Beati Paoli

di Luigi Natoli

parte quarta, capitolo 22

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Blasco era tornato dal campo di Francavilla, il 23 giugno, con due corrieri del marchese de Lede, per portare al marchese di Montemar, a Palermo, la partecipazione della vittoria delle armi spagnole.

La lettera, scritta in spagnolo, fu poco dopo pubblicata per la stampa di Francesco Cichè, tipografo di Palermo, e provocò, come era da aspettarsi, grandi luminarie e apparati nel Cassaro, Te deum nelle chiese e salve dai baluardi e dai castelli.

Blasco aveva sollecitato l'onore di portare l'annuncio di quella che pareva una gran vittoria per avere l'agio di ritornare a Palermo: aveva lasciato donna Gabriella in condizioni di spirito così depresse, che non ostante le vicende del campo e i pericoli della battaglia aspra e sanguinosa, non aveva potuto imporre al suo cuore una certa tranquillità. Egli era in preda a una viva inquietudine.

Partendo, aveva raccomandato vivamente donna Gabriella a Coriolano. Il cavaliere della Floresta gli aveva risposto:

"Le vostre raccomandazioni sono superflue. Ella non avrà nulla a temere; nessuno accuserà la duchessa..." "Ma quei bravacci..."

"Sono stati già avvisati e non oseranno fiatare... Se n'è incaricato don Girolamo..."

"Ah!... va bene, ma c'è il birro..."

"Non ve ne preoccupate. Ieri notte venne giudicato... D'altronde ho informato di ogni cosa il principe di Carini, e capirete che non è un uomo da lasciar commettere qualche violenza contro una donna della sua casa e nessun giudice oserà ordinarne l'arresto. Partite tranquillo..."

Tranquillo? oh no; Blasco aveva perduto la sua tranquillità: molte cose tristi e dolorose erano avvenute e gravavano sul suo spirito, per poter serbare l'animo sereno! Un'altra preghiera gli era venuta sulle labbra, e non aveva osato formularla; Coriolano che l'osservava, sorrise finemente, come soleva lui:

"V'intendo, caro, senza che voi mi diciate nulla. Non vi tormentate neppure di questo, vigilerò su donna Violante e vi terrò informato di tutto quello che può interessarvi."

Blasco non aveva torto di essere agitato: la morte di Emanuele aveva sollevato un grande rumore, tanto più grande per le circostanze straordinarie che l'avevano accompagnata. L'averne trovato il cadavere nella camera di Violante, nella villa del principe di Butera, pareva una cosa inesplicabile; ma non testimoniò in favore dell'ucciso, quando la fanciulla raccontò al nonno, in tutti i suoi particolari, l'attentato del quale per poco non era rimasta vittima. Il principe di Butera vide in quel fatto un affronto così grave, che la morte dello sciagurato non gli pareva sufficiente a espiarlo e ne fece vive doglianze al principe di Geraci. Ma questi, che delle scapestrerie del nipote era stufo, si strinse nelle spalle e rispose:

"Che posso farci? Non può avere maggiore soddisfazione di questa, che non muovo un passo per ottenere vendetta della morte di mio nipote."

La giustizia cominciò le sue indagini, fingendo di supporre che la mano assassina fosse stata ben altra che quella di una donna, non osando indagare la verità perché avrebbe pregiudicato tre famiglie principalissime e potentissime del regno. Ma tutto ciò se allontanava un pericolo dal capo di donna Gabriella, non valeva a dissi pare i suoi terrori, che la solitudine e la lontananza di Blasco avevano accresciuto.

La lontananza soprattutto l'aveva resa inquieta ed amareggiata: il pensiero dominante che come un tarlo le rodeva il cervello assiduamente, la riempiva di una tristezza profonda:

"L'ama egli? E Violante?".

Perché dunque il suo occhio non poteva penetrare e leggere nel profondo del cuore di Blasco e di Violante? Qualche volta lei era andata a visitare Violante, nel palazzo del principe suo nonno e vi era stata accolta con simpatia. Il principe le correva incontro, le baciava le mani correttamente cerimonioso, ma con vivo sentimento di riconoscenza, e la chiamava: "Ecco la nostra eroina!".

