre? Nella chiesa? Ah! Sentivo raccontare quando ero ragazzo che c'è un sotterraneo, dove il Sant'Offizio una volta teneva le sue carceri... Senti! Senti!... Se è vero, non c'è dubbio che quei diavoli vi si vadano ad annidiare. Ora lo saprò".

Mosso dalla curiosità e dall'interesse, il birro si recò al Sant'Offizio per cercarvi qualcuno dei famuli suoi amici, e veramente il suo ricordo di fanciullezza non era infondato.

Circa due secoli innanzi, prima ancora che il Tribunale della Inquisizione avesse stabile sede nel Castello a mare e poi nel palazzo dello Steri, aveva dimorato per pochi anni nel palazzo Marchese, la cui torre non era stata ancora ridotta a campanile; ed era fama che nelle grotte o catacombe che si stendevano sotto la chiesa di Casa Professa e sotto la piazzetta avesse tenuto le prigioni.

Era dunque evidente per lui che i Beati Paoli avessero trasferito la loro sede in quel sotterraneo, e che con un solo colpo, più sagace e meglio preparato del primo, senza molti preparativi, senza mettere in mezzo troppe persone, si poteva coglierli tutti. Ciò che lo riempiva di gioia era l'avere scoperto che Blasco era tornato in grembo a quella setta; questo gli permetteva di prendersi una rivincita agli occhi del Vicerè.

Matteo Lo Vecchio continuava: "Questo per quanto riguarda quegli amiconi; ma per la signora duchessa bisogna trovarne una che valga cento. Vediamo un po'. Ella non viene, e se l'attirassi in... Ma quel diavolo di Andrea mi fa una faccia così sospetta!...

Scommetto che anche lui è ritornato tra i compagnoni. Bisogna mettere in guardia don Emanuele".

Due giorni dopo Andrea fu licenziato.

Egli osò domandare il perché di quel congedo che lo scacciava dalla casa dove era cresciuto, ma il maestro di casa disse seccamente:

"Ordine di sua Eccellenza, che non ha bisogno dei tuoi servizi..."

Andrea chinò il capo con una espressione di dolore che si tramutò in sdegno e odio.

"Va bene" disse; "ma mi cercherà un giorno... e allora!..."

Lasciò sospese quelle parole in un suono di minaccia e subito andò a trovare don Girolamo, che aveva ripreso il suo ufficio di razionale allo ospedale, e gli narrò la sua disavventura.

"Bisognava aspettarsela, caro mio; quel ragazzaccio non è figlio del fu don Emanuele, ma dell'ingratitudine stessa."

"E tutta opera del birro, ve lo dico io; ma per la Madonna..."

"Sss!... Baccaglio!"

Si posero a spiare tutto ciò che faceva il birro, alla cui calcagna sguinzagliarono tutta una muta di segugi dall'odorato fino, irriconoscibili e insospettabili sotto le spoglie di confrati delle Anime del Purgatorio o dell'Ecce Homo, ovvero camuffati da venditori ambulanti.

Essi poterono accertare che Matteo Lo Vecchio aveva frequenti rapporti con Emanuele, non già nel palazzo della Motta, ma nelle contrade suburbane e sempre in luoghi diversi. Uno di questi abboccamenti, il più lungo, aveva avuto luogo presso la Zisa, in una casetta solitaria che essi studiarono. Questa notizia fece raddoppiare la vigilanza: Coriolano intuì qualche macchinazione, e per mezzo di don Girolamo impartì gli ordini opportuni.

Così passarono alcuni giorni. Matteo Lo Vecchio era diventato più guardingo ed Emanuele conduceva un regime di vita che non destava alcun sospetto. Probabilmente il birro aveva capito d'essere pedinato e sorvegliato.

Una mattina, nella chiesa di S. Domenico, una vecchia curva che si trascinava appoggiandosi ad un bastone, mentre recitava il rosario, si avvicinò a donna Gabriella che stava seduta in una sedia a bracciuoli dinanzi alla cappella del Crocifisso, per domandarle la elemosina. I due lacchè che le stavano dietro a una rispettosa distanza, si avvicinarono per scacciare l'importuna, ma la vecchia sdegnata disse:

"Oh via! siamo nella casa di Dio, e siamo tutti figli suoi... e poi - e abbassò la voce in modo che solo donna Gabriella potesse udirla: vostra Eccellenza potrebbe sapere da me qualche cosa che le importa. Vengo dal monastero di S. Caterina..."

"Ah!"

Donna Gabriella disse a uno dei lacchè: "Dalle qualche tarì, e lasciala stare."

La vecchia si segnò con la moneta, si inginocchiò, baciò in terra, mormorando:

"Che il santo patriarca S. Domenico e la Madonna del Rosario le diano la salute del corpo e dell'anima, e Dio glielo paghi, ora e nell'ora della morte e così sia. Santa Maria, madre di Dio..." Ma la duchessa s'impazientì.

"Che cosa potete dirmi?"

"Ecco, Eccellenza: io vado sempre al monastero di S. Caterina, dove mi fanno la carità... e m'ha preso a voler bene, bontà sua, la nipote del signor principe di Butera, che è sua parente. Ieri, a chiusura della chiesa, mi chiamò da uno dei comunicatori del cappellone. Dice: "Anna mi chiamo così per servire vostra Eccellenza; - Anna, mi fate un favore?" "Vostra eccellenza mi comandi" - dico io. Dice: "Dovete andare a trovare la signora duchessa della Motta, che vi farà l'elemosina, e le direte che io mando a salutarla...". Ed eccomi qui, Eccellenza."

Donna Gabriella provò un senso di dispetto; per quel saluto non valeva la pena aver ascoltato quella vecchia. La congedò con un gesto e la vecchia se ne andò, strascinandosi e biascicando il rosario.

La mattina dopo la vecchia andò al monastero di S. Caterina, e fatta chiamare la signora Violante Albamonte, le raccontò la stessa storiella, portando però i saluti di donna Gabriella; e così per parecchi giorni da S. Domenico a S. Caterina e da S. Caterina a San Domenico; ma dopo quattro giorni non trovò Violante: la fanciulla, ricaduta nella sua afflizione, era uscita dal monastero e, poichè la stagione non era ancora troppo calda, il principe di Butera l'aveva condotta nella sua villa di Bagheria, per rifarsi.

La vecchia ne parve desolata, ma uscendo dal monastero si fregò le mani dicendo, con visibile gioia:

"Meglio! meglio di così non può andare! Se conoscessi il medico, andrei a dargli un bacio a pizzico!...".

Quella sera Matteo Lo Vecchio dopo aver aspettato che Emanuele uscisse dall'arringo, al "firriato" di Villafranca, gli disse rapidamente:

"Bisogna mutare tutto. Vostra Eccellenza giudicherà."

E con poche parole gli spiegò quello che aveva architettato.

Il volto di Emanuele si illuminò di viva gioia.

"Benone! Per dio! Voi siete un genio!.."

L'occhio sospettoso di donna Gabriella notò quel giorno un non so che di insolito e febbrile nello sguardo e in tutto l'aspetto di Blasco, ma lei represse dentro di sè la curiosità dolorosa, temendo di provocare il risentimento dell'amante e si sforzava di essere tranquilla e gioconda, anche perché sperava di poter con questo sorprendere qualche indizio che la mettesse sulla buona strada.

Lei, ora, viveva in una continua apprensione, tormentandosi per ogni nonnulla, dando corpo a ogni ombra, ingrandendosi i pericoli, vedendo anche, nelle più innocenti parole o nei più semplici atti, rivelazioni di infedeltà e di tradimenti e interpretando sempre un significato recondito sotto ogni parola. Blasco era ilare? Ella si domandava: "Perché è ilare? ha forse ottenuto qualche vantaggio?". Blasco era triste? E lei si chiedeva: "Perché è triste? forse non l'ha veduta". Andava più presto, o sceglieva una strada piuttosto che un'altra? e lei si torturava con altre domande. La sua festevolezza, il suo spirito giocondo, le sue grazie che serbavano qualche cosa di infantile, si affievolivano, si spegnevano; passava delle ore in una cupezza da misantropo, guardando il cielo con un dolore profondo e invincibile, cercandovi invano un raggio di consolazione.