Ma questa allusione, evocando una scena di sangue della quale aveva orrore, le stringeva il cuore in una morsa di ghiaccio.

Anche Violante non aveva verso donna Gabriella quella durezza di modi, quel contegno orgoglioso e riservato di prima: le baciava la mano rispettosamente e la chiamava "signora madre". Adesso lei era in una condizione singolare: era vedova senza essere mai stata moglie; la morte di Emanuele aveva reso inutile la causa di annullamento, pur liberandola da quelle nozze infauste ma neppure le aveva no recato alcuna gioia. Non aspirava che a chiudersi in un chiostro e senza la decisa opposizione del nonno, da un pezzo vi sarebbe rientrata. Un giorno, in cui donna Gabriella era andata a visitare la figliastra, era venuto fuori il discorso sul monastero.

"Ma che chiostro! che monache!" esclamò ridendo il principe di Butera; "ci vuol altro che il velo. Ti sei sposata per burla, adesso bisogna sposarti sul serio, con un bel cavaliere..."

"Oh no! Eccellenza; mi perdoni, ma io non sposerò nessun uomo; il mio proponimento è irrevocabile. Perché vuole contraddirmi? Perché vuole farmi infelice?..."

"Ma sentite che idee!... A quella età!... Quando troverai un bel giovane nobile, ricco..."

Violante era divenuta pallidissima come dinanzi a un pericolo imminente. Giungendo le mani supplichevoli aveva mormorato:

"Vostra Eccellenza mi fa soffrirei. Non potrò mai vedere un uomo..."

Il principe aveva riso, ma donna Gabriella era diventata a sua volta bianca e sofferente; lei sola aveva compreso la tragedia di quell'anima che si era ad un tempo schiusa e serrata all'amore; lei sola aveva sentito sotto quel "mai potrò vedere un uomo" quello che vi era sottinteso che, cioè, quel cuore era tutto occupato, preso, sopraffatto dalla visione di Blasco. Violante lo amava, lo amava ancora, lo amava sempre, lo amava pienamente, profondamente, intensamente!... E chiudeva il suo amore con una forza di volontà e di rinunzia che stupivano lei, donna Gabriella, stupivano e addoloravano lei, che non sapeva rinunciare alla sua passione, che tremava e si tormentava al solo sospetto che le potessero contendere l'oggetto della sua passione.

Era per orgoglio? Per necessità? Per gratitudine verso la sua liberatrice che Violante rinunziava per sempre alla speranza di una gioia suprema? Era dunque così eroica quella fanciulla? A lei parve più grande. E pensò con sgomento che forse questa grandezza la rendeva agli occhi di Blasco più bella, più desiderata, più amata; amata come una cosa più alta, come una cosa di cielo. Ebbe invidia di quella creatura colpita dal fato tragico, dalle cui mani ella stessa aveva strappato il calice della felicità. Donna Gabriella glielo aveva strappato, vi aveva bevuto a lunghi sorsi, avidamente, lo aveva tenuto per sè, l'aveva lasciata sitibonda e senza speranza e tuttavia la invidiava per quel sacrificio eroico, nobile, silenzioso che era la sua forza.

Invidia, sì; ma con suo stupore donna Gabriella si accorse che nel suo cuore quel sentimento non aveva nulla di bieco e di odioso, se mai qualcosa che poteva anche parere ammirazione e riconoscenza. Ella diceva dentro di sè:

"Per me, è certo unicamente per me che Violante si sacrifica".

Se n'era andata a casa turbata, intenerita, umiliata, col cuore pieno di paure, di sospetti, pensando al ritorno di Blasco e a quello che doveva fare per incatenarlo a sè appassionatamente ed eternamente. Come? Con quali virtù nuove?