Giugno intanto scorreva dolce e odoroso in un prolungarsi di primavera. Tutte le campagne verdeggiavano e nei piani mareggiavano ancora i frumenti alti e biondi aspettando la falce. La festa del Corpus Domini celebrata con maggior concorso per il ritorno dei preti e dei frati dall'esilio e per le benevolenze che fra la Corte e la Curia si rinnovavano, aveva diffuso anche nel piccolo villaggio sorto intorno alle ville signorili una giocondità luminosa.

Violante provava un gran sollievo in quella campagna, tra le colline selvagge, il piano ubertoso, il mare azzurro e sereno. Dai boschetti che circondavano la palazzina (che aveva ancora qualcosa del castello) di mattina e di sera giungevano nella sua camera i saluti ora vivaci e petulanti dei passeri, ora teneri e malinconici dei rosignoli. Talvolta, però, l'alto silenzio era interrotto dal gracchiare lontano dei corvi, e nella dolce quiete dello spirito quel gracchiare sembrava a Violante una voce triste di più tristi presaggi.

Il principe di Butera, dopo aver trascorso una settimana nella villa in compagnia della nipote, era ritornato a Palermo, lasciando Violante in compagnia di due vecchie signore, cugine del principe, le quali, rimaste zitellone e mantenute dalla casa, erano solite andare a vivere per alcuni mesi in campagna. Tutte erano state poi affidate alla custodia del castaldo o governatore di quei beni e dei vassalli del principe.

Altre ville andavano sorgendo nei dintorni: sul colle già troneggiava quella dei Valguarnera, eretta fin dal 1709; più in giù il principe di Palagonia costruiva la sua, che un nipote doveva più tardi rendere celebre con le stranezze della sua decorazione; quella di S. Flavia, quella del principe Furnari, più antiche, serbavano ancora qualche torre e qualche muro merlato: tutta la contrada era sparsa di casolari e di ville, popolata di gente devota ai padroni e ardita. Il principe di Butera, dunque, poteva stare tranquillo che le sue donne erano sicurissime in quella villa, meglio che nel suo palazzo urbano.

Un bel giorno Violante, stando seduta nella sua camera, udì più o meno lontano per il folto del bosco uno spesseggiare di schioppettate. Domandò che cosa fosse: seppe che erano dei signori venuti da Palermo a cacciare: il colle, infatti, abbondava di conigli selvatici e nel vicino fiume, l'antico Eleuterio, non ancora disseccato dall'inoltrarsi della stagione, v'erano anitre selvatiche.

La caccia doveva essere ricca e piena di attrattive; infatti, dopo un'interruzione (forse per desinare) i cacciatori ripresero e le schioppettate si udivano ora assai più vicine.

Violante si affacciò alla finestra; vide le due signore che, appoggiandosi ciascuna a un bracciere, s'avviavano per un viale verso il bosco. Probabilmente andavano ad assistere alla caccia: dapprima anche lei ebbe un impulso di curiosità giovanile e stava per dire:

"Aspettate, vengo anch'io!..."

Ma non disse nulla, come se qualcosa di ignoto inconsapevolmente le avesse chiuso la bocca. Del resto, stava così bene nella solitudine!... e in quell'ora pareva che il rumore della caccia, attirando a sè la curiosità, avesse creato il silenzio intorno alla palazzina. Violante non vide alcuno. Quando le signore si dileguarono nel folto delle piante, il luogo parve deserto.

Ella sedette, abbandonandosi, come faceva sempre, a quell'inerte e vago stato della mente, che sembra pensare e in verità non può nè sa dire che cosa pensi; è come un vagabondare in una successione di idee fuggenti, di cui nessuna può essere raggiunta e fermata.

I colpi parevano più lontani, ma più frequenti e Violante non vi prestava più orecchio.

A poco a poco pareva che le due idee si congiungessero, prendessero forma e corpo, si identificassero in una. Era il suo pensiero dominante, che invano respingeva; invano tentava di annullarlo sotto il cumulo di altri pensieri e di altre immagini: esso risorgeva sempre, più forte, più tormentoso, sovrapponendosi vittoriosamente su tutto, impadronendosi del suo cervello, penetrandole nel sangue, occupandole il cuore, signoreggiandola tutta, prostrandola. E allora, impotente a reagire, Violante vi si abbandonava e il suo cervello non aveva che quel solo, unico, tremendo pensiero: Blasco.