Qualche volta dei pensieri tristi e biechi venivano a tormentarla. Se non avesse ucciso Emanuele, Violante sarebbe soggiaciuta: invece di essere generosa, avrebbe dovuto rassegnarsi a diventare la complice del tristo giovane. Quale abisso non avrebbe scavato fra Blasco e Violante? Sì, ma come e quanto Blasco l'avrebbe poi odiata? Odiata? E non sarebbe stato meglio piuttosto che vivere nell'incertezza, nel dubbio, nel sospetto? Odiata? Ma ciò le avrebbe dato l'agio, la ragione di vendicarsi ferocemente e finirla... E poi?...

Così donna Gabriella era vissuta durante l'assenza di Blasco. Coriolano, che era andato a visitarla qualche giorno, non era riuscito a infonderle coraggio e a sollevarla dall'abbattimento in cui era caduta, anelando e temendo il ritorno di Blasco.

Quando Blasco, dopo essere stato dal generale conte di Montemar a consegnare la lettera, si presentò a donna Gabriella la trovò in una grande ansietà. La notizia che a Francavilla era avvenuta una sanguinosa battaglia, nella quale erano caduti, da una parte e dall'altra, tra morti e feriti, circa settemila uomini, con generali e ufficiali superiori, si era rapidamente diffusa per la città. Si diceva che nell'esercito spagnolo erano periti il tenente generale Caracciolo e il brigadiere Tauchur, che si trovavano con le guardie e i dragoni ai Cappuccini, intorno ai quali avevano sostenuto il maggiore urto dei tedeschi. Dei dragoni e delle guardie era avvenuta grande strage. Ciò era bastato perché donna Gabriella tremasse per la sorte di Blasco del quale non aveva saputo notizie.

Al vederlo entrare ella balzò in piedi correndogli incontro con le braccia aperte e con un grido nel quale vibravano tutte le voci del suo cuore ardente e tormentato: "Blasco mio!.."

Egli fu espansivo e tenero, ma a donna Gabriella non parve che nei suoi baci fosse quel fervore caldo di passione che ella aveva sognato nell'aspettazione. Supposizione o realtà, questo bastò per ridestare le ansie, i timori, i sospetti, le invidie, i tormenti assopiti, e agghiacciarle il sangue, smorzare il suo impeto; e allora notò che Blasco non sembrò accorgersi dell'improvvisa freddezza di donna Gabriella. Era preoccupato dunque da qualche altro pensiero? Da quel medesimo suo pensiero dominante? Ma Blasco non fece alcuna parola su Violante, anzi sembrava che evitasse ogni allusione a lei, o anche l'avvicinarvisi col discorso: appena si delineava la possibilità di parlarne, egli sviava la conversazione e aveva sempre un argomento pronto. Era per un riguardo a donna Gabriella? Era finzione?

Gli domandò con un tremito nella voce:

"Resterai qui sempre?..."

"Pochi giorni soltanto e ritornerò al campo."

Ella chinò il capo sul petto con un silenzio angoscioso; poi gli domandò ancora:

"Perché non mi conduci con te?"

"Ma non è possibile, amor mio; si vive sotto le tende, si dorme sulla paglia gettata per terra, esposti alle sorprese... E che gente, i soldati!... Sarei sicuro di dovermi battere venti volte al giorno per te: non già che questo mi spaventi, ma terrebbe te in una continua angoscia. No, no; non sono cose da pensarle neppure mezza volta... Del resto, la guerra non durerà a lungo. Noi non potremo resistere: gli imperiali sono più forti: Milazzo è in potere loro, hanno mezza Messina, nel mare sono padroni perché aiutati dagli inglesi... Vedrai che l'isola passerà all'imperatore e noi avremo fatto la guerra al Savoiardo per dare comodità al Germanico di pigliarsi la nostra bella isola. Da un padrone all'altro, sempre così!"

Si immergeva in quel discorso di guerra e di politica, del quale a lei non importava nulla. O spagnoli o austriaci o savoiardi, nessuno le avrebbe ridato il cuore di Blasco, il suo amore, la sua pace. Se fossero andati via, lontano anche dall'isola, in una città estranea, soli, forse allora ella avrebbe ripreso l'impero in quell'anima che le fuggiva. Ripreso? Si domandò se veramente aveva avuto mai quell'impero. Disse a voce bassa:

"Che m'importa dei disagi? Che m'importa dormire per terra? Ti starò sempre vicina, sempre... Mi travestirò da uomo, come se fossi un tuo paggio..."