Ella pensava dunque a Blasco non tormentandosi con inutili domande, non morsa dal dente della gelosia, ma con quello stesso animo col quale si torna a un bene disperatamente perduto, e perduto per sempre! Dolore chiuso, senza scoppi, senza gemiti, senza tregue; profondo, disperato!...

Riandava il ricordo di una vita trascorsa come in un sogno, dileguatosi all'apparire di un'alba rattristata dalla nebbia, senza sole e senza calore.

La camera dove abitava, era, come le altre, poco elevata dal suolo: un uomo montato sopra una sedia o sopra un sasso poteva senza stento mettere le mani sul davanzale. La finestra era aperta: Violante s'era avvicinata a un tavolino e aveva preso un libro di preghiere, solo conforto nella sua solitudine.

Ad un tratto le parve che la luce fosse intercettata da qualche cosa; si voltò rapidamente e mandò un grido di spavento, ma prima ancora di avere il tempo di riaversi, un uomo era balzato nella camera ed era corso a chiudere e sprangare la porta.

Era Emanuele.

Violante si vide prigioniera, non aveva che un varco: la finestra. Corse per buttarsi, ma sotto la finestra c'era un uomo armato, una faccia trista da galeotto. Si vide perduta.

"Che cosa volete?" domandò tremante, frenando a stento la paura che le illanguidiva le gambe; "che cosa volete?"

Emanuele era sconvolto anche lui, ma il turbamento gli aveva conferito un aspetto selvaggio, feroce, bestiale. Rispose:

"Che cosa voglio? Oh, quasi nulla, signora, salvo che regolare un conto con voi, se non vi spiace..."

"Non ho conti... Quello che passa fra me e voi, ora, è in mano di monsignor giudice della Monarchia... Andatevene... Chiamerò gente!..."

"Oh! oh... capisco, mia cara, donna Violante, che la forma di entrare che io ho scelto non è la più corretta, ma è certamente più rapida e risparmia molte seccature... D'altra parte vi avverto che è perfettamente inutile affannarvi a chiamare, non vi udirebbe nessuno. La villa è deserta; i vostri villani assistono alla magnifica caccia che ho organizzato fino da stamattina... in onor vostro... Voi dunque siete interamente in potere mio e io ho, verso me stesso, l'obbligo imprescindibile di una rivincita del ridicolo di cui mi avete coperto..."

Violante non udiva bene; nello stato di commozione in cui si trovava, quelle parole le sonavano all'orecchio confusamente ed ella non ne riceveva una grande impressione di minaccia. Guardava Emanuele per sorprenderne le intenzioni prima ancora che si traducessero in gesto, quasi per prevenirlo, e guardava quella finestra che avrebbe potuto essere la sua salvezza e che invece era un'altra insidia.

Le parve di vedere fra gli alberi qualche altra figura torbida e minacciosa; suppose che altre ve ne fossero dintorno alla villa, e che essa era bloccata. Questa supposizione la scoraggiava. Se avesse avuto una speranza di pronto aiuto o la possibilità di far giungere il suo grido ai contadini lontani.. avrebbe ripreso animo; ma nell'abbandono, nella solitudine in cui si trovava, si sentiva venir meno e la coscienza di questa sua debolezza accresceva il suo smarrimento.

Un sudore freddo le bagnava la fronte; il cuore le mancava.

Tentò una difesa.

"Io non vi ho fatto nulla... sono una povera orfana!... Quello che dite è una cosa scellerata, mostruosa!... Lasciatemi, ve ne supplico!..."

Emanuele prese una seggiola, vi si pose a cavalcioni, appoggiando le braccia sulla spalliera, con un'aria di sfida e di canzonatura.

"Ah! ah! ah!... Mi supplicate? Bellina in verità!... Ma io sono buono, sono generoso... Su, venite qua, accostatevi... Sedete accanto a me, anzi, guardate un po', io mi accomodo meglio e vi offro le mie ginocchia come il più bel sedile che si possa trovare... Ma venite!... Non sono poi un mostro, io; e voi siete ragionevole... No? Non vi movete? Non volete venire? Allora verrò io da voi, come disse Maometto alla montagna. Il tempo passa ed io... aspetto un'altra graziosa visita... qui!..."