Blasco rise. Le passò la mano sui capelli con una carezza e le disse:

"E queste belle chiome, dov'io mi diletto ad affondare le dita?..."

Per la cute e per le vene di donna Gabriella passò un fremito, fatto di sensazioni e di memorie. Chinò la testa sul petto di Blasco e mormorò con disperazione profonda:

"Ah, tu non mi ami più d'amore!.."

Blasco trasalì. Quella non gli parve la voce di donna Gabriella, ma una voce interiore, che ridestava la sua coscienza e lo costringeva a confessare quello che invano cercava di celare a se stesso. E tuttavia soffocò quella voce interiore, impose alla sua coscienza di mentire, destò nel suo cuore tutte le memorie più dolci, tutte le visioni delle ebbrezze colte su quella bocca ora alterata dal dolore, tutta la riconoscenza, la tenera amicizia che egli sentiva intensamente verso quella donna, destò tutte queste sensazioni, tutti questi sentimenti perché lei non vedesse la rovina di quella che era sembrata passione, e non era stata per lui che l'impeto di una giovinezza affascinata dalla beltà e ubriacata da una bocca fremebonda di baci...

Egli tentò di illudersi, di illuderla, di divertirla, ma nel suo cuore, nel cuore di Gabriella una voce ripeteva tristemente: "E finita! è finita!".

Egli però aggiungeva:

"Ma io non l'abbandonerò mai più! io sarò il suo tenero amico, fino alla morte".

La giornata passò malinconica. Nel pomeriggio, all'ora del passeggio alla strada Colonna o Marina, donna Gabriella andò a visitare Violante volendo indagare se qualche suo sospetto fosse fondato.

"Vuoi venire a passeggio con me, nella mia carrozza?" le domandò; "chiederemo il permesso al principe."

Ma Violante la ringraziò:

"Non esco mai di casa, signora madre;" aggiunse sorridendo, "la mia clausura è cominciata qui..."

La duchessa allora le sedette vicino; le lodò alcuni lavoretti di ricamo, le domandò poi se avesse veduto qualcuno.

"Chi mai?"

"Non saprei.... Credevo che qualche visita di dovere al principe... nella sua qualità di primo titolo del regno, trattandosi dell'annunzio di una vittoria delle armi del re."

"No, signora, non ho veduto alcuno..." "Ma certamente lui sarà venuto."

"Lui? Chi?"

"Don Blasco," fece la duchessa fingendo una disinvoltura e una indifferenza che però si tradivano nel lampo degli occhi scrutatori e nel pallore delle labbra.

Violante ebbe come una scossa: impallidì, ma sostenne lo sguardo della matrigna e rispose con voce limpida e serena:

"No; non è venuto; non l'abbiamo visto."

Allora donna Gabriella emise come un sospiro di sollievo, fu gentile e affettuosa e accomiatandosi promise che sarebbe ritornata e per la prima volta, dopo tanto tempo, si fece veramente condurre alla passeggiata alla Marina, per udire i musici del Senato, che quel pomeriggio eseguivano musica dello Scarlatti. Se avesse potuto voltarsi indietro o guardare oltre i muri, avrebbe veduto Violante cadere sopra un seggiolone, nascondere fra le mani il capo e soffocare i singhiozzi, ma in quel momento donna Gabriella era felice e non pensava a Violante.

Blasco non era però felice; non era neppure lieto. Un fardello pesava sopra le sue spalle e l'opprimeva. Coriolano lo punzecchiò un poco, poi gli disse:

"Voglio comunicarvi qualche notizia che può interessarvi..."

"Interessare me?"

"Sì, voi. Non avete pensato che per la morte di Emanuele voi siete l'ultimo degli Albamonte, del ramo primogenito?"

"Oh! un bastardo!"