Si alzò in piedi e si avvicinò a Violante. Ella si sentì piegare le gambe e si appoggiò allo stipite della finestra lasciandosi cadere per terra con le mani giunte, con una espressione di terrore e di preghiera:

"Per pietà!... fatelo per la memoria di vostra madre!..."

Un'ombra passò sul volto di Emanuele; il suo aspetto si alterò, la sua voce diventò cupa e vendicativa.

"Perché ricordate mia madre in questo momento?... Mi ricordate, senza volerlo, che anche a mia madre devo una rivincita... Sapete, donna Violante, chi uccise mia madre e voleva anche sopprimere me? Non lo sapete? Ebbene ve lo dirò io: fu l'uomo che usurpò il mio nome e il mio patrimonio; fu don Raimondo... fu vostro padre!"

Violante divenne rossa di sdegno: le sue pupille si accesero di una bella fiamma che parve infonderle una improvvisa vigoria nel sangue.

Balzò in piedi, gridando:

"Non è vero! Mentite!..."

Ma Emanuele alzò le spalle con un moto di disprezzo.

"Ci vuol altro che il vostro sdegno fuori posto, donna Violante, per distruggere la verità. Io vendico in voi me e mia madre... Oh! non temete, non vi ucciderò: sarebbe un peccato... Anzi..."

Le si avvicinò e con una agilità di leone afferrò per i polsi Violante, traendola a sè e mormorando:

"Siete così bella e così desidera bile, che la sola arma che si può rivolgere contro di voi sono i baci..."

La fanciulla tentò di difendersi, tentò di liberare i suoi polsi, ma invano: la sua debolezza la riprendeva; lo sforzo della sua volontà non bastava ad infonderle forza. Sentiva l'alito di Emanuele sfiorarle il volto e il lampo cupido del suo sguardo trapassarle gli occhi e oscurarle la vista. Allora gridò disperatamente: "Aiuto!"

Il rumore di una carrozza che veniva di corsa risonò nel viale; una frusta schioccò tre volte. Emanuele contò quei colpi e disse ferocemente:

"Ecco l'altra!... Ma troppo presto!"

Violante non intese le parole, perché il suo cuore, rianimato da una subita speranza, le batteva così furiosamente nel petto che le toglieva la percezione esatta. Chi era venuto? Era un soccorso? Guardò: sul volto di Emanuele balenava una gioia crudele: egli non era contrariato e non temeva; dunque la persona arrivata era certamente amica, forse un compagno di scelleratezze.

"Su!" gridò Emanuele; "non sprechiamo inutilmente il tempo!..."

E con un violento strattone trasse la fanciulla a sè, la spinse, la rovesciò sul letto. Nell'imminenza del pericolo Violante raccolse tutte le sue energie; puntellando le gambe, cercò di opporsi e di liberarsi, ma Emanuele era forte e la teneva solidamente.

"Non fate la schizzinosa," le diceva "tanto non gioverebbe a nulla..."

Un colpo fu picchiato violentemente alla porta.

Violante pensò in un attimo che se quello era veramente un soccorso a favore di Emanuele, lei era perduta irreparabilmente e che, se poteva ancora opporre una resistenza, forse avrebbe dato tempo alla gente della villa di ritornare e quella sarebbe stata la sua liberazione. Dibattendosi ed impedendo a Emanuele di soggiogarla, gli diceva con parole rotte:

"Lasciatemi! Siete un vile!.. vile!"

Due altri colpi risonarono alla porta, poi parve che si tentasse di abbatterla. Emanuele intanto era giunto a impadronirsi di un asciugamani e a passarlo sulle braccia e intorno alla vita di Violante; l'aveva stretta e legata così solidamente, che ella non potè fare uso delle mani. Allora gli fu più facile sollevarla da terra e gettarla sul letto, per impedire a Violante, che già aveva messo i piedi a terra, di sfuggirgli.

La porta si spalancò violentemente e una donna si precipitò nella camera come una furia; ma si fermò di botto al cospetto di Violante e di Emanuele gridando: "Dov'è?."

Violante la riconobbe; una lieve speranza le illuminò il volto e gridò supplicando:

"Signora!... Salvatemi!..."