"Non è la prima volta, nel diritto ereditario siculo, che un figlio naturale, riconosciuto, venga investito dei diritti dei legittimi e prenda i titoli e privilegi della casa. Manfredi III Chiaramonte era un figlio naturale e fu il più potente dei Chiaramonte, tanto da imparentarsi coi re. Dunque la vostra nascita non è un ostacolo. Se don Raimondo fosse vissuto forse avrebbe avuto diritto sopra di voi; e donna Violante potrebbe rivendicare a sè, come erede di suo padre, gli Stati della Motta; ma donna Violante rinunzia a ogni suo possibile ed eventuale diritto, perché entra in un monastero.

"Violante?..."

"Sì; che cosa volete che faccia? La povera fanciulla avrebbe forse trovato la gioia, la felicità, se avesse incontrato la mano che aspettava; ora non le rimane che seppellire sè e il suo dolore nella pace silenziosa del chiostro."

"Bisognava lasciarle il padre..."

"No. La giustizia non può essere misericorde; la giustizia punisce. Tocca all'amore spargere il miele sulle ferite: la giustizia uccise il padre reo; l'amore doveva far rivivere una nuova vita alla figlia innocente; voi, Blasco, non avete voluto. Ma non parliamo del passato: parliamo dell'avvenire... Da otto giorni è partito per Madrid don Girolamo Ammirata, in qualità di procuratore vostro, con la supplica al re, per il vostro riconoscimento..."

"Oh!" esclamò Blasco arrossendo.

"Alla supplica è unita una allegazione giuridica che svolge e commenta il nostro giure feudale e una lettera del conte di Montemar per il cardinale Alberoni..."

"Ma tutto ciò..."

"È cosa pienamente regolare. Fra uno o due mesi riceveremo le lettere reali; si farà il processo di investitura, e voi sarete l'illustrissimo Signor don Blasco Albamonte duca della Motta..."

"Grazie al sangue di due vittime e alle lacrime di una terza... Oh no, davvero..."

"Siete un ragazzo ancora! Vorrete forse avere scrupolo di prendere quello che è vostro, solo perché un ladro e un indegno soccombettero sotto il peso delle loro colpe? Via! non sono cose da pensarci!... Ho fatto bene ad agire senza il vostro consenso: sareste stato capace di impedirmelo..."

"Ma chi prova la mia origine?"

"Ah! credete dunque che io non abbia accumulato le prove? Voi mi avete raccontato più di quanto era necessario per procurarmele e d'altronde io ne possedevo."

"Voi?"

"Sì... Blasco lo guardò con vivo stupore.

"Come mai?"

"Che v'importa saperlo? Non dovrebbe riuscirvi difficile supporre che i mezzi di procurarmi ciò che mi occorre non mi manchino..."

"E vero."

Il dialogo continuò ancora un pezzo su questo tono.

Blasco si sentiva riempire il cuore di improvvise speranze e di subiti scoramenti. Qualche cosa lo sgomentava. Duca della Motta? Per fare che?

A che cosa gli sarebbero servite quelle ricchezze? Sarebbe forse diventato un altro uomo? La sua anima avrebbe acquistato o perduto qualche cosa di più? E la felicità avrebbe dischiuso soltanto allora le sue porte? Blasco da Castiglione sarebbe dunque morto e diventato una memoria? E con uno sguardo trepido vide come in uno scenario tutto il suo passato di avventure, di povertà, di colpi di spada, prigionie, fughe, amori d'un giorno, e tutto animato da una giocondità meravigliosa; e amò quel suo passato, amò quella vita ormai tanto lontana, amò la sua condizione di fanciullo abbandonato, sperduto nel mondo, che affrontava la vita con una spada al fianco, mezza pagnotta dura nel sacco, una bella canzone sulle labbra e lo splendore della giovinezza audace negli occhi!..

La sera, ritornato da donna Gabriella, egli era vivamente preoccupato da quella notizia e una nube gli oscurava la fronte; la duchessa si sentì stringere il cuore e non osò interrogarlo. Entrambi trascorsero quelle ore come sopraffatti da una fatalità maggiore, come oppressi da una sciagura imminente e incombente e si salutarono con un pallido sorriso, con un bacio senza fiamma, pieno di lacrime, simili a due che si separano per percorrere strade diverse e lontane, per le quali non si incontreranno mai più.